Apolloni has been in the art business for three generations and is one of Rome’s oldest and most illustrious antiques shops, selling many masterpieces to museums in Italy and abroad. After almost half a century the gallery has moved from Via del Babuino to the main ground floor rooms of the famous Palazzo Patrizi in Via Margutta 53b, Rome’s most artistic street. The building was constructed to house studios for artists and was where Picasso worked when in Rome in 1917. It is also where the British Academy was housed until 1937. The spacious rooms with their high ceilings and tall windows are ideal for displaying art, while the secret garden at the back, full of classical fragments and covered in ivy, unquestionably makes this one of the most beautiful galleries in Rome.
Founded : 1929
Specialisations
17th-19th century paintings, drawings, sculpture and works of art
Associations
A.A.I. Associazione Antiquari d’Italia
Fairs
FIERA ANTIQUARIA CITTÀ DI MODENA, Frieze Masters – London, Biennale Internazionale di Antiquariato di Roma, FlashBack Torino, Biennale Internazionale dell’Antiquariato di Firenze, WopArt Lugano
Directed by Marco Fabio Apolloni, the gallery has existed for three generations. During its successful history, it has sold many masterpieces to museums in Italy and abroad.
In 2012, Marco Apolloni and his wife founded Galleria del Laocoonte, presenting works by 20th century Italian artists through exhibitions in their gallery in Rome, fairs in Europe and even in museums.
Seven years later, they opened the Laocoon Gallery in London, presenting not only the best examples of paintings and drawings by Italian Old Masters, sculptures, fine art and furniture, but also works by early 20th century Italian artists, many of whom are completely unknown to the international market. In 2019, they opened a new space in Rome (Gabinetto dei disegni, via Margutta 53B) dedicated to exhibitions of works on paper from old masters to 20th century artists.
A ventun anni dalla scomparsa, dopo dieci anni dall’ultima retrospettiva a lui dedicata al Casino dei Principi di Villa Torlonia, la Galleria del Laocoonte presenta L’Occhio di Vespignani, una mostra dedicata all’artista romano Renzo Vespignani (1924-2001).
Twenty-one years after his death and ten years after the last retrospective dedicated to him, which was held at the Casino dei Principi in Villa Torlonia, Laocoon Gallery presents Vespignani’s eye, an exhibition devoted to the Roman artist Renzo Vespignani (1924-2001).
Renzo Vespignani
Il porto di Napoli dopo il bombardamento
1946
Inchiostri colorati su carta, cm 20×32
Renzo Vespignani
Periferia
1980
Tecnica mista su cartoncino, cm 35×50
Renzo Vespignani
Nudo seduto
1944
China su carta, cm 38,4×26,3
Renzo Vespignani
Manifestanti e Polizia
1957
China, acquerello e pastello su carta, cm 21×28
Renzo Vespignani
Nudo di ragazzo
1981
Tecnica mista su carta, cm 70,5×51,2
La mostra è stata concepita per cercare di ridare lustro alla fama un po’ appannata di colui che è stato il più dotato e straordinario disegnatore italiano del dopoguerra e uno dei più grandi incisori italiani della seconda metà del secolo scorso. Anzi, Vespignani è nato disegnatore proprio durante la guerra, i suoi primi disegni furono esposti nelle vetrine dell’auditorio dell’EIAR – la radio d’allora – per illustrare i concerti in programma, già nell’aprile del 1943. Nei mesi successivi gli avvenimenti avrebbero plasmato per sempre la personalità di un artista già completo, maturo e inimitabile a soli diciannove anni. A luglio il primo bombardamento a Roma, la caduta del fascismo subito dopo, l’armistizio e l’occupazione tedesca di Roma sono stati l’Accademia di Vespignani. Le macerie di San Lorenzo impestate dal lezzo dei cadaveri mal seppelliti sotto i crolli, quelle della sua stessa casa distrutta dal bombardamento di Portonaccio, nel marzo dell’anno seguente, sono state per il giovane artista come la foresta di Fontainebleau per i primi paesaggisti romantici francesi. La sua estetica è nata dalla contemplazione delle rovine della guerra, così come le rovine antiche hanno generato il genio di Piranesi. Il paragone non è ozioso, narra infatti un biografo contemporaneo (L. Bianconi) che il giovane Piranesi a Roma, disegnava giorno e notte, ma non Apolli e Laocoonti, bensì “i più sgangherati storpi e gobbi che vedeva il giorno per Roma… gambe impiagate, braccia rotte, e cudrioni magagnati… pezzi di carne da macello, teste di porco e di capretto”. Furono questi i primi esercizi dell’autore “Della Magnificenza ed Architettura de’ Romani”, purtroppo perduti, ma chi li vide lasciò scritto che tali studi di oggetti repellenti erano però eseguiti “maravigliosamente bene”. Allo stesso modo le case distrutte, i vagoni abbandonati sui binari morti, le periferie desolate, i cadaveri tirati fuori dal cumulo dei calcinacci, i cani stroncati la cui addolorata ferocia impedisce la pietà di un colpo di grazia, le puttanone discinte di Portonaccio, rovinate come per putrefazione dall’età e dal mestiere, sono i soggetti preferiti di Vespignani, terribili, ma disegnati “maravigliosamente bene”. Tanto da sembrare raffinatissime incisioni: tratti più sottili di un capello, slavati dal pennello come in un’acquatinta, intricati e insistiti come le più profonde morsure di un’acquaforte, la maestria di Vespignani non ha paragoni, tanto più perché non mostra la lenta evoluzione di un apprendistato, ma si rivela all’improvviso, come un frutto maturo che non sia mai stato fiore. Qualche suggestione dai disegni di Franco Gentilini, più anziano di una generazione. Un vecchio libro squinternato, rubato per caso da un carrettino, con delle riproduzioni di disegni di George Grosz. Tanto bastò a Vespignani per unire lo squallore delle periferie urbane di Sironi del primo dopoguerra col più squallido orrore di un secondo dopoguerra che ancora dolorosamente faticava ad arrivare, con gli angloamericani inchiodati ad Anzio per ben cinque mesi.
Mentre Roma era ancora occupata, furono Irene Brin e Gasparo dal Corso a scoprire Vespignani, capitato per caso alla “Margherita” di via Bissolati, un negozio di cose e libri usati e qualche opera d’arte, per smerciare “a due lire” i suoi disegni. Seguirà mostra del ’45 a gennaio e replicata a giugno, sempre alla “Margherita”, e l’anno dopo all’Obelisco, la neonata galleria d’arte che la coppia Brin-dal Corso trasformeranno nella più raffinata, attiva e cosmopolita di Roma. I disegni di Vespignani vanno letteralmente a ruba, tanto che nel corso della mostra stessa vengono richiesti all’artista altri disegni per sostituire quelli venduti. Oltre agli americani, ai ricchi e vecchi e nuovi, Irene Brin rammenta anche gruppi di liceali che acquistavano un singolo disegno in società per una manata di spiccioli frutto di una sofferta colletta.
Con il fascismo l’arte ufficiale era crollata come un fondale di cartone, come certi scarponi da avanguardista di cartone pressato tinti col lucido nero che Vespignani rammentava andavano in pezzi con la prima pioggia. Dietro la scena si era rivelato un paesaggio di rovine che erano quelle che Vespignani abitava da ragazzo, dopo una primissima infanzia agiata all’Esquilino, erano quelle in cui si aggirava da sfollato, con in tasca fragili certificati medici per evitare il pericolo di un rastrellamento. Era questa Accademia del disastro italiano quella in cui il Paese seppe contemplare le proprie piaghe riuscendo a farne una poesia che doveva stupire il mondo. La “Madre romana uccisa dai tedeschi”, disegnata da Vespignani, modellata e smaltata da Leoncillo, era in realtà calabrese e si chiamava Teresa Gullace, tutto il mondo però la conosce nelle sembianze di Anna Magnani in “Roma città aperta” di Rossellini, popolana falciata da una raffica di mitra mentre corre dietro a un camion carico di rastrellati.
Vespignani è stato forse non l’unico, ma certamente il più grande interprete del neorealismo nelle arti figurative. E la notorietà internazionale venne anche per lui, immortalato in foto da Alfred Eisenstaed nel 1947 – il fotografo del famoso bacio a Times Square – compare in una pagina di Life, le sue opere vengono acquistate dal MoMA e viene invitato a tenere una mostra a New York. Per quel che riguarda il mercato americano, fu però “a flash in the pan” – un fuoco di paglia, diremmo noi – l’arrabbiata militanza comunista di Vespignani gli chiuse ben presto le porte degli Stati Uniti, disegnare Eisenhower come uno scheletro armato a passeggio con De Gasperi e Scelba al guinzaglio non fu il massimo delle referenze per ottenere un visto.
Del resto anche in tempo di pace Vespignani rimase un “pittore di rovine”, negli anni del “boom” i palazzoni delle periferie che crescono come funghi nell’Italia del benessere sono disegnati, dipinti e incisi con gli stessi segni angosciosi con cui egli aveva descritto quelli distrutti dalle bombe della guerra: tutto il suo tempo è raccontato come un unico grande cataclisma, senza soluzione di continuità tra la rovina della seconda guerra mondiale e lo sviluppo industriale, la crescita urbanistica, l’inquinamento da questi generato. La crescita del benessere per Vespignani corrisponde sempre al degrado morale e materiale del consumismo, che nei volti e nei corpi rappresentati degenera in una sorta di lebbra o decomposizione, pur sempre “maravigliosamente bene” raffigurata.
Gli incidenti stradali, con lamiere accartocciate, cristalli in frantumi e corpi riversi sull’asfalto, vengono descritti come azioni di guerra – del benessere contro l’umanità – ma riprodotti con una raffinatezza e perizia nel dettaglio, un senso del sublime nell’insieme, che fanno di Vespignani un “poeta delle rovine” moderne così come Piranesi lo è stato di quelle antiche. Entrambi sono maestri nel rappresentare il disfacimento, quello della modernità sulla natura in Vespignani, quello della natura sugli antichi monumenti in Piranesi. Due estremi che si toccano e che paradossalmente si somigliano nel comunicare un senso di terribilità del destino umano. Unico riscatto della bellezza sul mondo in disfacimento sono i giovani corpi animati dalla forza della vita, quella dei bambini che crescono, quella dei giovani che si cercano e si abbracciano spinti dall’energia del desiderio.
Negli anni ‘60 Vespignani si sposa – con Netta, che conserverà sempre il nome da sposata, divenendo gallerista e mercante d’arte di punta sulla scena italiana – e diventa padre. La bellezza della moglie, tra la bambola di porcellana e il manichino di Carnaby street, aleggia nelle pitture di quel periodo come un idolo moderno. La tenera bellezza dei figli piccoli costretti alla tortura di lunghissime pose, di cui fa fede un filmato Rai visibile su YouTube – Vespignani disegna sempre dal vero, e anche quando si serve di fotografie d’epoca è capace di trasfigurarle in immagini più vere del vero – è immortalata in immagini che trasformano la lentezza del tempo d’esecuzione in un’istantanea di perfetta fattura.
Avendo avuto la possibilità di trascegliere i più belli tra i disegni della successione di Rossana Mataloni, ultima compagna dell’artista, e andando a cercare tra aste e raccolte private da alcuni anni a questa parte, i fogli di gioventù di Vespignani, la Galleria del Laocoonte ha potuto adunare un “corpus” di circa 40 disegni e cinque olii tra i più belli e rappresentativi dell’opera del Maestro.
Del periodo tra il 1944-47 sono alcune delle più belle – per bruttezza – Prostitute di Portonaccio, La casa di Vespignani bombardata, un vicolo di periferia stretto tra muri animato di personaggi, il Porto di Napoli dopo il bombardamento, e una Signora con cagnolino di struggente pateticità.
Degli olii il più antico è un Bue squartato, del 1951, che rammenta come di notte il giovane Vespignani andava meditando in tempo di guerra, a lume di candela e infagottato di lana, l’opera e le difficilissime incisioni di Rembrandt, misurandosi con esse già alla pari, magari su una lastra di rame, regalatagli da Luigi Bartolini, che allora era preziosa quasi fosse argento.
Una fosca Periferia, del 1965, raffigura un inquietante palazzone che pare mescolare la complessità della moderna tecnologia industriale con l’architettura onirica delle “Carceri” piranesiane.
Del 1971 è invece Netta allo specchio, perfetta sintesi di ritratto e pittura à trompe-l’oeil, in cui la moglie dell’artista sembra galleggiare fluorescente in un campo di luce che pare il fondo oro di un’antica pala d’altare.
Foto segnaletiche e L’Archivio del Pornografo del 1981, fanno parte di un intero ciclo di tele intitolato “Come mosche sul miele”, che fu esposto in una memorabile mostra a Villa Medici nel 1985. Erano e sono formidabili meditazioni sui “ragazzi di vita” che Pasolini aveva immortalato su pagina un quarto di secolo prima, quelli che di Pasolini furono ad un tempo vittime e carnefici. Foto segnaletiche ne cattura il volto come dopo qualche tragico fatto di sangue, mentre altre foto, di giovani volti e di giovani corpi paiono costituire un collage, assieme a ritagli di riviste pornografiche d’epoca, ma sono in realtà un vero e proprio tour-de-force di pittura illusionistica. Uno Zeusi scatenato nel retrobottega proibito di un giornalaio.
Dalla collezione romana “Facce del Novecento”, raccolta di ritratti d’artisti di cui la Galleria del Laocoonte sta curando la catalogazione, provengono due vere rarità: uno schizzo del 1947 con un Autoritratto che Vespignani dedicò e regalò ad Alfred Eisenstaed, il fotografo americano che lo aveva ritratto a sua volta per la rivista “Life”, e una bellissima e curatissima carta con il ritratto del pittore Muccini a letto malato. Quest’ultimo, Marcello Muccini (1926-1978), esordì in maniera altrettanto brillante, assieme a Renzo Vespignani, nel gruppo di pittori che si chiamarono “la banda di Portonaccio”, giovani arrabbiati che portarono polemicamente in mostra le loro opere per strada a Via Veneto. Purtroppo, nonostante i successi iniziali, finì per fare tetti di Roma con la manovella – cioè in serie – per una galleria del centro i cui soldi spese, per il resto della sua breve vita, soprattutto in bottiglie di Vodka.
Altri ritratti sono celati in fogli di grande virtuosismo tecnico, moltiplicati e deformati in superfici riflettenti curve, tra luci al neon e scritte pubblicitarie. Sono degli anni ’80 quando Vespignani può tornare finalmente a New York, componendo tra le luci e i martellanti messaggi commerciali della metropoli un ritratto della città che, concepito come critica impietosa, finisce per esserne la rutilante celebrazione.
Molti fogli sono in tecnica mista, modo facile per descrivere la maniera complesso con cui Vespignani disegnava a colori su carta, mescolando il lapis, le matite colorate, la polvere di pastello data a pennello, e molti altri accorgimenti ed attenzioni che rendono queste carte forse più preziose delle tele ad olio. Tra queste, un disperato braccio teso con chiodi e l’accenno d’un volto, che pare il dettaglio di una crocifissione in cui il Cristo viene lasciato appeso a imputridire. Un occhio, prodigioso per verità e somiglianza, tale che si è voluto scegliere a emblema di questa mostra: “L’occhio di Vespignani”, appunto, per intendere che egli era capace di vedere le cose come nessun’altro e come per magia capace di farle apparire sulla carta così come le vedeva.
Una finestra rotta, uno skyline di Manhattan, le “lucciole” – che non sono insetti – in attesa di notte sul ciglio di una strada, una vecchia “canara” tra edifici abbandonati, un levriero scorticato che corre velocissimo come se fosse trapassato da un cinodromo ad un girone infernale. Sono tante le cose osservate dal vero e trasfigurate nell’immaginazione dall’artista, di cui non mancano anche meticolosi omaggi a idolatrati colleghi del passato: a Rembrandt, a cui ruba il volto della dama con ventaglio che fu del principe Yussopov ed ora è alla National Gallery di Londra, a Van Gogh di cui spia nell’autoritratto il teschio sotto la pelle e mostra impudicamente la medicazione che copre la sua fin troppo nota automutilazione.
The exhibition was conceived to try to restore lustre to the somewhat tarnished reputation of a man who was the most gifted and extraordinary post-war Italian draughtsman and one of the greatest Italian engravers of the second half of the last century. Indeed, Vespignani became a draughtsman during the war, when his first drawings were displayed in the windows of the EIAR auditorium – the radio station of the time – to illustrate scheduled concerts as early as April 1943. In the following months, events would forever shape the personality of an artist who was already complete, mature and inimitable at only nineteen years of age. In July, the first bombing of Rome, immediately followed by the fall of Fascism, the armistice and the German occupation of Rome were Vespignani’s academy. The remains of San Lorenzo, impregnated with the stench of badly buried corpses amongst the rubble, his own house destroyed by the bombing of Portonaccio in March of the following year, were for the young artist like the forest of Fontainebleau for the first French Romantic landscape painters. His aesthetic was born from contemplation of the ruins of war, just as ancient ruins generated Piranesi’s genius. The comparison is not idle, as a contemporary biographer (L. Bianconi) recounts that the young Piranesi in Rome, drew day and night, but not Apollo and Laocoon, but ‘the most ramshackle cripples and hunchbacks that he saw during the day in Rome… legs stuck, arms broken, and skinny cudrioni… pieces of butcher’s meat, heads of swine and kid’. These were the author’s first exercises ‘Della Magnificenza ed Architettura de’ Romani’, unfortunately lost, but those who saw them left written that such studies of repulsive objects were nevertheless executed ‘maravigliosamente bene’, marvellously well. In the same way, the destroyed houses, the abandoned wagons on the dead tracks, the desolate suburbs, the corpses pulled from heaps of rubble, the mangled dogs whose grieved ferocity prevents the mercy of a coup de grace, the discarded whores of Portonaccio, ruined as if by putrefaction by their age and trade, are Vespignani’s favourite subjects, terrible, but drawn ‘marvellously well’. So much so that they seem to be refined engravings: strokes finer than a hair, washed out by the brush as in an aquatint, intricate and insistent like the deepest bites of an etching, Vespignani’s mastery is unparalleled, especially because it does not show the slow evolution of an apprenticeship, but reveals itself suddenly, like a ripe fruit that has never been a flower: a few suggestions from the drawings of Franco Gentilini, a generation older; a shabby old book, stolen by chance from a cart, with reproductions of drawings by George Grosz. This was enough for Vespignani to unite the squalor of Sironi’s urban suburbs after the First World War with the bleakest horror of a Second World War that was still painfully struggling to arrive, with the Anglo-Americans pinned down at Anzio for a good five months.
While Rome was still occupied, it was Irene Brin and Gasparo dal Corso who discovered Vespignani, who happened by chance to be at the “Margherita” in Via Bissolati, a shop selling used books and a few works of art, to sell his drawings “for two lire”. This was followed by an exhibition in January of 1945 that was replicated in June, again at the “Margherita”, and the following year at the Obelisco, then a newly-established art gallery that the Brin-Dal Corso couple would transform into the most refined, active and cosmopolitan in Rome. Vespignani’s drawings literally sell like hot cakes, so much so that during the course of the exhibition itself, the artist is asked for more drawings to replace those sold. In addition to the Americans, of both old and new money, Irene Brin also recalls groups of high school students who would buy a single drawing in society for a handful of pennies from a hard-earned collection.
With Fascism, official art had collapsed like a house of cards, like certain avant-garde boots made of from pressed cardboard and dyed with black polish that Vespignani recalled ravaged by the first rain. Behind the scene was revealed a landscape of ruins that were those inhabited by Vespignani as a boy, following an affluent early childhood at the Esquiline, here he wandered as an evacuee, with fragile medical certificates in his pockets to avoid the danger of a round-up. It was this Academy of Italian Disaster in which the country was able to contemplate its own wounds and turn them into a poem that would amaze the world. The ‘Roman Mother killed by the Germans’, drawn by Vespignani, modelled and enamelled by Leoncillo, was actually from Calabria and was called Teresa Gullace, but the whole world knows her in the guise of Anna Magnani in Rossellini’s ‘Roma città aperta’, a commoner mowed down by a machine-gun fire while running behind a truck loaded with round-ups.
Vespignani was perhaps not the only one, but certainly the greatest interpreter of neo-realism in the figurative arts, and international fame also came for him, immortalised in pictures by Alfred Eisenstaed in 1947 – the photographer of the famous kiss in Times Square – he appeared on a page of Life after his works were bought by MoMA and he was invited to hold an exhibition in New York. As far as the American market was concerned, however, it was somewhat of ‘a flash in the pan’ – with Vespignani’s angry communist militancy soon closing the doors that had opened so genially, drawing Eisenhower as an armed skeleton strolling with De Gasperi and Scelba on a leash was not the best of references for obtaining a visa.
After all, even in peacetime Vespignani remained a ‘painter of ruins’; in the ‘boom’ years, the suburban blocks of flats growing like mushrooms in Italy’s affluence are drawn, painted and engraved with the same anguished signs with which he had described those destroyed by the bombs of the war: his whole time is recounted as one great cataclysm, with no solution of continuity between the ruin of the Second World War and the industrial development, urban growth and pollution they generated. The growth of prosperity for Vespignani always corresponds to the moral and material degradation of consumerism, which in the faces and bodies depicted degenerates into a sort of leprosy or decomposition, though always ‘marvellously well’ depicted.
The road accidents, with crumpled metal sheets, shattered glass and bodies lying on the asphalt, are described as acts of war – of wealth against humanity – but reproduced with a refinement and expertise in detail, a sense of the sublime in the whole, that make Vespignani a modern ‘poet of ruins’ just as Piranesi was of ancient ones. Both are masters in representing decay, that of modernity on nature in Vespignani, that of nature on ancient monuments in Piranesi. Two extremes that touch each other and paradoxically resemble each other in communicating a sense of the terribleness of human destiny. The only redemption of beauty over the crumbling world are the young bodies animated by the force of life, that of children growing up, that of young people seeking each other out and embracing each other, driven by the energy of desire.
In the 1960s Vespignani married – to Netta, who would always retain her married name, becoming a leading art dealer on the Italian scene – and became a father. His wife’s beauty, between porcelain doll and Carnaby street mannequin, hovers in the paintings of that period like a modern idol. The tender beauty of the young children forced into the torture of long poses, of which a Rai film can be seen on YouTube – Vespignani always draws from life, and even when he uses period photographs he is able to transfigure them into images truer than life itself – is immortalised in images that transform the extent of the execution time into a perfectly crafted snapshot.
Having had the opportunity to transcend the most beautiful of the drawings from the succession of Rossana Mataloni, the artist’s last companion, and having searched through auctions and private collections for a few years now for the sheets from Vespignani’s youth, Galleria del Laocoonte has been able to assemble a ‘corpus’ of around 40 drawings and five oil paintings that are among the most beautiful and representative of the Maestro’s work.
From the period between 1944-47 are some of the most beautiful – in terms of ugliness – Prostitutes of Portonaccio, Vespignani’s house bombed out, a suburban alleyway squeezed between walls animated by characters, the Port of Naples after the bombing, and a Lady with a Little Dog of poignant feebleness.
Of the oil paintings, the oldest is A quartered Ox, dated 1951, which recalls how during wartime a young Vespignani would go meditating at night, by candlelight and wrapped in wool, on Rembrandt’s work and the extremely difficult engravings, measuring himself against them already as an equal, perhaps on a copper plate, given to him by Luigi Bartolini, which at the time was almost as precious as silver.
A gloomy Suburbs, from 1965, depicts an unsettlingly large building that seems to mix the complexity of modern industrial technology with the dreamlike architecture of Piranesi’s ‘Carceri’.
Netta before the mirror, 1971, is a perfect synthesis of portrait and trompe-l’oeil painting, in which the artist’s wife seems to float fluorescently in a field of light that resembles the gold background of an antique altarpiece.
The mugshots and The Pornographer’s Archive from 1981 are part of a whole cycle of canvases entitled ‘Like Flies on Honey’, which was exhibited in a memorable exhibition at Villa Medici in 1985. They were and are formidable meditations on the ‘boys of life’ that Pasolini had immortalised on the page a quarter of a century earlier, those who were at once Pasolini’s victims and executioners. The mugshots capture their faces as if after some tragic act of bloodshed, while other photos, of young faces and young bodies seem to constitute a collage, together with clippings from pornographic magazines of the time, but are in fact a veritable tour-de-force of illusionistic painting. A Zeusi unleashed in the forbidden backroom of a newsagents.
From the Roman collection ‘Facce del Novecento’ (‘Faces of the 20th Century’), a selection of artists’ portraits that the Laocoon Gallery is in the process of cataloguing, come two true rarities: a 1947 sketch of a self-portrait that Vespignani dedicated and gave as a gift to Alfred Eisenstaed, the American photographer who had in turn portrayed him for ‘Life’ magazine, and a beautiful, well-kept paper with a portrait of the painter Muccini in bed sick. The latter, Marcello Muccini (1926-1978), made his equally brilliant debut, together with Renzo Vespignani, in the group of painters who called themselves ‘the Portonaccio gang’, angry young men who polemically exhibited their works in the streets of Via Veneto. Unfortunately, despite his initial successes, he ended up cranking out roofs of Rome – i.e. in series – for a gallery in the centre whose money he spent, for the rest of his short life, mainly on bottles of Vodka.
Other portraits are concealed in sheets of great technical virtuosity, multiplied and deformed in curved reflective surfaces, amidst neon lights and advertising lettering. It was in the 1980s when Vespignani was finally able to return to New York, composing a portrait of the city amidst the lights and pounding commercial messages of the metropolis that, conceived as a merciless critique, ends up being its glowing celebration.
Many of the sheets are in mixed media, an easy way to describe the complex way in which Vespignani drew in colour on paper, mixing lapis, coloured pencils, pastel powder applied with a brush, and many other tricks and cares that make these papers perhaps even more precious than oil canvases. These include a desperate outstretched arm with nails and the hint of a face, which looks like the detail of a crucifixion in which Christ is left hanging to rot. An eye, prodigious in truth and resemblance, such that it was chosen as the emblem of this exhibition: ‘Vespignani’s eye’, precisely, to mean that he was capable of seeing things like no-one else and – as if by magic – could make them appear on paper as he saw them.
A broken window, a Manhattan skyline, ‘fireflies’ – which are not insects, in Italian a way of saying “prostitutes” – waiting at night on the side of a road, an old ‘canara’ among abandoned buildings, a flayed greyhound running as fast as if it had run from a dog track to a circle of hell. There are many things observed from life and transfigured in the imagination of the artist, who also pays meticulous homage to idolised colleagues of the past: to Rembrandt, from whom he steals the face of the lady with a fan that once belonged to Prince Yussopov and is now in the National Gallery in London, to Van Gogh whose skull under the skin he spies in the self-portrait and impudently shows the dressing that covers his all too well known self-mutilation.
ARTE IN NUVOLA
DAL 17 AL 20 NOVEMBRE 2022
STAND A37-39
La Nuvola Viale Asia 40/44 – Roma (EUR)
17 novembre – dalle 15:00 alle ore 20:30 18-19-20 novembre – dalle ore 10:30 alle ore 20:30
La Galleria del Laocoonte presenta un “nuovo” Augusto, il capolavoro di Partick Alò. In questa seconda edizione della fiera romana “Arte in Nuvola” (17-20 novembre 2022) la Galleria del Laocoonte (Roma/Londra) ha il singolare privilegio di poter esporre un’opera monumentale, appena in tempo finita, dello scultore Patrick Alò. L’artista romano, talentuoso assemblatore di rottami metallici che ridanno un’altra vita alle statue classiche dell’antichità di uomini e dei, che assumono così l’aspetto di automi o organismi cibernetici, si è misurato da par suo con la trionfale scultura dell’Augusto “loricato” (cioè con corazza), o Agusto di Prima Porta, scoperto nel 1863 nel sito della Villa di Livia – Livia Drusilla, moglie e poi vedova del primo imperatore di Roma e madre di Tiberio – ora tra i massimi capolavori conservati ai Musei Vaticani. Come quella antica in marmo pario, la scultura di Patrick Alò supera i due metri, quasi tre compreso il piedistallo, raggiungendo così la stessa superumana maestà dell’originale classico, volutamente ispirato al “Doriforo” (“Portatore di lancia”) del maestro del canone ideale e dell’equilibrio del “contrapposto”, il venerato maestro greco del V secolo, Policleto. Al tempo della sua scoperta, l’Augusto di marmo stupì i contemporanei poiché essa recava ancora, ben visibili, le tracce della sua originaria policromia: rossi il mantello e la tunica, decorati d’azzurro le fasce di cuoio alle spalle sotto la vita, colorati gli occhi, le labbra e i capelli. Una palese contraddizione rispetto all’uniforme candore della scultura neoclassica. Patrick Alò ha rimeditato la policromia antica, spruzzando d’un rosso di minio il panneggio del mantello militare dell’Imperatore, fatto di lamiera d’automobile contorta dal ragno dello sfasciacarrozze. Bianca come un elettrodomestico è la tunica sotto la corazza e sporcati d’oro i tondini di ferro nervato che costituiscono le frange delle spalle e quelle che cadono giù dalla cintola di Augusto. La corazza è invece assemblata con rottami d’acciaio, come a sottolineare l’assoluta invulnerabilità del sommo comandante militare dell’Impero, privo delle figurazioni simboliche a rilievo che ornano la scultura antica originale, la cui minuziosità avrebbe inutilmente appesantito l’anatomia essenziale della lorica “musculata”, che nella creazione di Alò trasforma l’antico “imperator” in un futuribile guerriero spaziale. Il corpo tutto di spoglie meccaniche di ferro è esso stesso come un’armatura articolata, in cui la carne si fa macchina e le naturali articolazioni meccanismo, trasfondendo nel corpo umano del combattente romano all’arma bianca tutto lo stupefatto orrore della guerra moderna. Patrick Alò non è partito da una riflessione ideologica sulla natura del potere assoluto, ma misurandosi con l’opera antica attraverso il suo metodo artistico, quello cioè di ricreare il modello classico usando le “disjecta membra” (parti disperse, in latino) della nostra civiltà tecnologica, ha ottenuto un “imperator” fatalmente mutato in “terminator”, macchina crudele che di umano ha solo l’aspetto esteriore, capace di coniugare la “summa auctoritas” che essa simboleggia, con la “summa iniuria” di cui solo il sommo potere è capace. Tutto ciò è concentrato in quel sottile e rigido scettro d’acciaio che Agusto tiene con la sinistra leggermente appoggiato sulla spalla, che tanto rammenta quello che Foscolo cantò nei Sepolcri, spogliato nudo dagli allori della retorica cortigiana, grondante del sangue e delle lacrime dei sudditi soggetti. Un monito ben valido ancor oggi. La verità del nudo di donna attraverso gli occhi degli artisti del Novecento italiano. La verità è nuda ed è donna, l’ha detto per primo in greco il filosofo scettico Pirrone – che da giovane pare avesse fatto il pittore – e tale l’hanno rappresentata Botticelli e Bernini, tanto per nominare solo due grandi tra gli antichi italiani, o in tempi più recenti Gerôme e Klimt. La Galleria del Laocoonte sta preparando per il 2023 una mostra sul nudo di donna nell’arte del Novecento italiano, che si intitolerà “Nude”, proprio per dimostrare in questi tempi di diffuso e confuso puritanesimo, che la nudità è verità, e che la verità è sempre bellezza. Che il corpo della donna è più bello senza veli, perché la bellezza della verità è sempre un disvelamento e non un coprire, e che la vergogna è paura della verità, come ben seppero i nostri primi progenitori Adamo ed Eva. Di questa mostra si è voluto ammannire un assaggio, anticipare una scelta, per i visitatori di “Arte in Nuvola”, appendendo su un’unica parete, uno accanto all’altro, tre capolavori del ‘900 italiano: l’audace “Nudo di donna con mantello nero” di Virgilio Guidi del 1914, il monumentale “Nudo di ballerina dormiente” di Primo Conti del 1926 e il poeticissimo “Sogno”, del 1936, di Nino Bertoletti. Virgilio Guidi (Roma, 1891-Venezia, 1984) espose questo nudo alla IIIa mostra della Secessione Romana del 1915, mostrando un’audacia di soggetto e di espressione che mostrano una precoce aderenza alle più avanzate avanguardie artistiche dell’epoca. Un’audacia che sembra personificata ai limiti della divertita impudenza dalla modella stessa, che si mostra senza alcun complesso agli occhi del pittore che la dipinge e del pubblico che la guarda nella piena verità del suo essere donna e non un nudo classico copiato da qualche gesso d’Accademia con aggiunta di un po' di colore. Primo Conti (Firenze, 1900-Fiesole, 1988), che oltre che pittore fu anche compositore, è stato il Mozart della pittura italiana del ‘900, nel senso che manifestò il suo grande talento già “in calzoni corti” esponendo e facendosi notare già all’età di 11 anni, anche se crudelmente si potrebbe dire che non ebbe in sorte, come Mozart, di lasciare al culmine della sua arte questo mondo. Il “nudo di ballerina dormiente”, esposto con grande successo alla XVa Biennale di Venezia del 1926, rappresenta uno dei risulatati più alti della sua pittura per capacità d’impatto, bravura di composizione, preziosità di colore e di materia. Quella che potrebbe essere solo una foto “cochonne”, di qualche aspirante divetta del muto, con i capelli alla bebè e un neo dipinto, raggiunge le dimensioni di un nudo tizianesco destinato a un re di Spagna, quello di una Venere infantilmente imbronciata nel sonno, che le sonore sferzature delle pennellate che la circondano – il rosso fiammante di un copriletto, il blu cupo di una tenda – non sono ancora riuscite a svegliare. Nino Bertoletti (Roma, 1889-1971), oggi più noto come marito della sua modella Pasquarosa che gli divenne moglie e pittrice di talento, è stato in realtà pittore delicatissimo e poetico, uomo colto e aggiornato, amico di De Chirico e Luigi Pirandello, la cui reputazione ingiustamente soffre per la scarsa presenza di opere sue nei musei pubblici. Con “Sogno” del 1936, esposto alla XXa Biennale di Venezia, egli avventura la sua fantasia in un realismo magico che sfiora l’effetto surreale. Una giovinetta ancora acerba addormentata su una coltre stesa sul pavimento vola alta in un cielo fioccante di nuvole che potrebbe essere tanto d’alba che di crepuscolo, mentre sotto di lei rimpicciolito scorre un paesaggio deserto quasi metafisico. Potrebbe essere proprio lei una personificazione dell’alba che stenta svegliarsi, come in una allegoria del Seicento dipinta da Magritte. Gli Artisti dell’Eur alla Galleria del Laocoonte. Sono passati 80 anni dalla data in cui si sarebbe dovuta tenere l’Esposizione Universale di Roma del 1942, per la quale fu creata quell’utopia urbanistica che è l’Eur di cui la Nuvola è certo l’ultimo postumo omaggio d’architettura visionaria. La Galleria del Laocoonte, per gusto, e un po' per polemica antimodernistica, ma non per nostalgia politica, ha sempre preferito, nelle sue scelte artistiche, opere moderne che rammentino la tradizione artistica italiana legata all’antico esempio della classicità: da Sironi a Funi, da Cambellotti e Severini fino ad arrivare a Savinio, a Leoncillo, e ultimamente a Clerici ed Eugen Berman. Perciò in omaggio agli 80 anni dell’Eur un’intera parete dello stand della Galleria sarà dedicata agli artisti che vi lavorarono esponendo i disegni preparatori per i mosaici della Fontana Luminosa presso il Palazzo degli Uffici: l’intera serie, dedicata alle allegorie del “Mare Nostrum”, di Giovanni Guerrini (Imola, 1887-Roma, 1972), pittore e geniale inventore, come architetto, del Colosseo Quadrato. Influenzati dai mosaici bianchi e neri scoperti negli scavi di Ostia sono anche alcuni bozzetti di Gino Severini per la stessa opera. Di Giorgio Quaroni è invece un primo disegno preparatorio per l’affresco della “Fondazione di Roma” per la sala delle Riunioni dello stesso Palazzo. Oltre a questi saranno esposti disegni e bozzetti per il Foro Italico di Gino Severini e di Achille Capizzano (Rende, 1907-Roma, 1951) talentuoso e sfortunato artista calabrese. Un ulteriore omaggio all’Eur sarà la presenza dei bozzetti, di Publio Morbiducci, di due dei quattro cavalli componenti la Quadriga di bronzo che avrebbe dovuto sormontare la mensola sulla facciata del Palazzo dei Congressi. La commissione fu scippata al timido ma elegante Morbiducci dal più giovane e impetuoso Francesco Messina, che arrivò a terminare i gessi finali dell’opera che però non fu mai gettata in bronzo per trover posto in facciata. I bronzi furono realizzati solo molti anni dopo per la villa Le Rughe del presidente della Repubblica Giovanni Leone. In mostra la Galleria del Laocoonte presenterà i modelletti in bronzo per la Quadrica di Francesco Messina, originali del 1941. A questi si uniscono due studi in bronzo, con Romolo e Remo ognuno accompagnato da un cavallo di Publio Morbiducci. Anche Achille Funi lavorò all’EUR. Di questo grande artista e frescante instancabile viene presentata la grande tela Venere Latina, del 1930, oltre ad alcuni disegni di nudi maschili, ed altri di Publio Morbiducci che lavorò alla realizzazione delle colossali statue di atleti per il Foro Italico. Per finire, come postumo controcanto ai cavalli per l’E42 si espone “Pro-Menade” di Fabrizio Clerici, grande dittico in due tele in una delle quali irrompe, rosso come se fosse arroventato, il cavallo di bronzo di Capo dell’Artemisio, ora al Museo Archeologico d’Atene. Sono inoltre esposti disegni di Eugen Berman (S.Pietroburgo, 1899-Roma, 1972), ebreo russo che fu parigino, newyorkese, hollywoodiano, ma che volle finire la sua vita a Roma, a Palazzo Doria-Pamphilj, in mezzo alle sue collezioni d’archeologia da cui traeva ad un tempo conforto e ispirazione per i suoi fantasiosi e sognanti disegni. Di Duilio Cambellotti (Roma, 1876-1960) – di cui la Galleria del Laocoonte possiede molte opere – sono esposte una grande tempera per il manifesto dell’Orestea, un’altra che raffigura la pena delle Danaidi ed infine un paesaggio innevato della Sila, realizzato per la ferrovia locale. Ancora una scultura, scolpita nel peperino degli etruschi, che ritrae Esmeralda Ruspoli (Roma, 1928- Lipari, 1988), da bambina, come un’artista di circo del periodo rosa di Picasso con scimmiette al seguito, deliziosa e un po’ enigmatica opera di Andrea Spadini (Roma, 1912-1983), grande scultore e ceramista – a cui si deve tra l’altro l’orologio musicale allo zoo di Central Park e la decorazione del tetrino della villa di Alberto Sordi -della cui opera, con una grande mostra nel 2019, la Galleria del Laocoonte ha riproposto la funambolica e incantevole virtuosità artistica.
La Galleria W. Apolloni existe depuis trois générations et elle est l’une des plus anciennes galeries d’antiquités de Rome. Ouverte par Wladimiro en 1926 dans la Via Frattina, son fils Fabrizio a transféré la galerie dans la Via del Babuino, en 1970, occupant trois étages avec quatre vitrines sur la rue qui ont toujours prodigieusement attiré l’attention des passants. Après presque un demi-siècle, la galerie a été transferé à Via Margutta, au cœur de l’ancienne rue des artistes, dans les salles principales du Palazzo Patrizi, construit au milieu du XIXe siècle pour abriter des ateliers d’artistes et où Picasso a travaillé lors de son passage à Rome en 1917. Les grandes salles avec leurs hauts plafonds, jadis ateliers de sculpture, avec leurs hautes fenêtres, qui capturent la lumière du Nord, sont un espace d’exposition idéal pour les œuvres d’art ancienne.
Fabrizio Apolloni (1928-2006) a commencé à travailler en 1948 après la mort de son père, et a rapidement acquis une haute réputation non seulement en Italie, mais aussi en Angleterre, en France et aux États-Unis. Il était un grand ami et un conseiller de confiance pour des chercheurs et des grands collectionneurs tels que Mario Praz et Luigi Magnani. Dans la Fondazione Magnani de Parme, devenue musée, la Musa Tersicore d’Antonio Canova, le Hamlet avec le fantôme de son père d’Henri Füssli et la grande coupe en malachite offerte à Napoléon par Alexandre Ier de Russie figurent parmi les chefs-d’œuvre que Fabrizio a vendus au collectionneur.
Depuis 2006, le propriétaire est Marco Fabio, le fils de Fabrizio, qui a étudié au prestigieux Courtauld Institute de Londres. En 2012, il a fondé avec son épouse, Monica Cardarelli, la Galleria del Laocoonte, galerie dediée aux arts figuratifs du XXe siècle avec un intérêt particulier pour le dessin et la peinture. Le nom est lié à la présence dans la galerie d’une grande sculpture en marbre du Laocoon, une version maniériste du groupe classique, réalisée par le sculpteur florentin Vincenzo de’ Rossi (1525-1587), auteur des Travaux d’Hercule dans le Salone dei Cinquecento du Palazzo Vecchio.
Spécialiste du peintre Luigi Sabatelli et du grand dessinateur Alberto Martini, auxquels elle a consacré respectivement son mémoire de master en Histoire de l’Art (Sapienza Università di Roma) et son diplôme de spécialisation (Università degli Studi di Firenze), Monica Cardarelli a été curatrice de plusieurs expositions et publications consacrées aux œuvres sur papier: Pietro Gaudenzi. Gli affreschi perduti del Castello dei Cavalieri ai Rodi (Rome, 2015), Cartelloni e Copertine (Florence, 2015), Cartoni. Disegni Smisurati del ‘900 Italiano (Bologne, 2017), Io sono Cambellotti (Sabaudia, 2017), Leoncillo. Le Ceramiche. Le Carte (Rome, 2019), XX. Il Genere Femminile nel ‘900 Italiano (Florence, 2019), Publio Morbiducci. Nudi Maschili (Rome, 2020), Alberto Martini. Masks and Shadows (Rome-Londres 2021). Grâce à ces expositions, à la participation aux plus importantes foires nationales et internationales (Wopart, Brafa, Paris Fine Arts, London Art Week) et à la publication d’articles et de livres, la galerie vise à élargir et à enrichir la connaissance du public et la diffusion parmi les collectionneurs et les musées des œuvres d’artistes italiens de la première moitié du XXe siècle, une période de l’art italien moins connue que celle de son passé plus lointain ou de l’art contemporaine.
Depuis 2019, cette mission est également assurée par la Laocoon Gallery, ouverte par Marco Fabio Apolloni et Monica Cardarelli au cœur de St. James’s à Londres. Cette galerie a pour objectif de présenter au public anglais non seulement une sélection des meilleurs exemples de peintures, dessins, sculptures, objets d’art et meubles anciens de haute qualité, mais aussi des œuvres de certains des plus importants artistes italiens du XXe siècle.
Una mostra promossa dalla Galleria del Laocoonte in collaborazione con la Galleria W. Apolloni
Dal 9 giugno 2022 in cinque sedi a Roma:
Galleria W. Apolloni – Via Margutta 53b
Gabinetto dei disegni – Via Margutta 53b
Spazio Laocoonte Antico/Contemporaneo – Via Margutta 81
Galleria Del Laocoonte – Via Monterone 13
Galleria Del Laocoonte – Vicolo Sinibaldi 5
A Roma da giovedì 9 giugno al 31 ottobre 2022 Monica Cardarelli, titolare della Galleria del Laocoonte, e Marco Fabio Apolloni, erede e responsabile della galleria antiquaria W. Apolloni promuovono uno straordinario omaggio all’arte di Fabrizio Clerici, artista di grande importanza ammirato al di qua e al di là dell’Atlantico, di cui nel 2023 è prossimo il trentesimo anniversario dalla morte.
L’arte di Clerici espressa nei suoi ottant’anni di esistenza e la sua personalità hanno suscitato l’entusiasmo di grandi scrittori, tanto italiani quanto stranieri quali Mario Praz, Leonardo Sciascia, Alberto Savinio, Dino Buzzati, Vincenzo Consolo – che in abito settecentesco ne fece uno dei protagonisti del suo romanzo “Retablo”- ed ancora Jean Cocteau, Julien Green, Marcel Brion, Dominique Fernandez, tanto per nominare i maggiori.
Clerici, autentico spirito aristocratico e schivo e artista veramente originale, si è sempre tenuto lontano dalla gazzarra carnevalesca delle neo-avanguardie, e non poteva non essere avversato dagli ignoranti critici del contemporaneo, quanto amato, invece, dai più colti storici dell’arte d’Italia – Giuliano Briganti, Federico Zeri, Vittorio Sgarbi – ai cui occhi raffinati non potevano sfuggire le affettuose e intelligenti assonanze con la cultura figurativa del passato.
La mostra si articola in cinque distinte location per celebrare un artista di grande importanza non solo per Roma, che ha saputo celebrare e glorificare da par suo, ma anche e soprattutto per la maniera elegantissima con cui è riuscito a intrecciare la propria italianità nell’ordito del gran gusto cosmopolita dall’immediato dopoguerra in poi.
Nel contesto della galleria d’antiquariato W. Apolloni in Via Margutta 53/b, già studio di scultura di Palazzo Patrizi, tra mobili e oggetti antichi sarà possibile ammirare il vasto dittico “Pro-Menade” (1973), dove il cavallo bronzeo dell’Artemision – un capolavoro ellenistico recuperato in mare, ora al Museo Nazionale di Atene – irrompe arroventato nella solitudine metafisica di una stanza vuota, raggiungendo una potenza d’immagine sovrannaturale, come se il demone equino de “L’Incubo” di Füssli fosse stato ridipinto da Magritte. Un’altra pittura, “Labirinto” (1966), ripropone la mitologica architettura di Dedalo per Creta, al centro del quale Clerici aveva già inventato un anfiteatro e arena taurina convertita in tribunale, nel suo famoso “Minotauro che accusa pubblicamente sua madre” (1949) – di cui qui in mostra nella sezione della grafica – è presente una bellissima versione disegnata nel 1966. Tra le altre opere in mostra si segnalano i “Due Templi dell’uovo” (1956), architetture concentriche di grande suggestione, rovine di un remoto culto immaginario ideate dal visionario e preciso architetto che ha sempre abitato nella mente del Clerici Pittore e “Il S. Sebastiano” (1949), quasi una miniatura, tra le prime pitture di Clerici. In essa, nel martirio, la figura dell’arciere e del santo si confondono, l’uno quasi sosia dell’altro, mentre le frecce si conficcano non sul corpo di Sebastiano, ma sulla tela di una sua immagine dipinta.
Imperdibili oltre ad un “Autoritratto”, vi sono una “Cornucopia” che pare una degenerazione barocca di quei “grilli”, ovvero multiformi creature mostruose, rappresentate nelle gemme incise dell’antichità, che furono studiate da Jurgis Baltrušaitis nel suo “Medioevo Fantastico”. Non manca un “Omaggio a Dürer”, dove il famoso Rinoceronte inciso nel 1515 dall’artista tedesco, e ridisegnato da Clerici si specchia, come un Narciso incantato dalla propria catafratta bruttezza. In “Omaggio a Böcklin” gli arieti-sfinge del dio egiziano Ammone costellano un paesaggio in cui svettano i cipressi de L’isola dei Morti, un quadro che lungamente ossessionò Clerici negli anni ‘70 e ‘80.
Un grande disegno dipinto a biacca si trasforma in un finissimo bassorilievo: non a caso, perché questo “Naufragio dei Pulcinella” (1950), è preparatorio per un grande rilievo in stucco della Villa Cicogna a Venezia, di cui Clerici curò il rifacimento e la decorazione dal 1948 al 1954. Dell’impresa veneziana per la contessa Anna Maria Cicogna di Misurata, in cui Clerici fu architetto, artista e direttore di artisti, Monica Cardarelli pubblica in catalogo la lunga storia, ricostruita grazie all’inedito carteggio tra il pittore e la contessa per la prima volta integralmente pubblicato.
Concludendo le segnalazioni delle opere in mostra vi sono quattro paesaggi metafisici di stupefacente e inquietante bellezza: sono i bozzetti delle scene del balletto “Le Creature di Prometeo”, musicato da Ludwig van Beethoven per il coreografo Salvatore Viganò nel 1801. Clerici le realizzò per la versione messa in scena nel 1963 a Colonia e a Vienna dal coreografo Aurel Milloss.
Nel Gabinetto dei disegni adiacente alla Galleria W. Apolloni di Via Margutta 53b vengono esposti i 39 disegni originali che hanno dato vita a quel capolavoro del divertissement culturale di Fabrizio Clerici che è “…alle cinque da Savinio”. I disegni, tracciati a mano libera, quasi sempre con un pennarello rosso fine, provengono da un unico taccuino preparatorio per la celebre pubblicazione affidata nel 1983 all’edizione di Franca May. Si tratta di disegni che fanno rivivere l’antica amicizia fra Savinio e Fabrizio Clerici, che di quel volume illustrato fu l’autore delle tavole e il committente.
Quando Clerici fece stampare il volume di illustrazioni “Alle Cinque da Savinio” con prefazione di Leonardo Sciascia, tutti videro, nel repertorio ornitologico in 48 tavole, in cui – uccelli di ogni razza interpretavano come in “tableaux vivants” le scene di vita quotidiana e le cerimonie di un’umanità borghese ormai scomparsa – un esercizio estremo nel genere dell’autoritratto: non nel rappresentare se stessi, ma tutti gli altri come se stesso.
Fabrizio Clerici, nato ventidue anni dopo Savinio, ebbe con lui un sodalizio di cui rimane concreta testimonianza scritta nell’introduzione con cui Savinio aveva accompagnato, nel 1942, dieci litografie di “Capricci”, che lo scrittore afferma in modo lusinghiero doversi guardare “col terzo occhio che al dire degli stoici ci portiamo al sommo del cervello, e col quale guardiamo i sogni”. Trent’anni dopo la morte dell’amico, Clerici si divaga di un inverno di malattia riempiendo un piccolo album di Scene di Vita di Volatili borghesi, ritratti alla maniera di Savinio, spesso in camere e sale metafisicamente spoglie, impegnati nella liturgia sociale di una belle époque che par precedere la Prima Guerra Mondiale.
Nello spazio Laocoonte Antico/Contemporaneo è esposta una preziosa scelta di disegni e litografie di Fabrizio Clerici. L’opera più antica presente in mostra è un ironico “Autoritratto in veste di Generale Martinicano” (1932), in cui Clerici si presenta nella bizzarra uniforme di un caudillo da operetta.
Del 1942 sono invece una serie di litografie dal segno grasso che ricorda il fare di Savinio, tra le quali vi è la struggente “Fine degli Omenoni” che immagina la rovina dei giganti di pietra che reggono la facciata del palazzo milanese che fu dello scultore Leone Leoni.
Del 1945 è una coppia di meticolosi disegni a punta d’argento: “Cavolo Imperatore” dove una grande verza, dall’orlo delle foglie baroccamente arricciolate è posta su un elaborato piedistallo rococò. Altro disegno esposto è “Souvenir d’Italie”, dove alcuni dei più famosi dipinti d’Italia – Antonello da Messina, la Fornarina, il ritratto d’Alfieri di Fabre, Beatrice Cenci- vengono mostrati ridotti a brandelli. Non si era spento ancora l’eco della tragica battuta di Longanesi sulla distruzione d’Italia: “Ci stanno rovinando gli originali delle foto Alinari!”.
Per il “Satyricon” di Petronio, edito nel 1963, è una tempera di “Mostri” con maschere teatrali da commedia antica, mentre è del 1966 il disegno del “Minotauro che accusa pubblicamente sua madre”, terribile riflessione sul sentirsi “mostro” dalla nascita.
Nello stesso anno Clerici si dedica a illustrare l’“Orlando Furioso” dell’Ariosto, stampato poi nel 1967: preparatori per due tavole dell’opera, sono il disegno per la Cattura di Orlando pazzo, e quello per il Duello tra Bradamante e Marfisa.
Un grande disegno acquarellato, “Follia” (1968), segna l’inizio di un’epoca in cui, in Italia soprattutto, il sonno della ragione generò mostri ben più spaventevoli di quelli dell’Ariosto.
In ultimo si segnala il dittico “Chambre bien obscure” (1982) che fa il verso all’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert, presentando delle tavole dedicate all’ottica perfettamente credibili, se non fosse che a disegnare sono rappresentati degli scheletri animati, scappati da qualche danza macabra per inquietare le scientifiche certezze dell’illuminismo. E ancora la grande tempera “Luce di Lessing” (1980), in cui la statua del Laocoonte celebrata dal filosofo tedesco nel 1766 viene sdoppiata in una delle più affascinati “variazioni sul tema” che Clerici ha dedicato al dolente capolavoro della scultura ellenistica.
La Galleria W. Apolloni existe depuis trois générations et elle est l’une des plus anciennes galeries d’antiquités de Rome. Ouverte par Wladimiro en 1926 dans la Via Frattina, son fils Fabrizio a transféré la galerie dans la Via del Babuino, en 1970, occupant trois étages avec quatre vitrines sur la rue qui ont toujours attiré l’attention des passants. Après presque un demi-siècle, la galerie a déménagé à Via Margutta, au cœur de l’ancienne rue des artistes, dans les salles principales du Palazzo Patrizi, construit au milieu du XIXe siècle pour abriter des ateliers d’artistes et où Picasso a travaillé lors de son passage à Rome en 1917. Les salles spacieuses avec leurs hauts plafonds, jadis ateliers de sculpture, avec leurs hautes fenêtres sont un espace d’exposition idéal pour les œuvres d’art ancienne.
Fabrizio Apolloni (1928-2006) a commencé à travailler en 1948 après la mort de son père, et a rapidement acquis une réputation respectable non seulement en Italie, mais aussi en Angleterre, en France et aux États-Unis. Il était un grand ami et un conseiller de confiance pour des chercheurs et des collectionneurs tels que Mario Praz et Luigi Magnani. Dans la Fondazione Magnani de Parme, devenue musée, la Musa Tersicore d’Antonio Canova, le Hamlet avec le fantôme de son père d’Henri Füssli et la grande coupe en malachite offerte à Napoléon par Alexandre Ier de Russie figurent parmi les chefs-d’œuvre que Fabrizio a vendus au collectionneur.
Depuis 2006, le propriétaire est Marco Fabio, le fils de Fabrizio, qui a étudié au prestigieux Courtauld Institute de Londres. En 2012, il a fondé avec son épouse, Monica Cardarelli, la Galleria del Laocoonte, galerie dediée aux arts figuratifs du XXe siècle avec un intérêt particulier pour les arts graphiques. Le nom est lié à la présence dans la galerie d’une grande sculpture en marbre du Laocoon, une version maniériste du groupe classique réalisée par le sculpteur florentin Vincenzo de’ Rossi (1525-1587), auteur des Travaux d’Hercule dans le Salone dei Cinquecento du Palazzo Vecchio.
Spécialiste de Luigi Sabatelli et de l’illustrateur Alberto Martini, auxquels elle a consacré respectivement son mémoire de master en Histoire de l’Art (Sapienza Università di Roma) et son diplôme de spécialisation (Università degli Studi di Firenze), Monica Cardarelli a été curatrice de plusieurs expositions et publications consacrées aux œuvres sur papier: Pietro Gaudenzi. Gli affreschi perduti del Castello dei Cavalieri ai Rodi (Rome, 2015), Cartelloni e Copertine (Florence, 2015), Cartoni. Disegni Smisurati del ‘900 Italiano (Bologne, 2017), Io sono Cambellotti (Sabaudia, 2017), Leoncillo. Le Ceramiche. Le Carte (Rome, 2019), XX. Il Genere Femminile nel ‘900 Italiano (Florence, 2019), Publio Morbiducci. Nudi Maschili (Rome, 2020), Alberto Martini. Masks and Shadows (Rome-Londres 2021). Grâce à ces expositions, à la participation aux plus importantes foires nationales et internationales (Wopart, Brafa, Paris Fine Arts, London Art Week) et à la publication d’articles et de livres, la galerie vise à élargir et à enrichir la connaissance du public et la diffusion parmi les collectionneurs et les musées des œuvres d’artistes italiens de la première moitié du XXe siècle, une période de l’art italien moins connue que celle de son passé plus lointain ou de l’art contemporaine.
Depuis 2019, cette mission est également assurée par la Laocoon Gallery, ouverte par Marco Fabio Apolloni et Monica Cardarelli au cœur de St. James’s à Londres. Cette galerie a pour objectif de présenter au public anglais non seulement une sélection des meilleurs exemples de peintures, dessins, sculptures, objets d’art et meubles anciens de haute qualité, mais aussi des œuvres de certains des plus importants artistes italiens du XXe siècle.
La participation à l’édition 2022 du Salon du Dessin leur donne l’occasion d’exprimer l’attention qu’ils ont toujours portée au dessin et aux arts graphiques. Animé par cette grande passion, le couple a ouvert il y a un an à Rome, à côté de la galerie de Via Margutta, un espace dédié uniquement à l’exposition de leurs œuvres sur papier, un véritable cabinet de dessin.
Depuis les années 1960, Fabrizio Apolloni a régulièrement organisé des expositions consacrées aux dessins anciens et modernes (Klimt, Schiele, Grosz). Parmi les catalogues publiés on peut citer La Mano Italiana 1 e 2, et A soggetto Romano où ont été rassemblé des dessins d’artistes italiens et de toute l’Europe qui ont visité et ont laissé sur papier leurs études et impressions de leur séjour dans la Ville Éternelle.
A cura di Monica Cardarelli
Catalogo Edizioni D’Arte
Inaugurazione 23 FEBBRAIO 2022 – OPEN DAY 11.00-19.00
Negli antichi trattati di iconografia, la personificazione della pittura porta spesso una maschera appesa al collo, perché essa imita la natura così come l’attore mascherato il personaggio che egli interpreta. Alla maschera, come simbolo della pittura, la Galleria del Laocoonte dedica una mostra di dipinti, disegni e sculture del ‘900, dove essa è il soggetto rappresentato: sia l’enigmatico oggetto maschera, inanimato soggetto di nature morte futuriste o metafisiche, sia la maschera indossata dall’attore che dà vita e voce ai personaggi della tradizionale commedia dell’arte italiana, tante volte celebrata dall’arte moderna, non solo in Italia.
Avendo in mente le memorie figurative dei Tiepolo, è proprio Venezia, con i suoi antichi carnevali dove nei teatri indossavano maschere tanto gli attori in scena che il pubblico in sala, la capitale ideale delle maschere.
Un grande dipinto di Ugo Rossi (1906-1990), lungo quasi 4 metri, rappresenta appunto piazza San Marco a Venezia piena zeppa di gente in costumi carnevaleschi, colorati e di ogni foggia. Creata per rallegrare il bar di una di quelle navi transatlantiche di lusso che incarnarono l’ottimismo entusiasta post-bellico, quest’opera vuole rappresentare l’Italia come un paese in continua festa proprio per dimenticare gli orrori e le distruzioni del conflitto appena trascorso.
Scene veneziane con maschere di carnevale erano uno dei soggetti preferiti dell’artista Umberto Brunelleschi (1879-1949), un toscano che ebbe un grande successo a Parigi come disegnatore di costumi, scenografo e illustratore di moda. Di lui abbiamo due dei suoi tipici pochoirs con corteggiamenti amorosi di coppie e uno studio per una locandina dedicata ad una festa a soggetto veneziano in maschera tenuta al Cercle de l’Union Interalliées di Parigi. In un altro acquerello egli dipinge l’autoritratto con maschera, studio per un manifesto per la prima parigina della commedia La maschera e il volto, opera oggi quasi dimenticata di Luigi Chiarelli, che ebbe un grande successo internazionale, sulla scia dell’esempio influente di Pirandello.
Direttamente ispirato dallo stesso Pirandello fu il pittore Giovanni Marchig. La sua opera più importante, Morte di un autore (1924), che raffigura un drammaturgo morto sulla sua scrivania circondato da tutti i personaggi della Commedia dell’Arte in lutto, è ora a Palazzo Pitti. Egli fu un pittore incantevole, poco conosciuto perché lasciò perdere la pittura sul finire della sua vita per diventare un rinomato restauratore di dipinti antichi, uomo di fiducia di Bernard Berenson. Oggi famoso principalmente per essere stato il proprietario del controverso disegno di Leonardo La Bella Principessa. La Galleria del Laocoonte è orgogliosa di presentare un’opera di Marchig del 1933 da poco riscoperta, il ritratto di un giovane attore vestito come Arlecchino. Egli ha il suo costume multicolore ma non indossa la maschera, non è in scena e si sta riposando con le braccia conserte. Stavolta l’enfasi è sul volto, sulla persona reale dell’attore quando non è “posseduta” dal ruolo del suo personaggio.
Venezia, il Settecento, Casanova. Il famoso seduttore veneziano divenne di gran moda durante gli “années folles”. Qui viene raffigurato mascherato, con una marionetta in ciascuna mano. È infatti l’elegante disegno preparatorio per la copertina dell’opera teatrale Il matrimonio di Casanova (1910), dove l’eroe del titolo diventa il burattinaio che manipola tutti i personaggi della trama. Fu disegnato da Oscar Ghiglia (1876-1945), il pittore preferito di Ugo Ojetti, il più importante critico d’arte italiano del suo tempo, autore anche della commedia assieme a Renato Simoni, critico e autore teatrale, che tradusse la prosa di Ojetti in vernacolo goldoniano.
Sempre Venezia e le sue dame mascherate sono il soggetto di due incantevoli e singolari pitture sottovetro di Vittorio Petrella da Bologna (1886-1951), decorative e ipnotizzanti come le antiche carte marmorizzate delle legature di antichi libri.
Vi sono maschere metafisiche al centro delle enigmatiche nature morte nei dipinti di Marisa Mori (1900-1985), allieva di Casorati, ve ne sono altre in una delle prime opere di Aligi Sassu (1929), promettente futurista da giovanissimo, ancora lontano dagli stancanti cavallucci rossi che lo hanno reso famoso.
Di Roberto Melli (1885-1958), ombroso maestro del colore è esposta Mascherina, bronzetto già esposto alla Secessione Romana, e un grazioso acquarello per una pubblicità per caramelle, con Pierrot che ne offre alla luna.
Fra le tante, un’illustrazione toccante di Arlecchino portato in paradiso dagli angeli, del disegnatore Enrico Sacchetti, appartenuta al famoso attore Ettore Petrolini. Dalla stessa raccolta viene anche un acquarello di Mario Pompei (1903-1958), che del Nerone di Petrolini fu scenografo, con un casotto di burattini con pulcinella che bastona il diavolo per la gioia dei bambini.
Di Ettore Petrolini, “maschera nuda”, per natura più espressiva di ogni faccia di cuoio, cartone o cartapesta, mai portata in scena, sono esposti tre ritratti, ad acquerello, ad olio e in bronzo. Nel primo appare mascherato da Pulcinella, nel secondo è immortalato da Oscar Ghiglia, il bronzo infine è una replica del busto di Kiril Todorov (1902-1987) che è posto sulla tomba dell’attore al Verano.
Attribuito ora a Mario Barberis (1893-1960), è un disegno originale per la copertina di una delle raccolte di racconti brevi di Pirandello, Terzetti del 1912, dove una musa si diverte a indossare una maschera dopo l’altra.
Angelo Urbani del Fabbretto (1903-1974) è stato un pittore e illustratore romano di ispirazione vernacolare, disegnò il menù e le ricette dell’oste Giggi Fazi e si inventò il presepe pinelliano della scalinata di Trinità dei Monti. I guitti mascherati dell’avanspettacolo furono un soggetto costante della sua opera, qui rappresentata da olii piccoli e grandi e da una grande natura morta con il costume da arlecchino abbandonato su una poltrona.
Vi sono trombette di carta, mascherine, campanacci, stelle filanti, ma non è carnevale, è la notte di San Giovanni, la notte delle streghe, quella del 24 giugno, quando fino agli anni ‘60 i romani celebravano con gran mangiate di lumache e gran caciara. Lo celebra in una natura morta giovanile Corrado Cagli (1910-1976), ad encausto, con i monumenti di Roma sullo sfondo. Un breve carnevale estivo. Un piccolo capolavoro di pittura giocosa.
Un altro Arlecchino dell’artista contemporaneo Pino Pascali (1935-1968), inventato quando era impegnato a produrre cartoni animati per la pubblicità televisiva. Arlecchino infatti era il nome di una celebre marca di pomodori in scatola: la pummarola, la commedia dell’arte. L’Italia tutta in un barattolo di latta.
Marco Fabio Apolloni
Date: Dal 23 febbraio al 30 maggio 2022
Galleria del Laocoonte – Via Monterone 13, 00186 Roma
Per informazioni: 06.68308994
La Commedia dell’Arte. Maschere e Carnevale nell’Arte Italiana del Novecento
Autore: Monica Cardarelli
Tau Editrice. Introduzione di Marco Fabio Apolloni
Con uno scritto di Laura Biancini
Data di pubblicazione: 2022
Formato: brossura
Pagine: 136
ISBN: 979-12-5975-109-6
dal 18 al 21 novembre 2021
Il centro prospettico e visuale dello stand della Galleria del Laocoonte (N. A35) è una vera e propria finestra aperta, che travalica il tempo e lo spazio: inquadrato in una cornice ideata dall’artista stesso che finse in legno travi e bulloni d’acciaio, appare infatti dipinto il paesaggio del quartiere Flaminio nuovo fiammante con Villa Balestra all’orizzonte, così come appariva a Giacomo Balla (1871-1958) che lo dipinse dalla spalletta del Lungotevere della Vittoria, dall’altra parte del fiume, nel 1942. È La Città che avanza, capolavoro del Balla post-futurista, postuma palinodia o controcanto della Città che sale, l’epica esaltazione modernista di Boccioni di più di trent’anni prima. Se all’inizio del secolo si esaltava la febbrile crescita urbanistica della città contemporanea, l’ultimo Balla figurativo usa i trucchi della miglior pittura di paesaggio, la luce che trasfigura, i tremuli riflessi colorati sulle acque del Tevere, per fermare in un’immagine la lirica melanconia di ciò che costruendo si distrugge, la poesia campestre. Il quadro appartenne all’ingegnere Pierluigi Bartoli, socio e cugino di quel Nervi che piegò all’arte il cemento armato, passato poi ad Antonello Trombadori, figlio di pittore che fu poeta, critico d’arte e politico comunista, è finito poi nella casa di Cesare Romiti che fu il potente amministratore delegato della Fiat negli ultimi vent’anni del ‘900. La Galleria del Laocoonte è fiera di poter presentare questo pezzo della storia e dell’arte di Roma proprio alla “Nuvola”, dove l’architettura si trasfigura in visione e quasi allucinazione del futuribile.
Proprio per rispetto e devozione del genius loci, dello spirito che permea il quartiere dell’EUR, dove la “Nuvola” galleggia nella sua gabbia di ferro e vetro, la Galleria del Laocoonte ha deciso di presentare i bozzetti in bronzo dei gruppi equestri Romolo e Remo di Publio Morbiducci (1889-1963), che avrebbero dovuto ornare il Palazzo della Civiltà Italiana, e i modelli in gesso di due dei quattro Cavalli che lo stesso Morbiducci concepì per la Quadriga che avrebbe dovuto trovar posto sulla facciata del Palazzo dei Congressi. Ugualmente, disegni preparatori per i mosaici in bianco e nero che Gino Severini (1883-1966) e Giovanni Guerrini (1887-1972) realizzarono per l’EUR sono presentati a parte nello spazio espositivo dedicato alla mostra “Mitologia Meccanica” di Patrick Alò (1975), geniale assemblatore di rottami meccanici trasfigurate in statue di Dei, eroi e mostri dell’antichità classica.
Evocatore moderno dell’antico fu anche Duilio Cambellotti (1876-1960) – di cui la Galleria detiene un cospicuo nucleo di opere già esposte nel 2017 – di cui qui si espongono Le Danaidi e La punizione del Prefetto di Roma che l’artista immaginò come illustrazione della Storia di Roma nel Medioevo del Gregorovius, dove si mostra il prefetto Pietro appeso per i capelli a cavallo di Marco Aurelio in un desolato paesaggio del Laterano in rovina.
Di Leoncillo, ovvero Leoncillo Leonardi (1915-1968), uno dei nostri maggiori scultori del dopoguerra, la galleria detiene il maggior numero d’opere dei suoi anni figurativi e si appresta a pubblicare il catalogo ragionato dei suoi disegni. Di questo genio della ceramica che egli rese degna di competere col bronzo e il marmo dei suoi colleghi, si presenta una straordinaria e coloratissima Balaustra – già proprietà di quel giudice Alfredo Monaco che aiutò la fuga di Pertini e Saragat da Regina Coeli – la cui gemella è ora nelle collezioni della Banca d’Italia. Accanto ad essa è il relativo disegno preparatorio.
Due grandi cartoni colorati di Ferruccio Ferrazzi (1891-1978) rappresentano la dea Cerere e Vulcano, sono serviti di modello per la realizzazione dei mosaici della fontana monumentale di Piazza Augusto Imperatore, sul palazzo che ora sta per ospitare il primo Bulgari Luxury Hotel di Roma.
Un inedito e raro Ritratto di Donna, a tre quarti, intagliato nel legno, ripropongono l’originaria, evidente maestrìa di un grande scultore quale fu Pericle Fazzini (1913-1987).
Una rondella dipinta del più grande e famoso futurista siciliano, Pippo Rizzo (1897-1964), rappresenta un intrico di serpenti, un’allusione al simbolo della Galleria, il serpente appunto, inestricabile dalla figura di Laocoonte che della galleria è l’eroe eponimo.
Ancora due figurazioni di Pino Pascali (1935-1968), introducono due note scherzose: Moby Dick, divertito omaggio alla balena bianca di melvilliana memoria, e un Arlecchino, studio per un carosello pubblicitario di una allora famosa marca di pomodori pelati.
Infine, del visionario Fabrizio Clerici (1913-1993), pittore surrealista ed architetto geniale di sogni, si presenta Il Labirinto (1966), solo un assaggio della grande mostra che la Galleria del Laocoonte si appresta a proporre nell’immediato futuro.
È di grande importanza che Roma si affacci sulla scena internazionale con una specifica piattaforma dedicata all’incontro tra arte moderna e contemporanea e all’emergere delle nuove proposte artistiche, con l’obiettivo di rivestire un ruolo propulsore nei confronti del Mezzogiorno e di tutta l’area mediterranea.
Si sta lavorando per costruire un evento in linea con le specificità e le caratteristiche di Roma, una manifestazione in grado di assecondare la “personalità” del luogo che la contiene, amplificandone la sua identità e ottimizzandone il potere propulsore.
È prevista la partecipazione di gallerie (italiane e internazionali) che presenteranno i movimenti e i grandi nomi dell’arte ma anche un programma di iniziative speciali (installazioni, exhibit, mostre, etc.).
Created in 2017 by the organizers of the Salon du dessin, Fine Arts Paris is a specialty fair for collectors based on the balance of diversity, quality and modernity. After three editions acclaimed by critics, this Parisian event is an unmissable event in the art market.
The galleries and organizers of Fine Arts Paris invite you to the next edition, of Fine Arts Paris : November 6-11, 2021, at the Carrousel du Louvre.
Visit Online: finearts-paris-online.com
The present work is based on the Portrait of Napoleon’s uncle Joseph Fesch (Ajaccio 1763 – Rome 1839), the greatest antique painting collector of his times. It was commissioned to Antonio Canova in 1807 and finished a year later (Marble, Ajaccio Musée Fesch. Plaster model in Possagno, Gipsoteca.). Differently from Canova’s original our marble bust is more hieratic, fixed in a frontal pose and portrays Cardinal Fesch at a later age, as the notable embompoint of his face, comparable to that which can be seen in later painted portraits of Fesch, clearly testifies.
The sculpture, mentioned by G. Hubert in 1964 (La Sculpture dans l’Italie Napoléonienne.) was then owned by an antique dealer in Nice, where it was bought by Fabrizio Apolloni in the early 70’s for his own collection.
The bust is the work of Antonio d’Este (Venice 1754-Rome 1839), the close friend and director of Canova’s workshop in Rome, who helped him also in his role of overseer of Rome’s papal museums.
Antonio d’Este specialised especially in the production of portraits, like that of Canova himself, Pius VII, and many others for which he could produce a second best likeness when Canova’s own divine touch was not available.
The work is in perfect conditions and has kept the rare original patina that gives to the surface of the marble an appearance of softness much in contrast with the rigid official pose of the sitter.
From Wednesday 27 – Sunday 31 January 2021 included, the exhibitors signed up for BRAFA 2021 will welcome you in their galleries, where they will present the objects and artworks they had selected for BRAFA 2021 in the best possible conditions. Some have chosen to group together to display their artworks.
In total, 126 art dealers spread across 13 countries and 37 cities look forward to sharing their passion for the beautiful, the rare, the precious and the historical in a warm, friendly atmosphere, in line with the rules in place in their area. Have a look through the list of participating galleries in order to discover those close to you. You can also download maps that enable you to find all the participating galleries in the town of your choice.
Finally, for all those who can’t visit the galleries in person, we have dedicated a page to each exhibitor on our website. Here you will find photos and descriptions of all the beautiful objects being presented, relevant practical information, and a video created for the occasion. New objects will be put online on Wednesday 27 January 2021!
Start the tour on Brafa website
Laocoon Gallery and W. Apolloni Gallery page: https://www.brafa.art/en/exhibitor-detail/589/w-apolloni-srl
Galleria W. Apolloni e Galleria del Laocoonte
Nuovo Spazio Antico/Contemporaneo, via Margutta 81, Roma.
Monday 16.00-19.00
Tuesday – Friday: 10.00-13.00 and 16.00-19.00
Saturday: 10.00-13.00
Visits by reservation only by calling 06 68308994 or via virtual tour
In total, 126 art dealers spread across 13 countries and 37 cities look forward to sharing their passion for the beautiful, the rare, the precious and the historical in a warm, friendly atmosphere, in line with the rules in place in their area. Have a look through the list of participating galleries in order to discover those close to you. You can also download maps that enable you to find all the participating galleries in the town of your choice.
Finally, for all those who can’t visit the galleries in person, we have dedicated a page to each exhibitor on our website. Here you will find photos and descriptions of all the beautiful objects being presented, relevant practical information, and a video created for the occasion. New objects will be put online on Wednesday 27 January 2021!
Laocoon Gallery and W. Apolloni Gallery page: https://www.brafa.art/en/exhibitor-detail/589/w-apolloni-srl
La mostra è visitabile online tramite VIRTUAL TOUR o su appuntamento, telefonando al numero 06 68308994
Apri il tour virtuale della mostra
Galleria del Laocoonte e W. Apolloni
Nuovo Spazio Antico/Contemporaneo, via Margutta 81
Orari: lunedì 16.00-19.00
martedì–venerdì: 10.00-13.00 e 16.00-19.00
sabato: 10.00-13.00
di Monica Cardarelli
Sfoglia la pubblicazione:
[pdf-embedder url=”https://www.laocoontegalleria.it/wp-content/uploads/2020/11/11-Cardarelli-strenna-2020-DEF.pdf” title=”11 Cardarelli – strenna 2020 DEF”]
Visite solo su prenotazione telefonando al numero 06 68308994 o tramite tramite virtual tour
Orari:
Dove:
Galleria del Laocoonte, via Monterone 13-13A – 00186 Roma
Galleria W. Apolloni, via Margutta 53B – 00187 Roma
Galleria del Laocoonte e W. Apolloni, Nuovo Spazio Antico/Contemporaneo, via Margutta 81 – 00187 Roma
La scelta di occupare la Roma papale per farne la Capitale tanto simbolica che amministrativa della Nuova Italia, non ci è costato soltanto due onerosi traslochi – da Torino a Firenze, e da Firenze a Roma – ma ha fatto sì che ne venisse in gran parte influenzata la storia figurativa, architettonica e urbanistica tanto di Roma che del resto del paese. La “nuova” Roma era pur sempre la vecchia Roma dei Papi, e ad ogni passo chiavi e triregni, Santi e Madonne ricordavano ai “buzzurri”, ai nuovi italiani, di essere stati di fatto degli invasori e degli inquilini abusivi di regge, palazzi e conventi che erano stati del papa, della Chiesa e dei suoi Ordini. E’ per questo che l’oligocrazia che aveva fatto l’Italia ed ora cercava di amministrarla e penosamente ammodernarla, al di là delle divisioni politiche dei governanti tra loro, creò una religione alternativa a quella predicata dall’avversario, “quel di se stesso antico prigionier” (Carducci), l’autocrate chiuso in Vaticano, il pontefice romano che poteva vantarsi di quasi milleottocento anni di civiltà figurativa cattolica, dai primi sgraffi nelle catacombe agli affreschi allora contemporanei di Francesco Podesti in Vaticano, che celebrano l’Immacolata Concezione, voluti da Pio IX accanto a quelli di Raffaello. Il culto della Patria, la Monumentomania, e soprattutto la storia infinita dell’ambiziosa costruzione del Vittoriano, costituiscono nel complesso una tal mole di edifici, sculture e chilometri quadrati di pittura rapprese che non hanno pari in Europa prima delle colossali realizzazioni urbanistiche e ideologiche dei totalitarismi del XX secolo. Non deve sorprendere che il modello, lo stile a cui ci si richiamò, fu quello dell’antichità, poiché lo stile classico dell’antica Roma, non certo il gotico o il barocco, è l’unico repertorio a cui ci si poteva conformare.
Dunque in Italia ci furono dalla fine dell’Ottocento al 1943, due lunghe stagioni di neoclassicismo, quella dell’Italia dei Notabili, che va da Carducci a d’Annunzio, e quella che va dalla presa di potere del Fascismo alla sua caduta. Della prima, fa parte anche il culto di Roma mazziniano e repubblicano, che fu il primo restauratore del simbolo del fascio, passato poi come il testimone della staffetta al primo socialismo e infine strappato, di forza, dal fascismo per sé. La seconda stagione di revival antichizzante coincide con il Fascismo stesso, che riuscì a nascondere la natura moderna e violenta del suo colpo di Stato con la retorica, così come il cemento armato dei suoi palazzi è coperto di marmi e di simboli di Roma Antica e dell’Impero: Mussolini fu un Catilina vittorioso con indosso i panni di Augusto.
Queste pur diverse fasi politiche traevano entrambe una legittimazione dall’antico, non a caso ebbero a cuore i progressi dell’archeologia greco-romana che sotto Pio IX si era concentrata soprattutto, con gran successo di scoperte e propaganda di esse, sulle Catacombe dei primi cristiani. Gli scavi del Foro Romano e la scoperta delle memorie della Fondazione romùlea, sono davvero il controcanto laico di un’archeologia paganeggiante che diventò quasi una criptoreligione, con dispute, fanatismi e trionfalismi che una scienza non dovrebbe incoraggiare. Troppo lungo sarebbe enumerare le campagne di scavi, eseguiti quasi manu militari, nel ventennio fascista: l’Area Sacra di Largo Argentina, la ricomposizione dell’Ara Pacis, la “scoperta” del Mercato di Traiano, gli Scavi di Ostia, e quelli promossi nelle colonie, come a Rodi, in Albania, o in Libia a Leptis Magna, sono imprese che al di là di ogni possibile critica, suscitano meraviglia per l’entità dei lavori e la misura delle scoperte.
Come furono influenzati gli artisti italiani da tutto questo e quale corso ciò ha imposto allo sviluppo dell’arte italiana del Novecento è quello che si propone di evidenziare la mostra ‘900 CLASSICO, concepita e organizzata da Marco Fabio Apolloni e Monica Cardarelli, in ben tre sedi: nella Galleria del Laocoonte di Via Monterone 13-13A, nella Galleria W. Apolloni di Via Margutta 53B ed infine nel nuovo spazio espositivo contemporaneo che le unisce di Via Margutta 81, che si inaugurerà ospitando nel contempo la mostra antologica dello scultore contemporaneo Patrick Alò: MITOLOGIA MECCANICA, nelle cui opere i rifiuti della modernità tecnologica, i rottami di metallo, rinascono a nuova vita come opere di scultura neoclassica, tratte o ispirate dall’antico.
La fine della Belle Époque floreale italiana è qui rappresentata da Adolfo de Carolis (1874 – 1928), che prende in prestito un verso dell’Antologia Palatina per far nascere la sua Primavera, grande cartone preparatorio per un quadro che fu il suo manifesto estetico, anima greca in corpi michelangioleschi, uno stile tutto suo, ma perfetto per illustrare i centoni poetici di d’Annunzio. Un bozzetto con Minerva e l’Olivo, del 1914, è preparatorio per uno degli affreschi di De Carolis al Palazzo del Podestà di Bologna.
Floreale e klimtiano fu Giulio Bargellimi (1875 – 1936), artista semidimenticato, ma all’epoca sua frescante copiosissimo di Terme e Ministeri, qui presente in due cartoni dove la linearità vascolare arcaica in salsa jugendstil descrive un umanità bella e felice, degna di adornare un tempio, ma che fu dipinta invece per lo scalone delle Assicurazioni Generali.
Pittorico e decadente fu agli inizi della sua carriera di scultore fu anche Libero Andreotti (1875 – 1933) qui rappresentato da ben quattro opere: una rara e inedita Baccante con bacchino ubriaco, scolpita in marmo di Candoglia, il bassorilievo in bronzo de L’Ulivo, in cui le fronde dell’albero sacro ad Atena generano corpi umani, poi ancora la più classicheggiante Veneretta, e infine la Venere Fortuna, che in equilibrio sulla sua minuscola conchiglia, con una vela gonfia di vento tra le mani, allunga le sue forme arcaiche imitate dai bronzi di scavo, quasi fosse un reperto ella stessa.
E’ del 1911 il grande dipinto di Vittorio Grassi (1878 – 1958), con I Dioscuri del Quirinale fluorescenti nella notte, illuminati solo dallo stellone d’Italia. Servì di bozzetto al concorso per il manifesto della Esposizione universale di Roma, ma arrivò secondo: fu scelto come manifesto ufficiale quello di Duilio Cambellotti (1876 – 1960). Quest’ultimo fu un artista poliedrico, scultore pittore, scenografo, ceramista, incisore e medaglista. Cambellotti aveva già, in questo scorcio di secolo, rivisitata tutta l’antichità, inoltrandosi a pensare anche a Micene e al Lazio delle origini per inventarla di nuovo, in linee moderne ed essenziali. Fu lui, socialista, pacifista e umanitario a mettere su carta per primo fasci, aquile e leoni che saranno poi il repertorio simbolico del fascismo. Il suo ciclo de Le Leggende Romane, prima dipinte a biacca e poi incise in xilografia, furono un lavoro che durò una vita, e furono pubblicate postume. Sono qui rappresentate da numerosi disegni preparatori e rare tirature d’autore. Il suo bronzo meraviglioso, La Corazza, dove un antico agricoltore dell’ager romanus veste l’armatura per difendere la Patria, segna quel momento storico, dopo Caporetto, in cui la Grande Guerra imposta dagli interventisti divenne guerra di popolo e di sopravvivenza, e stilisticamente riesce ad unire, in compendio perfetto, l’essenzialità dei bronzi etruschi con le linee moderne e aereodinamiche della scultura futurista. Nei manifesti per il Teatro Classico di Siracusa vi è la stessa unione di antico e moderno, mentre in una delle rare tavole in cui nell’ultimo dopoguerra Cambellotti volle illustrare la Storia di Roma del Gregorovius svetta intatto il Caballus Constantini, cioè la statua equestre di Marco Aurelio, in mezzo alle rovine del Laterano medioevale. In ultimo, i disegni preparatori per i manifesti di Fabiola (1949), il primo peplum girato nella nuova Repubblica Italiana, che permise la rinascita di Cinecittà inaugurando la stagione d’oro degli anni ’50 e ’60.
Arcaismo, antichità barbarica, ma anche neoclassicismo fascista trasfigurato in sogno utopico sono tra le tante idee ispiratrici di un grandissimo artista come Mario Sironi (1885 – 1961), di cui qui si presentano undici opere su carta, privilegiando il Sironi illustratore e cartellonista, come nello studio del manifesto immaginato per l’autarchica pellicola Scipione l’Africano, una copertina per Il Natale di Roma del 1937 ed altri fogli dove Sironi è non solo pittore murale, ma anche inventore delle architetture e delle sculture di un intero edificio, come nel caso del Palazzo dei Giornali di Milano.
Diverso il caso di Gino Severini (1883 – 1966), già futurista, poi sognante inventore di pulcinelli e arlecchini pierfrancescani, che riapprodò a Roma da Parigi per reinventare i mosaici bianchi e neri scoperti a Ostia dagli archeologi e che il fascismo volle simili per il Foro Italico e l’Eur. Qui si espongono disegni preparatori per la Palestra del Duce, per il Viale del Monolite e in due composizioni per una fontana dell’Eur dove Flora e Silvano, antiche divinità latine, rivivono come maschere vagamente picassiane. Preparatori per la Fontana Luminosa dell’Eur sono anche i cartonetti realizzati da Giovanni Guerrini (1887 – 1972), tra gli inventori del Colosseo Quadrato, che illustrano la storia di Roma antica sul mare, tra sirene, tritoni e fiamme distruggitrici dell’iniqua Cartagine. Sempre per i mosaici del Foro Italico sono anche i disegni del meno noto Achille Capizzano (1907 – 1951), pittore e frescante, che lavorò principalmente per l’architetto Luigi Moretti. Un disegno di Giorgio Quaroni (1907 – 1960), pittore e scultore, fratello del più famoso architetto Ludovico, è preparatorio per l’affresco La fondazione di Roma, che fu fatto per la Sala Riunioni del palazzo degli Uffici dell’Eur. Riecheggia la pittura romana antica, trasformando quei paesaggi illusionistici che sfondavano le pareti affrescate delle ville in un teatrale sipario dipinto.
Un artista onirico e personalissimo come Ferruccio Ferrazzi (1891 – 1978) sembrerebbe lontano dalle reinterpretazioni dell’antico del Ventennio, ma il mosaico colossale da lui realizzato per la piazza Augusto Imperatore con il Dio Tevere e i Gemelli, circondato dalle maggiori divinità latine è una delle più felici e sorprendenti creazioni del periodo: di quest’opera sono esposti gli smisurati cartoni dipinti a tempera che rappresentano Vulcano e Cerere, e un piccolo disegno che rappresenta la prima idea de Il Tevere con i gemelli e la Lupa.
Tra i pittori muralisti, che negli anni trenta vollero far rivivere l’arte italiana dell’affresco monumentale, oltre a Sironi che fu promotore del manifesto del 1933, furono Cagli, Campigli, Carrà, e Achille Funi (1890 – 1972). Quest’ultimo fu frescante prodigioso per qualità e quantità, a Roma, Milano, Bergamo, Ferrara e Tripoli di Libia. Di Funi sono in mostra un cartone per la sala virgiliana della Triennale di Monza del 1930, con Didone e Anna, e due cartoni di Legionari Romani eseguiti per il Martirio di S. Giorgio per la chiesa di questo nome in via Torino a Milano. Oltre a questi vi sono il dipinto Venere Latina, ovvero Il nudo e le Sculture, del 1930, statua che si fa carne, sogno di Pigmalione realizzato ad olio. Di Funi ancora oltre ad una Lucrezia romana a olio, classica e tizianesca insieme, vi è infine un pannello monumentale dipinto a tempera su fondo oro, lungo quasi cinque metri, che egli fino alla morte tenne nell’aula di Brera dove insegnava tecnica dell’affresco: si tratta de Il Parnaso, con Apollo e le nove Muse, che ha l’aria d’una miniatura rinascimentale ingigantita o d’una pittura parietale pompeiana dipinta su stagnola dorata, come il coperchio di una ciclopica scatola di cioccolatini.
Smisurato è anche il cartone preparatorio che Alberto Ziveri (1908 – 1990) colorò nel 1943 per il mosaico dell’atrio nell’Accademia dei Vigili del Fuoco di Roma, dando vita colossale ad una Dea Minerva ed anche un po’ Dea Roma – che pare fare il verso alla potente grossolanità dei mosaici tardo antichi, ma con la carnalità statuaria e plebea che il pittore tanto efficacemente sapeva rendere prendendo le sue modelle dalla strada.
Corrado Cagli (1910 – 1972) è rappresentato da un perfetto encausto – emulazione dell’antico – simbolico de La notte di S. Giovanni che a Roma fino a poco tempo fa era evento carnevalesco legato al solstizio d’Estate, e, al tempo di Roma antica, “grande cardine dell’anno e grande evento nel mondo”, come ha scritto Plinio il Vecchio. All’orizzonte, come in una pittura compendiaria antica, si stagliano i monumenti di Roma antica e moderna, da S. Pietro ai Dioscuri del Quirinale, passando per il Foro dove le colonne del Tempio di Vespasiano tremolano come in un miraggio.
Più complesso è il nodo emotivo e culturale che ha generato in Corrado Cagli lo studio del Laocoonte, tratto dall’antico e da El Greco, in cui l’ossessione di giovani corpi stritolati dalle spire dei serpenti è simbolo di un tormento esistenziale, dove si mescolano tanto la condizione della propria omosessualità, che il nuovo clima creato dalle leggi razziali che costrinsero l’artista, divenuto doppiamente “diverso”, all’esilio dall’Italia. Lo stesso tema, in Mirko Basaldella (1910 – 1969), giovane “creato” di Cagli, allievo a lui succube tanto nello stile e nella vita affettiva, diventa una riflessione sul tema del biblico Serpente di Bronzo: anche qui corpi adolescenti e serpenti si torcono, in una visione che è fantasia erotica e tortura infernale ad un tempo, eseguita in bronzo, in bassissimo rilievo, ispirato allo “stiacciato” rinascimentale di Donatello.
La scultura in mostra è variamente rappresentata. Di Publio Morbiducci (1889 – 1963), modernamente antico, vi sono due modellini dei cavalli che dovevano comporre La Quadriga sulla facciata del Palazzo dei Congressi all’Eur, e i due bozzetti in bronzo dei di Romolo e Remo con cavalli, che sarebbero dovuti sorgere accanto al Palazzo della Civiltà Italiana e che furono pio cambiati in Dioscuri. Sempre di Morbiducci è un gruppo di disegni raffiguranti Panoplie che al repertorio antico de I Trofei di Mario aggiungono mitragliatrici e obici e altre diavolerie della moderna guerra.
Tra le opere più straordinarie e singolari presenti in mostra sono invece due vasi di bronzo dalla patina volutamente archeologica dello scultore Mario Ceconi di Montececon (1893 – 1980). Ispirati certamente ai modi arcaizzanti e caricaturalmente divertiti di Arturo Martini (1889 – 1980), celebrano allegoricamente la Conquista dell’Etiopia del 1936, animando in uno una Lupa Romana che mette in fuga un Leone di Giuda della Dinastia Salomonica, e nell’altro un’Italia Armata trionfante sullo stesso disgraziato leone etiope sdraiato a gambe all’aria. Singolare che alle forme derivate dai bronzi archeologici l’artista scelga di sposare quelle naturali delle piante grasse del deserto, fornendo degli ibridi in cui la retorica trionfalistica imperiale fascista pare colorarsi di effetti comici.
Del 1948 è la terracotta colorata di Antonietta Raphael (1895-1975), proveniente dalla Collezione Scheiwiller, che raffigura Leda e il Cigno, in cui il mito greco è svolto nelle forme primitiveggianti di un Gaguin, mutando uno degli amori di Zeus in una leggenda tahitiana.
L’influenza dei bronzi antichi di origine etrusca, della ritrattistica repubblicana antica, esercitarono una forte influenza sugli scultori italiani del Novecento, ed ottenne l’effetto di eroizzare le fisionomie contemporanee, toccando anche il ridicolo nel caso di Mussolini o di vittorio Emanuele III. Qui compaiono un Giuseppe Bottai di bronzo di Quirino Ruggeri (1883 – 1955), un ritratto di Enrico Corradini, vecchio rottame del nazionalismo italiano, reso degno del Sepolcro degli Scipioni. Un anonimo bronzo, maggiore del vero, restituisce il carisma di Dino Grandi, mentre un sorprendente bronzo di Francesco Messina (1900 – 1995) ci mostra uno ieratico ed ascetico Indro Montanelli quarantenne. Del giovane Emilio Greco (1913 – 1995) infine, non ancora prigioniero del suo stile, una Testa d’Uomo, del 1947, restituisce in cemento levigato lo spirito antiadulatorio dei severi romani della Repubblica.
Un monolite di gesso nero come un bucchero, già in una sala di uno dei nostri transatlantici di lusso, simbolico de Gli Elementi, è opera di Marcello Mascherini (1906 – 1983), grande scultore del nostro Novecento che meriterebbe maggior fama di quella che egli gode nella sua città di elezione, Trieste.
L’antico però non è solo severità repubblicana o rigidità marziale da parata, lo spirito greco e i paradossi di Luciano di Samosata, hanno ispirato anche un’antichità surreale, che va dal giocoso all’allucinatorio, lungo una vena ispirata dall’arte metafisica di Giorgio De Chirico, greco di nascita, italiano per sangue e böckliniano per formazione. Innanzitutto va ricordato suo fratello Alberto Savinio (1891 – 1952) qui presente in un disegno, Le départ de l’enfant prodigue, dove teste d’animale s’innestano su corpi statuari. Alcune delle sue più felici creazioni dipinte, Centaurina, Torna la Dea al Tempio, Orfeo Vedovo, sono qui presenti nelle fedeli riproduzioni prodigiosamente eseguite a ricamo su tela da sua moglie Maria Savinio (1899 – 1981)che fu in quest’arte devota Penelope anche quando il marito partì per quell’Odissea da cui nessuno torna. Metafisico, giocoso e devoto all’antico a tal punto da diventare un gran collezionista di reperti etruschi ed egizi, fu Eugene Berman (1899 – 1972), russo espatriato a Parigi, negli Stati Uniti e infine a Roma: di lui tre visioni classiche per ispirazione e soggetto, Il Cavallo di Troia, Edipo e la Sfinge, Ulisse e le Sirene, che servirono nel 1962 per spiegare sul rotocalco Life i miti greci agli americani.
Capace di trasformare in gioco il suo straordinario talento di scultore e plasticatore, fu Andrea Spadini (1913-1983), a cui la Galleria del Laocoonte, per cura di Monica Cardarelli ha già dedicato una vasta mostra antologica che sarà prossimamente presentata in Inghilterra. Spadini era capace di fare il verso all’antichità come al barocco del Bernini, con esiti quasi disneyani quando trasformava i suoi animali di ceramica, fatti per i trionfi da tavola per divi di Holywood e aristocratici jet-setters, in giocolieri e musicisti. Qui si espongono due versioni de Il Tevere, raffigurato come un indolente imperatore sdraiato su una barca di Nemi come su un’amaca, in argento massiccio, con una testa degna d’un Caligola di periferia, oppure con una testa d’aquila romana, rapace e gallinaceo ad un tempo, nella versione in ceramica, nera come il neoclassico basalto di Wedgwood.
Allucinato dall’archeologia come materiale di sogno di civiltà perdute, è stato anche Fabrizio Clerici (1913 – 1993), di cui la Galleria del Laocoonte già ha presentato nel 2017, a Bologna e a Roma, i disegni originali per “Alle cinque da Savinio”, omaggio dell’anziano Clerici all’antico maestro e mentore della sua gioventù. Su Clerici la galleria sta organizzando una mostra retrospettiva e antologica per ricordarne l’ineffabile figura di elegante Don Chisciotte del Surrealismo più raffinato, viaggiatore in Egitto e Medio Oriente delle cui antichità è stato, con gli occhi e con l’eleganza del suo disegno, un instancabile razziatore. Della sua opera si anticipa qui la Minerva Flegrea, in cui la Dea di Butrinto si specchia sopra al bradisismo di Pozzuoli, un paesaggio egizio, un mostro saltato fuori dalle pagine del Satyricon di Petronio ispirato ai compositi “grylloi” incisi sulle gemme antiche di cui tanto ha scritto Jurgis Baltrušaitis nel Medioevo Fantastico. Due versioni de La Luce di Lessing, mostrano infine il gruppo del Laocoonte ridotto ad un contorno di assi di legno rozzamente tagliate come nelle opere di Ceroli. Con questo doppio omaggio all’opera statuaria antica che alla Galleria ha dato il nome ed un programma estetico la mostra può dirsi conclusa. Il gruppo monumentale del Laocoonte di Vincenzo de’ Rossi (1525-1587) tornerà al centro della Galleria di Via Monterone a novembre, reduce dalla mostra di Forlì dedicata all’Odissea dov’è stato tra le maggiori attrattive. Per ora il suo posto è occupato da Il Laocoonte di Patrick Alò, straordinario ammasso di ferraglia, composta ad arte a ripetere la torsione dolorosa e il grido dell’antico sacerdote troiano simbolo universale della sofferenza umana.
La Galleria del Laocoonte ha l’onore di presentare “Mitologia Meccanica”, il meglio dell’opera finora prodotta dall’artista Patrick Alò (Roma 1975), in “bella mostra” in uno spazio a lui specificatamente dedicato.
L’arte di Patrick Alò si associa, a suo modo, all’opera degli artisti che vollero rielaborare i miti classici e della Roma antica per i fini propagandistici del regime che perse la guerra. Se questa rimane oggi come monito e memoria contro le manie di grandezza e il delirio di onnipotenza, l’arte di Patrick Alò, artista sensibilissimo e abile nell’assemblare i rottami della moderna civiltà industriale a comporre gli Dèi, gli eroi e i mostri dell’antichità, impone una profonda riflessione sulla sopravvivenza dell’antica mitologia nell’epoca moderna, sulla caducità della civiltà delle macchine, e sulla forte carica simbolica del “reimpiego” degli scarti tecnologici, per un fine non troppo diverso da quello per cui gli uomini del medioevo riutilizzavano i frammenti delle architetture
classiche nei loro edifici contemporanei.
La mostra è visitabile su appuntamento telefonando ai numeri 0636002216 – 0668308994
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Patrick Alò (Roma, 1975)
Mitologia Meccanica
Via dei Greci 14, 00187 Roma
Masks and Carnival in Italian 20th Century Art
When she is not wearing a facemask covering her mouth to indicate that she is mute, the personification of painting, as portrayed by ancient painters, is a woman displaying in most cases a full face mask hanging from her neck. It is a symbol of the imitation of nature: art imitates reality, like an actor disguised to play a part. We want to remind this connection between the mask and painting for this exhibition by Laocoon Gallery celebrating, with the title of “The Commedia dell’Arte”, Italian masks in XXth Century art.
At the centre of this thematic collection is an impressive series of drawings by the visionary Italian artist Alberto Martini (1876-1954), a precursor of surrealism. His series “Il Libro delle Ombre” (The Book of Shadows), begun in 1904, consists of 29 drawings in brush and black china ink portraying masked faces in all possible kinds of disguise. Full false faces, vizards, half masks, eye masks, and black domino cloaks with venetian 18th century three cornered hats, all drawn with speedy brushstrokes as in Chinese painting, nocturnal and mysterious in character, illustrations of some dramatic and gothic poem whose words are lost. These enigmatic and obsessive faces, look like Rorschach’s patches appearing in a nightmare, populating some Venetian perpetual night, in which we wouldn’t be surprised to meet the heavily made up disquieting eyes of Marchesa Casati, famous for her eccentric venetian masked balls, for which Martini acted as costume designer and court portrait-painter.
With the figurative remembrance of Tiepolo in mind, we find ourselves in Venice, the ideal capital of masks, with her ancient old carnival where actors on the stage wore masks as well as the people in the audience.
A large painting by Ugo Rossi (1906-1990), almost four metres wide, portrays Venice’s piazza San Marco crowded with people in all kinds of colourful carnival costumes. It used to hang in the bar in one of the luxurious transatlantic ships that were the monuments of post war enthusiastic optimism, a way to represent Italy as a country of perpetual enjoyment after the horror and destruction of the past conflict.
Venetian scenes with carnival masks were a favourite theme of the artist Umberto Brunelleschi (1879-1949), a Tuscan who had a successful career in Paris as costume designer, scenographer and fashion illustrator. By him are two of his typical pochoirs with amorous couples courting, the study for a poster dedicated to a Venetian feast held in the Cercle de l’Union Interalliées in Paris. In another watercolour he paints his own portrait, it is the study for a poster advertising the theatre play “The Mask and the Face”, a now forgotten work by Luigi Chiarelli that had at the time wide international success in the footsteps of Pirandello’s influential example.
Directly inspired by Pirandello was the painter Giovanni Marchig, who’s masterpiece, “Death of an author”(1924), showing a playwright dead at his desk surrounded by all the characters of the “commedia dell’arte” in despair is now in Palazzo Pitti. He was an enchanting painter, little known because he put aside his painter’s brush in the last part of his life to become a famed old master’s restorer, very close to Bernard Berenson. His current fame comes from having been the former owner of Leonardo’s controversial drawing “La Bella Principessa”. Laocoon Gallery is proud to present a newly rediscovered portrait by Marchig (1933), of a young actor dressed up as Harlequin. He has his multi-coloured costume but he doesn’t wear a mask, he’s off stage, resting, his arms folded. The emphasis this time is on the face, on the real person of the actor when not possessed by his character.
Cezanne introduced Italian masks into modern painting, and Picasso in his blue period, followed his lead, but the modern painter who most of all chose and cherished Harlequins and Pulcinellas as subjects and mirrors of his own soul is certainly Gino Severini (1883-1966). The frescoes with dancing and playing masquerades that he painted for Sir George Sitwell in his castle at Montegufoni in Tuscany is a joyous little Sistine Chapel of twentieth-century art. A large cartoon by Severini for a “Concert” oil painting of 1942 will be exhibited along with two charming “pochoirs” and a wax pastel drawing of Harlequin and Pulcinella, preparatory for a famous lithograph of the early 50’s.
After the First World War the man who most promoted as the pinnacle of fashion 18th century’s Venitian style’s Bals Masqués was certainly the French painter Jean Gabriel Domergue (1889-1962). His Parisian Bal Venitien at the Opera in 1922 was only the first of a series held subsequently in Monte Carlo, Cannes, Biarritz and Deauville. He would design the costumes, the programmes, the posters and portray the most prominent and aristocratic beauties as provoking Venetian Ladies coming out from some of Casanova’s alcoves. He also decorated residences and public nightspots with gilded canvases wonderfully sketched over with dreamy elegant scenes of Venetian carnival. The like of these, now mostly dispersed if not destroyed, can be seen assembled in Domergue’s own villa in Cannes, now a Museum where the Jury of the Cinema Festival sits when the Palme d’Or awards are decided. Three rare panels gilded with golden leaves by Domergue with gondolas, amorous masks and beautiful venetian ladies are the most visibly precious lots in this exhibition. He is here at the height of his elegant art.
It is the world of Casanova, reinterpreted with the spirit of the “anneés folles”. The famous Venetian womanizer is portrayed in full mask with a masked puppet in each hand. It is the study for the cover of a play, “The Marriage of Casanova” (1910), in which the title role hero acts as puppeteer of all the characters in the plot. It is the work of Oscar Ghiglia (1876-1945), who was Ugo Ojetti’s – Italy’s master art critic of the time and the author of the play – favourite painter.
Metaphysical masks as the centrepieces of enigmatic still lifes are in the paintings of Casorati’s pupil Marisa Mori as well as in a very early and interesting work by Aligi Sassu (1929). Among other drawings we quote also a moving illustration of Harlequin taken to Heaven by angels, a work of the illustrator Enrico Sacchetti that belonged to the famous comic performer Ettore Petrolini. Attributed to Sacchetti is also the original drawing for the cover of one Pirandello’s collection of short stories “Terzetti” of 1912, where a Muse amuses herself wearing one different mask after another. Another Harlequin is painted by contemporary artist Pino Pascali, from the time when he was creating animated films for television advertisement: Arlecchino used to be a very renowned brand of tinned tomatoes.
Curated by Monica Cardarelli
Having already dedicated exhibitions in Rome and Turin to this great female artist, and with a monographic study covering the entire corpus of her activity also currently in publication, Laocoon Gallery is proud to present in London.
Marisa Mori, a Florentine Futurist and descendant of Gian Lorenzo Bernini. She is a perfect example of the inexplicable oblivion into which supremely skilled female artists would often fall. A precocious talent, almost entirely self-taught until her arrival, in 1925, at the school of Felice Casorati in Turin.
She quickly refined her innate artistic skills, and was invited to take part in exhibitions alongside her master from the outset, with art critics of the time immediately taking note, commenting on the quality of stroke, the composition and the colour, evident in works such as Via Lanfranchi, The still life Grapefruit and eggs, Marina di Massa, Study for two masks and her many self-portraits in both pastel and charcoal.
Mori’s independent spirit alongside a desire to experiment and learn led her around 1930 to approach the futurist movement. An old black and white photo portrays her proudly dressed as an aviator – in overalls, cap and glasses – sitting in the cockpit of a two-seater aerobatic plane – a flight which would inspire Mori to the creation of her bright and almost “sensual” futurist works: best represented by Mechanical Deconstruction of a crowd – she continued in this vein until the enactment of the Racial Laws, at which point she decided to distance herself from the futurist movement in protest, beginning a fourth phase of her artistic production – during which she portrayed subjects such as Florence immediately after its bombing, English soldiers whom she hosted in her large Florentine house, as well as returning to some of the subjects which had always been dear to her, creating some remarkable depictions of masks, still lifes and female portraits
UNA MOSTRA “STORICA” ALLA GALLERIA W. APOLLONI DI ROMA IN VIA MARGUTTA 53B
A cura di Marco Fabio Apolloni
Galleria W. Apolloni
INFO:
Dove: Galleria W. Apolloni, Via Margutta 53B
Quando: Dal 20 settembre 2020
Visite su prenotazione
Info +39 06 68308994
Dal lunedì al sabato dalle 10.00 alle 13.00 e dalle 16.00 alle 19.00, salvo il lunedì mattina e il sabato pomeriggio.
Seguendo gli stessi criteri che portarono ad allestire nel 2007 la mostra “Garibaldi a Roma!”, collezione di dipinti, disegni e stampe riguardanti la Repubblica Romana del 1848-49 – il cui nucleo maggiore è esposto ora in comodato provvisorio al Museo di Roma di Palazzo Braschi – la Galleria W.Apolloni prosegue la propria opera di scoperta e valorizzazione della storia nazionale per ciò che riguarda la propria competenza storico-artistica. Dal 20 settembre 2020, a celebrare il 150° anniversario della presa di Porta Pia da parte dei Bersaglieri del generale Raffaele Cadorna, nella Galleria W.Apolloni di Via Margutta 53B verrà allestita una mostra straordinaria con alcune opere d’arte di somma importanza accomunate dall’eloquente titolo: “Lo Zuavo e i Bersaglieri”, a voler accomunare, dopo tanto tempo trascorso, spente le passioni e gli odii d’allora, gli avversari di un tempo in un unico sentimento di pietà e gratitudine.
La memoria degli zuavi pontifici, corpi volontari giunti da tutti i paesi cattolici, ma in maggioranza francesi, olandesi e belgi, a difendere Pio IX contro gli italiani, è rappresentata dalla presenza di una scultura funebre in marmo a grandezza naturale del capitano Augustin Latimier Du Clésieux (Saint-Brieuc, Bretagna, 1844-1871), zuavo a Roma e poi volontario nella guerra franco-prussiana, ferito mortalmente nella battaglia dell’altipiano di Auvours l’11 gennaio 1871 e morto il 26 febbraio seguente a casa propria, in Bretagna, a soli 27 anni. L’opera si deve al virtuosistico scalpello dello scultore Victor Edmond Leharivel Durocher (Chanu, Orne, 1816-1878), scultore ufficiale che nel Secondo Impero collaborò con l’architetto Louis Visconti – figlio dell’archeologo romano Ennio Quirino – ad ornare l’ingrandimento del Louvre voluto da Napoleone III. Augustin Du Clésieux era l’unico figlio di una famiglia bretone molto ricca e da poco nobilitata. Da parte di padre discendeva da un Reggente della Banca di Francia, da parte di madre da una famiglia di importanti armatori locali. L’inconsolabile contessa Du Clésieux sua madre, che gli sopravvisse per 16 anni, ordinò all’artista la scultura, firmata e datata 1873, che fu posta sopra la tomba del defunto nella cripta di una cappella neoromanica, dedicata a S.Agostino, fatta costruire adiacente alla Scuola dei Fratelli della Dottrina Cristiana nella rue Vicaire della città di Saint-Brieuc. Nazionalizzata la scuola sotto la Terza Repubblica, distrutta la cappella nel 1971 per fare posto ad un parcheggio, chissà dove tumulate le ossa del povero Augustin, la monumentale scultura è andata all’asta a Brest quattro anni fa, nel più totale disinteresse dei locali e delle autorità preposte alla tutela artistica di Francia. E’ stata acquistata dall’antiquario romano Marco Fabio Apolloni proprio perché il giovane e nobile zuavo, già venuto a difendere papa Mastai contro “L’Anticristo” Garibaldi, tornasse a Roma per trovarvi, si spera, una pace definitiva. Il giovane ufficiale è rappresentato ancora vivo semisdraiato su una chaise-longue neo-rococò, nell’uniforme tipica che traeva origine dall’abbigliamento dei guerrieri algerini che i francesi combatterono nel 1830, e che fu reso famoso dalle seguenti campagne militari in Crimea e in Italia durante la Seconda Guerra d’Indipendenza. Solo il colore grigio celeste, che il marmo non può rendere, distingueva gli zuavi pontifici da quelli inquadrati nell’esercito francese. Per il resto lo scalpello di Leharivel è riuscito a descrivere il ruvido panno dell’uniforme, i pantaloni a sbuffo, il kepì con visiera, le babbucce ricamate e persino i merletti della camicia da cui spunta lo scapolare che il milite cattolico portava al collo. Sul fronte della base è graffita una baionetta, al centro della quale risalta in bassissimo rilievo la medaglia al valore che fu consegnata il giorno del funerale. “E’ proprio un’idea da Francesi, di vestire i difensori del Santo Padre da maomettani”. Così dicevano, i romani dell’epoca a proposito della bizzaria dell’uniforme degli zuavi che, non erano però soldati da operetta, se si considera che il pur brevissimo fatto d’arme di Porta Pia costò agli italiani il doppio dei morti e dei feriti rispetto ai pontifici.
Corpi nuovi, creati più o meno negli stessi anni, Zuavi e Bersaglieri avevano combattuto fianco a fianco in Crimea e nelle battaglie del ’59. Eppure nel ’70, sono affrontati gli uni agli altri in perfetta antinomia, pontifici contro italiani: così, in mostra, alla splendida, candida scultura dello zuavo francese morente si contrappongono i colori squillanti, accesi dal sole di settembre, che Michele Cammarano (Napoli 1835-1920), testimone oculare dell’entrata degli italiani a Roma, ha sparso in battaglia su una tela alta più di tre metri, fissando ancora calde, se così si può dire, le impressioni della battaglia per conquistare all’Italia la sua Capitale. Noto, pubblicato su tutti i libri di storia è il quadro di Cammarano che raffigura i Bersaglieri a passo di carica, lungo più di quattro metri, conservato al Museo di Capodimonte. Questo però, esposto e poi acquistato, è del 1871, frutto di ripensamenti e meditazioni,per celebrare la presa di Roma nel modo più eroico e storicamente più gratificante. Quello che si mostra ora invece è stato dipinto un anno prima, immediatamente dopo la Presa di Porta Pia, mostrata in tutt’altro modo, più veritiero, nel modo confuso e rabbioso con cui veramente avvenivano i fatti d’armi. I Bersaglieri si arrampicano concitati sul terrapieno formato dai detriti delle mura bombardate, confusi nel fumo dell’artiglieria. Le fisionomie sono stravolte, le bocche urlanti, le uniformi strapazzate e infarinate dai calcinacci. Un trombettiere giace a terra morto, un baffuto maggiore ci guarda direttamente negli occhi e con lo sguardo, col gesto, con la voce – vediamo che urla anche se non lo sentiamo – sembra spronarci a partecipare all’attacco.
Molto diverso è il quadretto del fiammingo Carel Max Quaedvlieg (Valkenburg 1823 – Roma 1874), minuscolo in confronto al Cammarano, ma che entro il suo perimetro di tredici per venti centimetri, riesce a inquadrare le Mura Aureliane e la breccia formicolante di Bersaglieri, con la morte del comandante Giacomo Pagliari sull’avanscena, e gli zuavi che sparano sullo sfondo di questa visione teatrale della Breccia, estremo opposto dei vasti “panorami” che andavano di moda in questo periodo. Vissuto a Roma per ventun anni, Quaedvlieg è noto per i suoi paesaggi della campagna romana animati da contadini e da butteri, eseguiti con lenticolare precisione, generalmente su rame, con colori luminosissimi. Questo di Porta Pia è un “unicum”, un documento storico figurativo di inestimabile valore, che fu infatti acquistato all’asta da Fabrizio Apolloni alla fine degli anni ottanta al termine di un accanito duello con un misterioso “underbidder” al telefono che si rivelò poi essere il compianto Bettino Craxi, molto attento alle memorie garibaldine e risorgimentali. Completano questa mostra celebrativa il bozzetto in scultura di Publio Morbiducci (Roma, 1889-1963) per il monumento al Bersagliere eretto davanti a Porta Pia nel 1932 e due pastelli satirici che ritraggono Charrette comandante degli Zuavi pontifici e Mons. Pacca il giovane, Prefetto pontificio. Due ritratti del Cardinale Giacomo Antonelli, uno in marmo che lo raffigura giovane, di Giuseppe De Fabris, ed uno dipinto in miniatura a smalto su pietra lavica da Filippo Severati – inventore della tecnica che andò perduta alla sua morte – che lo ritrae in trono nella sua piena dignità di Segretario di Stato, eminenza grigia e anima nera dell’ultimo Pio IX.
La mostra si aprirà domenica 20 settembre 2020, ma non ci sarà un’inaugurazione. L’ingresso è consentito a piccoli gruppi su prenotazione o, compatibilmente, a richiesta, durante gli orari di apertura della galleria 10-13, 16-19 salvo lunedì mattina e sabato pomeriggio. Per l’occasione verrà pubblicato un pieghevole e la mostra sarà messa online sul sito della galleria.
Online Exhibition
For the Summer of 2020 Galleria del Laocoonte and W. Apolloni of Rome have prepared a monumental exhibition centred around the inspiration that Italian Twentieth Century art drew from the ancient Graeco-Roman figurative civilisation. Among the many works presented, the wide painted panel by master of fresco Achille Funi (1890-1972), representing Parnassus, towers over every other. Pompeian in inspiration, it used to decorate the classroom in Brera where the painter himself taught fresco technique until his death.
Another exceptional piece, for both size and force of expression, is the coloured cartoon by Alberto Ziveri (1908-1990) depicting the goddess Minerva with the attributes of Rome, employed to make the colossal mosaic for the firefighter’s school near Rome. A small, exquisite bronze by Duilio Cambellotti (1876-1960) entitled Armour, celebrates the ancient roman rural labourer that would take arms if his Country were in peril, combining the dynamic simplicity of modernity with the memory of archaic pre-classical bronzes. In a similar way the sculptor Libero Andreotti (1875-1933) cast his Venere-Fortuna as if it were an early renaissance bronze. In addition to this, La Vigne, a rare sculpture by Andreotti in Candoglia’s marble – the stone used at Milan’s Duomo – portrays a seductive Bacchante, with a drunken little Bacchus lying on her back, the teeth marks of the chisel recalling Michelangelo’s non-finito working practise.
Beauty and struggle are what we prize in art, as shown by our adoption of Laocoön as the symbol for our galleries in both Rome and London. The life-size Laocoön marble group by Vincenzo de’ Rossi, a two tonne mannerist masterpiece that stands at the centre of our roman exhibiting space is both a symbol and an aesthetic paragon for us, and can be viewed alongside Patrick Alò’s contemporary interpretation of the same subject thanks to London Art Week’s new online platform.
La mostra è ospitata sulla piattaforma LAW Digital dal 3 al 10 Luglio
Servizio andato in onda nel TGR del 03 Marzo 2020
Dal 26 Gennaio al 2 Febbraio, STAND 88D
Galleria del Laocoonte e Galleria W. Apolloni
Tour & Taxis, Avenue du Port 88, 1000 Brussels, Belgium
https://www.brafa.art/
a cura di Monica Cardarelli (catalogo De Luca Editori d’Arte)
Dove: GALLERIA DEL LAOCOONTE, Via Monterone 13
Quando: Dal 13 dicembre 2019 al 12 marzo 2020
Orario: Dal mercoledì al venerdi, dalle 11.00 all 13.00 e dalle 16.00 alle 19.00
La Galleria del Laocoonte inaugura a Roma, nella sua sede di Via Monterone 13, la mostra Publio Morbiducci – Nudi Maschili a cura di Monica Cardarelli (catalogo De Luca Editori d’Arte, Introduzione di Marco Fabio Apolloni e uno scritto di Francesco Parisi). Verranno esibiti circa trentasei disegni – scampati alla distruzione dello stesso autore, che tra il 1945 e il 1946 epurò una cospicua parte della sua produzione – relativi ad alcuni dei giganteschi atleti in marmo di Carrara dello Stadio dei Marmi e dello Stadio del Tennis di Roma.
Publio Morbiducci è un artista romano che fu, con egual forza di stile, pittore, xilografo, medaglista e scultore di opere monumentali, note agli occhi dei più che le registrano come familiari presenze del paesaggio urbano di Roma, anche quando non si conosca chi ne sia stato l’autore. Chi non sa che davanti a Porta Pia c’è il Monumento al Bersagliere? Chi all’Eur può ignorare la coppia dei Dioscuri e i loro cavalli di travertino impennati fino a superare col muso teso al cielo i sette metri d’altezza? Ebbene sono opera di Publio Morbiducci, nome di battesimo da romano antico e un cognome che suona ironicamente a contrasto, se si pensa alle dure masse di pietra tiburtina e di marmo apuano che lo scalpello dello scultore hanno laboriosamente macinato nel corso di tutta una vita. Eppure aveva debuttato come pittore, tra i più straordinari e all’avanguardia, tra quelli della Secessione Romana alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, pari per intensità espressionistica ai mostri sacri della pittura europea dell’epoca. Questo debutto straordinario fu però presto abbandonato poiché per l’influenza del suo maestro Duilio Cambellotti, Morbiducci preferì percorrere il solco della tradizione, dedicandosi alla xilografia e alla medaglistica, due arti ancillari della grande pittura e della grande scultura, che in quel momento si ispiravano alle forme sintetiche e classiche dell’antica tradizione italiana rinascimentale.
Per quel che riguarda la scultura monumentale, a lui vengono affidate, per il Padiglione Italiano all’Esposizione Universale di New York del 1939, alcune delle opere più importanti, tra cui l’Italia Fascista dorata che figurava preminente sulla facciata dell’edificio celebrativo dei raggiungimenti del regime e delle future glorie – che non si realizzarono – dell’E42, l’esposizione universale romana che avrebbe dovuto superare in magnificenza proprio la manifestazione statunitense che coincise invece con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. È nella stessa ottica trionfalistica e celebrativa, in attesa di future olimpiadi che non ebbero luogo se non tanto più tardi, che venne realizzato il Foro Italico, insieme di complessi sportivi e spazi monumentali di cui fanno parte lo Stadio dei Marmi e lo Stadio del Tennis: sessantaquattro statue di atleti per il primo, diciotto per il secondo, ognuna alta quattro metri, ognuna pagata da una provincia d’Italia.
Sulla carta, di Morbiducci è soltanto il “Discobolo in riposo”, una delle ultime statue ad essere collocata, nello Stadio dei Marmi, nel 1938, sei anni dopo l’inaugurazione ufficiale dello stesso, che era coincisa col decennale del fascismo. In realtà, Morbiducci aveva partecipato al concorso iniziale, in cui scultori di tutte le regioni d’Italia sottoposero 127 bozzetti, ma soprattutto egli si era assunto il compito di realizzare le ultime statue commissionate ad Eugenio Baroni (1880-1935) – il pescatore con il rampone e quello con la rete, per lo Stadio del Tennis, ad esempio – di cui egli fu, artisticamente e operativamente parlando, ad un tempo l’erede e l’esecutore testamentario. Fu Morbiducci infatti a realizzare il Monumento al Duca d’Aosta a Piazza Castello a Torino, per il quale Baroni aveva vinto il concorso ma che non poté terminare perché si ammalò e morì avendo solo il tempo di lasciare a Morbiducci il testimone.
Quasi per tutti gli anni Trenta dunque, Morbiducci disegnò corpi in pose atletiche, cercando quella sintesi, tra reale e ideale, che era stato l’antico e lontano segreto della bellezza greca: atleti vittoriosi, con un nome e una patria, erano stati trasfigurati dall’arte in corpi perfetti, tipi ideali e sintesi di impersonale bellezza giovanile, per la Grecia e per l’occidente che si sentì suo erede per i secoli a venire. A matita, a carboncino, a sanguigna, Morbiducci lavora per trasformare l’individualità dei suoi modelli in tipi ideali, alla ricerca di una venustà italica che risulta sempre temperata dall’ideale classico e lontana dal disumanesimo culturista che trionferà alle Olimpiadi di Berlino del ’36.
Morbiducci non è certo Leni Rifenstahl, come suo modello mette in posa il figlio del fratello, oppure sono modelli presi dalle piazze di Testaccio – dove egli aveva lo studio – sono fisici irrobustiti più dall’officina o da scaricar cassette al mercato, o quarti di bue al Mattatoio, che dagli esercizi ginnici d’Olimpia. Sono insomma, quintessenzialmente italiani, così com’erano gli italiani prima del benessere.
is the latest in a series of meaningful exhibitions by curator Monica Cardarelli to be brought to Laocoon Gallery of London following its successful inauguration in Italy.
The exhibition comprises around one hundred works, with techniques ranging between paintings, drawings, pastels, bronzes, terracotta and ceramics, of Italian artists from the 20th Century who represented as many female figures. Wives or lovers, virgins or prostitutes, holy mothers like the Madonna or man-eating she-devils.
Chaste teenagers or mature Magdalenes, but also goddesses, nymphs, legendary personifications of Spring or Italy, imposing and shapely figures wearing crowns of turreted walls. The title of the exhibition uses “XX” as both chromosomes and Roman numerals in order to represent not only the genes that determine a woman’s sex but also the 20th Century, an era which saw unprecedented change in the role, status, appearance and condition of women.
Exhibition curator, gallery director and strong advocate of women’s rights Monica Cardarelli, who has researched and brought together this astonishing selection of art portraying the female gender in its many representations and transfigurations, says of the exhibition, “In a single image we can find a myriad of stories and destinies that intertwine and overlap, and this is also the case for each of the other images that make up this exhibition. Each contains stories that oscillate between past and present, leading to a series of reflections, to which are added those generated by their being together, by the dialogue that inevitably they entertain while standing side by side.”
The exhibition runs from 1st December to 30th January, inviting visitors to explore and share their responses to the vast array of inspiration adorning the gallery walls.
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Galleria Del Laocoonte, STAND 4
Dal 31 Ottobre al 3 Novembre 2019
Flashback è il progetto dedicato all’arte che, pensato come opera aperta, nasce nel 2013 con l’obiettivo di costruire un atlas di cultura visiva unendo in un’unica equazione cultura e mercato, senza vincoli di spazio e di tempo.
Da un lato il nome: flashback, lo sconvolgimento temporale della narrazione, tramite la quale si trasporta il passato nel presente, dall’altro il progetto espositivo: l’arte è tutta contemporanea che s’ispira alla ricerca concettuale di Gino De Dominicis sul tema dell’immortalità e che sottolinea la “contemporaneità” dell’esperienza di fruizione dell’opera e l’atemporalità dell’opera stessa.
Flashback nasce per offrire una diversa visione sulla storia dell’arte, ma anche sulla storia di oggi; un approccio più versatile che possa permettere a un pubblico sempre più vasto di godere di opere d’arte non più percepite come lontane da sé – per motivi temporali o culturali – ma finalmente “vissute” come esperienza concreta nel qui e ora. Questo sincretismo è ciò che ha permesso a flashback di crescere esponenzialmente negli anni ed è ciò che contraddistingue un progetto che, nato all’insegna di una sfida culturale, si rinnova annualmente e che annualmente si ispira alla vita connettendo in profondità zone temporali diverse: l’antico, il moderno e il contemporaneo nel suo farsi.
Flashback fornisce dunque strumenti di conoscenza, per aiutarci a riconfigurare la nostra identità e a costruire la memoria di chi siamo stati e soprattutto di chi potremo essere. Non una ricerca archeologica nel nostro passato ma la consapevolezza di quanto questo sia parte integrante del nostro spazio di esistenza: la necessità di “utilizzare il preesistente”, per far sì che quello che è già presente possa rappresentare un’opportunità per porre le basi della società del futuro.
Questo studio ha per oggetto il grande ciclo ad affresco realizzato da Luigi Sabatelli (1772 – 1850), nella Sala dell’Iliade di Palazzo Pitti (1820 – 1825). Le fonti d’indagine sono soprattutto quelle d’archivio: corrispondenze, rapporti, resoconti, registri di cassa, a cui si aggiungono disegni, cartoni e schizzi preparatori, rintracciati nelle collezioni pubbliche e private.
Accanto a questi, frutto di un’accurata campagna fotografica, si presentano nuove immagini degli affreschi stessi, per renderne più chiara e facile la lettura.
Prima ancora di parlare del ciclo dell’Iliade, ho ritenuto necessario inquadrare l’artista in relazione alla sua formazione, ricordando quali furono i suoi primi maestri a Firenze, quale l’ambiente culturale frequentato a Roma negli anni del suo alunnato, fino al soggiorno veneto e al rientro a Firenze, sua città nativa nel 1797.
Di seguito ho voluto indagare le numerose opere ad affresco che Luigi Sabatelli realizzò prima della grande commissione per Palazzo Pitti. Così, confidando nelle memorie che l’artista dettò al figlio Gaetano tre anni prima della sua morte (1847), ho ripercorso tutte le tappe della sua attività di frescante.
Un’indagine non sempre facile, soprattutto perché l’artista in questa prima fase ha operato in gran parte in palazzi e ville private, che sono tali ancora oggi. Tuttavia, nella maggioranza dei casi, la disponibilità degli attuali proprietari ha reso possibile la ricerca negli archivi di famiglia e sorprendentemente anche l’ingresso dei fotografi nelle sale affrescate dal nostro Sabatelli.
Il materiale fotografico, insieme a quello grafico e documentario degli archivi pubblici e privati, potrà dare un contributo per una migliore comprensione dello sviluppo di Sabatelli pittore, dalla gioventù fino alla sua maturità, che coincide appunto con la sua più prestigiosa commissione e opera maggiore, quella di Palazzo Pitti, testimonianza dell’alta considerazione di cui egli godeva come pittore di affreschi.
Monica Cardarelli
“Nemo Magistro in Patria”: Luigi Sabatelli (Firenze 1772 – Milano 1850), fiorentino spirito bizzarro del neoclassicismo italiano, protoromantico precoce, che fu davvero grandissimo maestro nel disegno e nella pittura a fresco, nonché incisore “apocalittico” e sublime, attende ancora la giusta collocazione che egli merita nella pur studiatissima storia dell’arte italiana dell’Ottocento.
A Milano fu maestro a Brera per quasi mezzo secolo fino alla morte, e quando tornò a Firenze per affrescare il suo capolavoro, lo smisurato cielo olimpico della Sala dell’Iliade a Palazzo Pitti, affollato di umanissimi dei omerici, la sua opera venne quasi ignorata già allora dalla critica, come fosse stata quella di uno straniero.
Ancora oggi gli occhi dei visitatori, rapiti dalla visione dei capolavori di pittura antica appesi alle pareti, non trovano tempo di alzarsi al cielo a contemplare l’azzurro imperturbabile che incornicia il colorato pantheon di Sabatelli. In attesa di una monografia e di un catalogo ragionato ancora al di là da venire, questo studio di Monica Cardarelli segue la carriera di Luigi Sabatelli frescante dai suoi primi inizi fiorentini, tra opere perdute, misconosciute e a volte del tutto inedite, fino alla grande realizzazione di Pitti, completata nel 1825.
La commissione del soffitto della grande sala che solo con Sabatelli trova il suo definitivo nome dal poema della guerra di Troia, ebbe una storia lunga e tormentosa, dal tempo della Regina d’Etruria Maria Luisa di Borbone, fino all’ultimo regnante dei Lorena, Leopoldo II, che vide l’opera finalmente terminata. L’intera storia, comprendendo i velleitari progetti napoleonici di Elisa Baciocchi, mai realizzati, è qui ricostruita grazie ai documenti e alle lettere dell’epoca, che spiegano la genesi di una delle più straordinarie e misconosciute creazioni del nostro Ottocento.
Exciting new gallery opens in the heart of the historic art district of London.
As the art scene in London continues to be a pole of attraction for a variety of cultural offerings, Galleria del Laocoonte has gone into partnership with W. Apolloni, one of the most experienced and highly distinguished art dealers in Rome, to open the Laocoon Gallery. Set in the heart of the historic art and antiques district of St James’ the gallery will not only present an exceptional selection of works from the most seminal figures in Western art history, but also brings to London previously unseen pieces from a number of early 20th century Italian artists. Monica Cardarelli, director of Laocoon Gallery in London, says, “Italian 20th century art is not only Futurism, or De Chirico, or the few other artists who are well known outside Italy. There is a real crowd of exceptional artists that need to be revealed to the world of English-speaking art lovers.”
Following a successful exhibition of works by renowned Italian sculptor Leoncillo Leonardi which opened as part of London Art Week, the gallery’s next offering will be based on the myth of Laocoön, featuring a large bronze by English born David Breuer-Weil, who has emerged as one of the leading contemporary British sculptors with iconic works such as Brothers, Flight and Alien, displayed to great public and critical acclaim in major public spaces in London and around the world. The artist has been commissioned by renowned art dealer Marco Fabio Apolloni to create and cast for the Laocoon Gallery a striking new work inspired by the ancient statue of Laocoön that was excavated in Rome in 1506 under Michelangelo’s very eyes. The piece shows a cyclopean head of Laocoön composed with shattered rubble, which emerges from the soil as if it were coming up from the deep to take a breath. In a number of smaller scale explorations and preparations also set to be exhibited, the iconic original in its entirety is handled using wax, engulfing Laocoön and his sons with snake coils that become tentacles or strands of DNA.
Breuer-Weil comments, “Laocoön is a great sculpture that has inspired generations of artists because of its sheer expressive force and as an emblem of martyrdom. I have not tried to copy it but to explore its themes in a relevant contemporary manner making the works speak to today’s generation. In some of my works, the Laocoön and his sons are not attacked by snakes as in the Greek myth that inspired the original ancient sculpture but by their own DNA, because that is usually the biggest threat we have to face in our lives, our own makeup.”
The exhibition opens on 12th September 2019 at the Laocoon Gallery, 2a-4 Ryder Street, London, SW1Y 6QB.
E’ un fatto che chi giunge nella Sala dell’Olimpo – o meglio dell’Iliade – di Palazzo Pitti, fa correre lo sguardo saltabeccando da un capolavoro all’altro tra quelli appesi alle pareti, ma raramente alza lo sguardo in alto, al soffitto, un vero e proprio cielo vasto e azzurrissimo che fa da sfondo alla catasta immane di divinità olimpiche, dominate dalla maestosa figura di Giove in trono.
E’ uno dei più begli affreschi neoclassici italiani a noi giunti intatti, e il suo autore è Luigi Sabatelli, fiorentino, che in questa sala raggiunse il culmine della sua arte. Il suo nome è noto più agli amatori e collezionisti di stampe e disegni antichi, perché nell’arte del disegno fu indubbiamente portentoso e le sue grandi incisioni, La Peste di Firenze, La Visione di Daniele, e le sei mirabili scene de L’ Apocalisse sono quanto di meglio sia stato pubblicato nell’epoca sua in Italia.
Produsse pochi quadri ad olio, dedicandosi molto di più alla pittura a fresco, ma molte di queste opere sono andate perdute nell’ultima guerra tanto a Milano quanto a Firenze, mentre altre si trovano in luoghi difficilmente accessibili – come l’incredibile Prometeo a Palazzo Bolzesi a Cremona – o decisamente fuori mano, come il grande ciclo apocalittico nella chiesa di Sant’Antonio Abate a Valmadrera in quel di Lecco.
Queste le ragioni della poca notorietà, in aggiunta al fatto che su di lui non è stata mai scritta una monografia, ad eccezione del catalogo di una mostra a lui dedicata dal Gabinetto degli Uffizi, nell’ormai lontano 1978. Quanto ciò sia incomprensibile e certamente immeritato è proprio quello che si vuol dimostrare esponendo un nucleo di disegni suoi, dei suoi figli e della sua scuola, nonché le maggiori sue incisioni. Frutto di una ricerca durata anni, la scelta comprende opere le più svariate. Un bellissimo Ritratto di donna a matita e sanguigna è prova magistrale della sua arte di ritrattista all’impronta, esemplare raro, poiché la maggior parte di questa produzione è quasi tutta conservata – male – alla Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma. Un disegno preparatorio per la Visione di Daniele è l’istantanea della fucina della sua capacità inventiva, che sbizzarrì creando i mostri allegorici della Sacra Scrittura, mischiando tra loro gli animali che accuratamente aveva disegnato dal vero nel Serraglio del Viceré, allora nel Castello Sforzesco di Milano. Zuffe, battaglie, lotte di Cavalieri sono le scatenate creature della sua fantasia, alcune di queste, in mostra, provengono dalle storiche raccolte della figlia di Pietro Benvenuti e da quella dello scultore genovese Sante Varni.
Un album intero, sicuramente databile al suo giovanile soggiorno a Roma, riproduce dettagli della Colonna Traiana, teste e gruppi di soldati romani e Daci, disegnati con mano sicura e spirito affine, per senso del pathos drammatico, a quello che scolpì la lotta crudele per la conquista della Dacia attorno al fusto della colonna colossale.
Due disegni preparatori per una delle lunette di Palazzo Pitti, La Toletta di Giunone, ci riportano alla Sala dell’Olimpo, il capolavoro sabatelliano che costituisce anche il soggetto di una monografia su l’artista scritta dopo lunghi, pazienti e fruttuosi studi da Monica Cardarelli, in cui si esamina la carriera di Sabatelli come frescante dagli inizi fino al termine della sala di Pitti. La ricerca ha saputo scoprire opere a fresco inedite e mai pubblicate, e moltissimi documenti d’archivio per riuscire a narrare la complessa storia di una commissione nata al tempo della regina d’Etruria, vagheggiata da Elisa Baciocchi in onore di Napoleone, ma poi effettivamente portata a termine dalla restaurata dinastia degli Asburgo-Lorena. Il libro, che sarà presentato a Firenze durante i giorni della Biennale dell’Antiquariato, è pubblicato dall’editore Polistampa di Firenze.
La mostra dei disegni ed incisioni di Sabatelli verrà presentata nello stand 27 della Galleria W.Apolloni a Palazzo Corsini e in seguito trasferita nella sua sede romana, in Via Margutta 53B.
Luigi Sabatelli (Firenze 1772 – Milano 1850)
Luigi Sabatelli nacque a Firenze il 19 febbraio del 1772. Ultimo figlio di Giovanni Sabatelli e Francesca Falleri, si appassionò precocemente all’arte del disegno. A soli otto anni intraprese gli studi d’arte grazie alla benevolenza del marchese Pier Roberto Capponi, nel cui palazzo il padre lavorava come cuoco.
I suoi primi maestri furono due incisori: Benedetto Eredi e Santi Pacini. Questo primo approccio all’arte, condizionò notevolmente la sua futura produzione artistica, caratterizzata fin dall’inizio da una straordinaria maestria nel disegnare a penna. Nel 1784, a dodici anni, fu iscritto all’Accademia delle Belle Arti fiorentina, dove proprio in ragione di questo suo notevole talento nel disegnare all’impronta senza errore, gli fu attribuito l’appellativo di Guercino, poiché i suoi disegni erano improntati a quelli dell’antico maestro barocco, allora avidamente collezionati e riprodotti in incisione per gli amatori.
Ottenuti diversi primi premi e riconoscimenti, nel 1788, si trasferì a Roma, dove entrò in contatto con il Cavaliere Tommaso Puccini, pistoiese, futuro direttore della Galleria degli Uffizi. Fu il suo primo mecenate, nonché suggeritore dei soggetti di alcune delle sue opere più note. Ricordiamo la grande incisione per La Peste di Firenze – esposta assieme a diversi disegni ad essa relativi -, la serie delle incisioni per L’Apocalisse – di cui si mostra l’intera serie ed alcuni disegni tratti dalle incisioni -, l’acquaforte per La Visione di Daniele – di cui in mostra uno straordinario disegno preparatorio. Puccini fu anche il suggeritore del soggetto per il dipinto di Davide e Abigail ora ad Arezzo, di cui qui si mostra un foglio con una prima idea. Sempre da lui suggeriti sono i soggetti di alcune delle più epiche Battaglie e Zuffe di cavalli e cavalieri, di cui in mostra il disegno per il Valor di Michel di Lando e sua vittoria contro i Ciompi in Firenze e il disegno per Pietro Maringhi fiorentino dà fuoco a una nave pisana.
A Roma Sabatelli frequentò assiduamente il variegato ambiente artistico di quegli anni. In particolare strinse amicizia con Damiano Pernati, membro di una nobile e antica famiglia novarese con cui nel 1795, realizzò i Pensieri Diversi, una serie incisa da Damiano Pernati su disegno di Sabatelli, raccolta ispirata a temi di letteratura classica e religiosa e a personaggi dell’antichità, animata da suggestioni protoromantiche.
L’amicizia con Damiano Pernati a Roma dette modo a Sabatelli di frequentare il suo medesimo entourage: Angelica Kauffmann, Canova, Raffaello Morghen, Gaspare Landi.
In questi stessi anni l’artista entra in contatto con l’Accademia dei Pensieri, inaugurata da Felice Giani nel 1790, fondata sulla centralità del disegno e dell’invenzione e nello stesso momento frequenta Vincenzo Camuccini, Giuseppe Bossi, Pietro Benvenuti ed altri artisti che come lui partecipavano alle riunioni serali per lo studio del nudo, tenute da Domenico Corvi e organizzate da Leopoldo Cicognara come una piccola accademia privata.
Sempre a Roma l’artista strinse amicizia con Benigne Gagneraux; del loro legame resta testimonianza nella Caccia del Toro, incisa da Gagneraux su disegno di Sabatelli.
Nell’Urbe il suo talento di disegnatore non passò inosservato: lui stesso racconta nelle sue Memorie di esser stato portato in trionfo dai compagni della scuola di nudo in Campidoglio, dopo aver disegnato, senza mai staccare la penna dal foglio, e in brevissimo tempo, un’accademia perfetta già alla prima prova. Legato a questo periodo è il nucleo di disegni, inedito, tratti dai rilievi della Colonna Traiana, in cui Sabatelli isola volti e segmenti di scene e composizioni, da cui trarrà ispirazione per la sua successiva produzione.
La sua innata maestria nel disegnare, rafforzata dall’esercizio e dall’esperienza, è testimoniata inoltre dal consistente nucleo di disegni conservati presso il Gabinetto Civico di Castello Sforzesco di Milano e presso il Gabinetto di Disegni e Stampe degli Uffizi di Firenze; anatomie umane e animali, eseguite con assoluta destrezza, a cui si aggiungono I Ritratti realizzati tra il 1797 e il 1810, oggi conservati presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, disegni a penna che Ugo Ojetti definì “[…] opere di una prontezza senza pentimenti”. Qui in mostra sono tre ritratti, tra cui un bellissimo volto femminile a due colori del 1806.
Dopo Roma, nel 1794, Luigi Sabatelli si trasferisce a Venezia per due anni, per studiare il colore.
Una volta tornato in patria, spinto dalla necessità, accettò la prima commissione per un’opera a fresco, Il Ratto di Ganimede, da realizzare nel Palazzo del marchese Gerini in via Ricasoli. Pur non essendosi mai cimentato nella tecnica dell’affresco, questa prima prova ebbe esiti tanto sorprendenti che da questo momento le grandi famiglie nobili fiorentine fecero a gara per avere affrescate dal nostro Sabatelli intere sale, pareti e volte delle loro ville e Palazzi. Ricordiamo i Ginori, i Guicciardini, i Martelli, i Tempi, i Bardi, e cosa ancora più rilevante, la stessa Regina Reggente del Granducato di Toscana, Maria di Borbone, che gli affidò non solo l’incarico di affrescare Il Sogno di Salomone nella sua camera da letto, nella Palazzina della Meridiana di Palazzo Pitti, nominandolo al contempo pittore di camera e maestro di disegno del principe Carlo, suo figlio, ma gli affidò anche la prestigiosa commissione di affrescare quella grande Sala di Palazzo Pitti, che molto tempo dopo sarebbe diventata la Sala dell’Olimpo. Questa era la più grande, importante e anche la più problematica sala del Piano nobile del Palazzo, rimasta priva di decorazioni proprio perché l’ultima dopo l’infilata delle sale affrescate da Pietro da Cortona e dunque degna solo dell’opera di un pittore tale da poter reggerne il confronto. In mostra due dei disegni preparatori per la prima delle otto lunette di cui si compone l’affresco, che mostra una splendida Giunone alla toilette, circondata da operose ancelle e giocosi putti.
La storia di questa importante commissione è indubbiamente straordinaria e allo stesso tempo particolarmente significativa per comprendere il merito e il valore artistico di Luigi Sabatelli. L’artista infatti ricevette questa commissione per ben tre volte e da tre diversi governi, quelli che si succedettero al Granducato di Toscana dal 1807 al 1814: il governo dei Borbone con la Regina Reggente Maria, quello napoleonico con Elisa Baciocchi e infine quello degli Asburgo Lorena con Ferdinando III, che dette finalmente avvio ai lavori nel 1820.
Luigi Sabatelli, dal canto suo, una volta realizzata la colossale opera a Palazzo Pitti, e conclusa anche l’opera a fresco per la Cappella di Sant’Antonio in Santa Croce, nel 1825 se ne torna a Milano. Prosegue il suo insegnamento a Brera, che aveva temporaneamente affidato a Francesco Hayez, e continua a ricevere importanti commissioni sia pubbliche che private. Ricordiamo in particolare il ciclo ad affresco con Le nozze di Amore e Psiche in Palazzo Busca Serbelloni (1831) opera purtroppo perduta, e ancora il ciclo ad affresco per la Chiesa di Valmadrera (1836), di cui in mostra due disegni per la scena de I Dodici Apostoli accanto al trono di Cristo. Tornerà ancora a Firenze nel 1841 per affrescare la Tribuna di Galileo nel Palazzo della Specola.
L’artista ebbe anche il merito di aver sauto trasferire ai suoi figli l’arte e la passione per il disegno, in particolare a Francesco (1801-1829), salutato come speranza dell’arte italiana da Mazzini, e a Giuseppe (1813-1843), purtroppo entrambi morti di tisi in giovanissima età. Di Giuseppe vi sono qui in mostra diversi rari esempi di disegni tra cui un’accademia maschile, proveniente dalla collezione di Sante Varni, di somma eccellenza.
Luigi Sabatelli muore a Milano nel gennaio del 1850.
A cura di Monica Cardarelli
Presentazione di Cecilia Del Re, assessora al turismo – fiere e congressi – ambiente – urbanistica – agricoltura urbana.
Catalogo ed. Polistampa con un’introduzione di Barbara Alberti e uno scritto di Marco Fabio Apolloni
Dal 16 Settembre al 2 Ottobre 2019
Piazza San Felice 10r
Dal lunedì al sabato dalle 10:00 alle 18:00
A Roma dal 18 Ottore 2019
Via Monterone 13- 13A, Roma
XX IL GENERE FEMMINILE NELL’ARTE DEL ‘900 ITALIANO è la terza delle mostre che la Galleria del Laocoonte con sede a Roma e Londra, inaugura nella città di Firenze. Anche quest’anno così come due anni fa, la sede sarà la storica galleria Marletta a pochi passi da Piazza De’ Pitti e l’omonimo Palazzo.
Circa un centinaio, tra dipinti, disegni, pastelli, bronzi, terrecotte e ceramiche, di artisti italiani del XX secolo, che hanno rappresentato altrettante figure femminili. Mogli o amanti, vergini o puttane, madri sante come la Madonna o diavole mangiatrici d’uomini. Adolescenti caste, o mature Maddalene, ma anche dee, ninfe, personificazioni leggiadre della Primavera o dell’Italia, giunonica e turrita.
Monica Cardarelli, direttrice della Galleria del Laocoonte, ha riunito per il pubblico e i collezionisti, tante immagini di donne, per dare un’idea di come il ‘900 abbia saputo vedere attraverso gli occhi degli artisti – ma anche di alcune artiste – il genere femminile nelle sue tante rappresentazioni o trasfigurazioni. Il titolo della mostra, XX IL GENERE FEMMINILE NELL’ARTE DEL ‘900 ITALIANO, gioca sulla stessa grafia della lettera capitale e il numerale romano, per cui XX è allo stesso tempo il gene che determina il sesso di una donna, ma anche quel secolo Ventesimo, che ha visto più di ogni altro, cambiare tanto e così velocemente il ruolo, lo stato, l’aspetto e la condizione femminile, tanto nella vita quanto nell’immaginario, così come l’arte l’ha registrato.
L’opera più antica è di Giulio Aristide Sartorio, in un aereo pastello che è come un ultimo sospiro dell’800. Una giovane vergine preraffaellita dalla lunga veste botticelliana – era l’americana Lisa Stillman – sfoglia un album, forse musicale: è un’astrazione angelicata alla D’Annunzio, un’ideale da adorare al modo degli stilnovisti, anche se poi nella realtà i Rapagnetta – questo il vero nome del Vate – cercavano di sedurre le Marie Hardouin di Gallese: non a caso entrambe, l’americana ammirata da Sartorio e la franco-papalina che D’Annunzio sposò, figurano tra le dame del bel mondo ritratte nel trittico de Le Vergini Savie e delle le Vergini Stolte, commissionato a Sartorio dal conte Primoli nel 1891. All’estremo opposto, degli ormai consumistici anni ’60, è il collage polimaterico di Margherita Vanarelli, che assembla ritagli di pubblicità per comporre una moderna casalinga con bambino sul seggiolone, forse un piccolo marito già ubriaco di vino rosso.
Il Novecento inizia con le opere dello scultore Libero Andreotti, che nei primi anni del secolo elesse nei suoi modi liberty la donna a suo quasi unico soggetto: vi è Artemisia (1906), una cera dove un’elegante cortigiana nuda è circondata da levrieri russi in adorazione, forse un imbestiamento simbolico dei suoi corteggiatori. Lo stesso tema, ancora più esplicito è nel bronzo Donna con levriero (1908), in cui le feste alla padrona, del cane rampante sono così irruente da farle scivolare il vestito mostrando l’esuberante nudità di lei. Una mistura di sensualità, eleganza e perversione, che bene incarna la paura-attrazione per il sesso femminile del decadentismo, in cui la dominante fantasia d’amore e morte non era che un tragediare la paura del contagio sifilitico.
Ben altra morte venne, e fu la guerra. Così grande che cambiò anche lo stile degli artisti: la Venere-Fortuna di Libero Andreotti è completamente diversa dalle opere precedenti. Tra art déco e Quattrocento, scivola sulle acque, facendo windsurf sulla sua conchiglia, una donna longilinea, con fianchi d’adolescente.
Nuova figura di donna artista è Adriana Bisi Fabbri, cugina di Boccioni, qui presente in un gigantesco Autoritratto (1903) rosa-shocking e in un altro, a pastello, inedito. Marisa Mori fu allieva di Casorati e poi futurista: oltre a l’Autoritratto (1928), è sua una Donna che legge in riva al mare (1929), bozzetto incantevole e solare. Di Adriana Pincherle (1946), pittrice e sorella di Alberto Moravia, non vi sono quadri ma essa è più che presente in uno straordinario ritratto dipinto da Afro e in un bronzo di Marino Marini che la raffigura. Di Edita Broglio il grande disegno preparatorio per Terrazza sul Mare (1949). Elica e Luce Balla, figlie di Giacomo Balla, si ritraggono a vicenda, mentre il padre ritrae Luce che dipinge (1935). Poco nota invece è Lila de Nobili, grande costumista e scenografa, di cui qui è una preziosa tempera in cui Maria Callas appare nei panni di Violetta per la famosa Traviata di Luchino Visconti del 1955. Del suo collega Danilo Donati, per Fellini, è invece il grande pastello di Cortigiana Romana (1972) per il film “Roma”, in cui essa appare come simbolo riassuntivo e notturna personificazione della Città Eterna. Puttane di bordello sono invece quelle di Alberto Ziveri, in un quadretto che fu di Zavattini. Di questo sanguigno pittore romano è anche un grande ritratto della moglie, nuda, col cilindro in testa ed il ventaglio in mano, tra suonatori e spettatori, in cui l’equivoca atmosfera postribolare conferisce al dipinto una strana e affascinante bellezza. E’ un mondo da cui non è lontano Renzo Vespignani, che con il suo incredibile virtuosismo del disegno riesce a dare alle sue prostitute vecchie e sfatte un’orrida bellezza al modo di un Grosz italiano di secondo dopoguerra.
Tra misoginia e amore penneggiò un altro sommo disegnatore italiano, Alberto Martini, di cui qui vi è una donnina allegra, una Lady Machbeth (1911) sonnambula dagli occhi sgranati sulla fiamma che non vede, e una Aurèlia (1934) di Gerard de Nerval che al centro del seno schiude un occhio, secondo l’anatomia del surrealismo.
Figurini di moda, il Ritratto della Duse (1910), il Ritratto di Dina Galli (1913), e un Nudo in penombra, sono opera di Enrico Sacchetti, un altro grande misogino che amò tanto le donne, da morire suicida per il rifiuto di una trentenne, a novant’anni.
Poco conosciuto è Mario Micheletti, di cui è però uno dei dipinti più inconsueti della mostra, Natura Viva (1937), autoritratto al cavalletto con la modella nuda sdraiata davanti, i capelli tagliati à la garçonne, impudica nella sua innocenza. Davanti alla nudità di lei, l’artista indossa cappello, cappotto e sciarpa: un paradosso che ricorda la Conversazione Platonica di Casorati.
Picassianamente nuda è la Donna seduta (1943) di Cesare Peverelli, ed ancora più deformati dall’influenza del maestro spagnolo Due nudi ( femminili di Enrico Prampolini. Di Leoncillo invece, sono Tre Veneri (a penna, caricaturali e mostruose, che ricordano i disegni di Scipione. Nuda è anche un’Italia scultorea di Plinio Nomellini, mentre Sironi la presenta vestita e fascistissima con il moschetto o l’elmo da ex-combattente incoronato d’alloro.
Sono assai diverse le donne di Andrea Spadini, lo scultore fantasioso: incantevoli e fiabesche, tanto in pietra, come nella fanciulla con scimmie, che nella sua favorita ceramica smaltata, in cui è capace di dar lustro ad una sarta famosa, Simonetta Fabiani, immortalandola come Leda (1959) che monta alla cavallerizza il suo Cigno. Di Spadini padre, pittore, un Ritrovamento di Mosè (1940) che è uno studio di modelle in cui l’unico maschio è Andrea, appena nato e già messo in posa.
Duilio Cambellotti, che creò anch’esso lo stile della sua epoca, coniugandolo però ai miti classici della Grecia e a quelli arcaici di Roma, unendo cioè antichità e modernità dando vita a qualcosa vicino all’eternità, un’antichità attuale, una modernità remotissima. E’ quella che anima una fantastica scena ad acquarello che illustra il Supplizio delle Danaidi (1950), le cinquanta figlie di Danao, condannate per aver ucciso i loro mariti a riempire d’acqua nell’Ade un gran vaso senza fondo.
Molto diverse le donne di Dino Buzzati, giornalista che fu grande scrittore e anche originalissimo artista figurativo. Circondano la testa dell’emiro che le sta sognando nel suo Harem (1958), sono grappoli di natiche e mammelle senza volto, sono donne oggetto, molto simili a oggetti di design ed alle sculture alla Moore di quell’epoca. Modellate dal desiderio.
Se il desiderio ha dita per modellare un corpo, ha anche occhi per accarezzarlo. Quello della giovinetta dipinta da Ferruccio Ferrazzi ha un corpo che pare levigato da un pennello fatto di ciglia, dipinto di luce abbacinante, d’una chiarezza che vuole essere la simbolica emanazione del corpo dipinto di una fanciulla che è alla primavera della vita, e primavera essa stessa di una natura ancora incontaminata. Dello stesso visionario pittore romano, uno studio per La Giostra (1936), dove donne streghe e baccanti ad un tempo cavalcano cavallini di legno, e un disegno per La Stanza, un’annunciazione erotica che par colorata come se Ferrazzi ci avesse strofinato ali di farfalle.
A La Primavera (1903), dannunziana e un po’ michelangiolesca, è dedicato il cartone di De Carolis, grande pittore idealista.
Cartone, per gli affreschi della Cattedrale di Tripoli dipinti all’epoca di Italo Balbo, è quello di Achille Funi, che rappresenta L’Annunciata (1937), ma ritrae Felicita Frai, allieva praghese e amante del pittore, che la ritrasse anche come Parisina in un altro squisito cartone, servito per le Storie di Ferrara dove la tragica sorte di lei, giustiziata dal marito Niccolò III d’Este.
Ritratti di donna di Pietro Gaudenzi, Roberto Melli, Alberto Savinio, Alberto Scordia, Antonietta Raphael. Bellissimi pastelli di Antonio Mancini, un disegno di Mino Maccari, un acquarello di Renato Guttuso con la testa di Medusa liberamente tratta da Caravaggio.
27 June – 7 September 2019
GALLERIA DEL LAOCOONTE & W. APOLLONI AT THE LAOCOON GALLERY
2a-4 Ryder Street.
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Eleonora Falovo, +447908 380390
Following a successful exhibition at London Art Week in the summer of 2018, Galleria del Laocoonte has again gone into partnership with W. Apolloni, one of Rome’s oldest and most illustrious antique dealer shops, to exhibit at London Art Week 2019.
Founded in 1926, Galleria W. Apolloni has been in business for three generations and is now directed by Marco Fabio Apolloni, a writer, journalist and art historian trained at the Courtauld Institute in London. During its successful history the gallery has sold many masterpieces to museums in Italy and abroad, examples include the Coaci inkstand to the Minneapolis Institute of Art and the Petiet’s family portraits by Andrea Appiani to the Villa Reale in Milan.
In 2012, together with his wife Monica Cardarelli he founded Galleria del Laocoonte, which has specialised in presenting the works of 20th century Italian artists including Sironi, Savinio, Severini, Balla and many others with exhibitions at their gallery in Rome, fairs across Europe and even in public museums. Seven years later they are embarking on a new exciting project here in London, opening Laocoon Gallery which presents not only the best examples of Italian old master paintings and drawings, sculptures, works of art and high quality pieces of furniture, but also works by early 20th century Italian artists, many of them totally unknown by the international market.
One highlight of this year’s London Art Week exhibition at the Laocoon Gallery is a collection of works by Leoncillo Leonardi – known for his work with ceramics and glazed terracotta. Leoncillo (1915 – 1968) has become more recognised in recent years, with his large abstract works from the later part of his career gaining interest on a global scale. The exhibitors are just as passionate about his early works though, Monica Cardarelli, director of Laocoon Gallery says, “… the rest of his [Leoncillo’s] works, beginning in the thirties’ with astounding figurative ceramic sculptures, have never been shown as they should. It is our belief that the unveiling of these pieces will be a revelation that will set him in his proper place as one of Europe’s major sculptors.”
Dal 19 Marzo a Roma la Galleria del Laocoonte ospiterà la mostra in tre sedi Andrea Spadini, 1912 – 1983. Si tratta di una vasta antologica dello scultore e ceramista romano che fu il prediletto da star di Hollywood come Lauren Bacall, Henry Fonda, Douglas Fairbanks jr., ma anche dai più celebri personaggi del mondo del cinema, della moda e della mondanità italiana, tra cui Alberto Sordi, gli stilisti Alberto Fabiani e Simonetta Colonna di Cesarò, o la contessa Cicogna, per la quale assieme a Fabrizio Clerici decorò la bizzarra villa di Venezia.
La mostra, curata da Monica Cardarelli, che in questi anni ha studiato e catalogato le opere dell’archivio di famiglia, esibirà ottanta sculture, tra marmi, pietre di grandi dimensioni, bronzi, terrecotte, e maioliche smaltate, a cui si accompagnano altrettanti disegni dell’artista, da quelli di lui adolescente, furtivo e prodigioso apprendista del padre, il famoso pittore Armando Spadini (1883-1925), a quelli che servirono da studi per le sculture, anch’essi godibili come opere d’arte a sé, per la spiritosa vivacità dell’invenzione e l’agile disinvoltura del tratto.
L’esposizione si articola in TRE SEDI, oltre alla già nominata sede di Via Margutta, dove sono le sculture di maggiore dimensione con i relativi disegni, la produzione giovanile dell’artista trova posto invece a Via Monterone 13, nella Galleria Del Laocoonte attorno al grande marmo Cinquecentesco da cui essa prende il nome. Infine nello Spazio Espositivo di Via del Babuino 136, sono invece disposti i bronzi e le ceramiche di più piccola dimensione.
Da giovanissimo Andrea Spadini divenne scultore a Firenze, alla scuola di Libero Andreotti. Fu poi assistente di Arturo Martini. A diciassette anni era già artista completo e padrone di tutte le tecniche della scultura. Cominciò la sua carriera lavorando per l’E 42 e per il Padiglione Italiano dell’Esposizione Universale di New York del 1939. Dopo la guerra, in cui fu sergente del Genio e tra i difensori di Porta San Paolo il 10 Settembre del 1943, Spadini cominciò quasi per gioco a modellare figure in ceramica. Dopo i suoi lavori realizzati a Villa Cicogna a Venezia, viene invitato da Irene Brin e Gaspero Del Corso a lavorare per la loro Galleria dell’Obelisco con lo pseudonimo, “Lo Spada” con cui l’artista firmò obelischi di ceramica animati da mori, gatti e Pulcinella. Queste opere incontrarono subito il favore del pubblico e l’attenzione della clientela cosmopolita di cui la galleria era un polo d’attrazione. Il lavoro più ambizioso che egli fece per Gaspero Del Corso fu il Lazzarone Napoletano (1958) in terra bianca. Più grande del vero, doveva essere la base per una consolle, ma non passò per le scale, ritornò dunque nello studio dell’artista. Ora a Via Margutta si potrà ammirare da tutti i lati nella sua minuziosa perfezione.
Tra le opere in mostra è una scimmia di terracotta a grandezza naturale, assieme alle più piccole Capra Flautista e Ippopotamo che suona il violino, modello e bozzetti per i bronzi di animali che animano l’orologio musicale del Central Park a Manhattan, voluto dall’editore George T. Delacorte jr. e inaugurato nel 1965.
Due obelischi con le Scimmie Vanitose, quattro Scimmie Ballerine e altre quattro che navigano su barche di papiro, tutte di ceramica smaltata, provengono dalla collezione del conte Lanfranco Rasponi, che delle scimmie aveva la mania, avendone anche una domestica, viziata e adoratissima. Rasponi fu una singolare figura di public relations man nell’ambiente della Lirica tra Italia e Stati uniti, nonché titolare della Sagittarius Gallery a New York, dove nel 1956 si tenne la prima mostra di Andrea Spadini negli Stati Uniti. Il suo successo americano lo portò dopo pochi anni nel 1960 a firmare un contratto con Tiffany & Co., che da quel momento esporrà le sue opere nella sua sede più prestigiosa sulla Quinta Strada di New York. Centritavola o segnaposti di ceramica, lavori ogni volta originali, creati dall’artista uno per uno e mai ripetuti, oppure di bronzo dorato o argentato e persino argenti massicci, costituiscono questa classe di opere, preziose come i gioielli, che in mostra saranno nelle vetrine dello Spazio Espositivo di Via del Babuino 136. Tra queste le personificazioni del Gange e del Fiume Giallo, entrambi in bronzo dorato, figure mollemente adagiate su imbarcazioni simboliche, che Andrea Spadini modellò ispirandosi ai Quattro Fiumi di Bernini di Piazza Navona.
Nella Galleria del Laocoonte a Via Monterone 13, sono adunati i disegni giovanili e le sculture di prima della Guerra. Sono marmi o peperini che Andrea Spadini raccattava in giro tra i ruderi di Roma o della Campagna, vuoi per una ragione di risparmio, vuoi perché l’idea della materia antica era capace di aggiungere qualcosa di suggestivo a queste forme, da lui aggredite con lo scalpello “alla prima “ e lasciate volutamente abbozzate o frammentarie, come se non di un’opera moderna si trattasse, ma di un reperto archeologico consunto o spezzato, in cui si potesse vedere ancora superstite la traccia arcana di una lontana e perduta maestria. È il caso di un ritratto in peperino che pare strappato ad un monumento etrusco, di un San Sebastiano (1936) che è come un mutilo tronco di un Marzia suppliziato, o del Ritratto in marmo di Bruno Barilli (1935), che fa pensare a una testa antica rotolata giù da qualche acropoli.
La sua opera unica e geniale, incurante della logica delle avanguardie, non turbata da ansie di modernismo è sospesa come un sogno di un fantastico mondo popolato di personaggi e animali d’ogni sorta, che giocano e graziosamente sembrano muoversi, tanto naturalmente in equilibrio li ha fissati la mano dell’artista. In questa leggerezza è l’estrema felicità del suo anticonformismo.
Dal 29 Ottobre. Mostra prorogata al 28 Febbraio 2019
L’itinerario della mostra:
GALLERIA W. APOLLONI
Via Margutta 53/B, Roma
ORARIO
10:00-13:00 | 16:00-19:00
dal Lunedì pomeriggio al Sabato mattina
SPAZIO BABUINO
Via del Babuino 136, Roma
ORARIO
10:00-13:00 | 16:00-19:00
dal Lunedì pomeriggio al Sabato mattina
GALLERIA DEL LAOCOONTE
Via Monterone 13 – 13A, Roma
ORARIO
10:00-13:00 | 16:00-19:00
dal Mercoledì al Venerdì
Dal 29 ottobre si aprono i battenti della mostra Leoncillo. Le carte e le Ceramiche. La mostra, che resterà aperta fino alla fine di Dicembre 2018 (prorogata al 28 Febbraio 2019), è stata organizzata dalla Galleria del Laocoonte di Roma, a cura di Marco Fabio Apolloni e Monica Cardarelli, valendosi della consulenza scientifica di Enrico Mascelloni, il principale esperto dell’opera di Leoncillo.
Leoncillo Leonardi (Spoleto 1915-Roma 1968) è tra i massimi scultori italiani del ‘900 e certamente il principale innovatore nell’ambito della ceramica, avendola elevata a materiale esclusivo della sua arte, quindi estraendola dagli scaffali dei negozi dell’artigianato, per porla sui piedistalli e nelle vetrine dei più importanti musei d’arte contemporanea.
Sarà un’esposizione divisa in tre sedi: presso la Galleria W. Apolloni di Via Margutta 53B sono collocate le sculture in ceramica, appartenenti alla fase che si chiude con la fine della II guerra mondiale (1939-1945) e successivamente a quella neocubista (1946-1957), affiancate da un nucleo di disegni che illustrano tali fasi dell’attività di Leoncillo. Nella nuova sede espositiva Spazio Babuino 136, che si inaugura per l’occasione come sede comune della Galleria del Laocoonte e della Galleria W. Apolloni, per piccole e meditate esposizioni, è raccolto un nucleo inedito d’oggetti d’uso: un servizio da thè ed uno da caffè modellato in forme ad un tempo attraenti e mostruose, calici sbilenchi e multicolori, piatti da parete con bassorilievi d’animali, un modello per camino e una cornice per specchio, quest’ultima al contempo metafisica e cubista. Anche qui un nucleo di disegni illustra l’opera del Leoncillo decoratore, che seppe applicare la propria plastica a interni di cinematografi, bar, ristoranti e locali nella Roma del dopoguerra e del miracolo economico. L’ultima sezione della mostra è ospitata nella Galleria del Laocoonte di via Monterone 13-13A e comprende solo disegni dell’ultimo decennio dell’artista, morto nel 1968 a 53 anni, in cui egli abbandonò ogni motivo iconico per dar forma a corpi di materia – sempre terracotta – dall’aspetto minerale, in cui il taglio, la frattura, l’apparenza della combustione, la suggestione di sangue o di lava restituita dagli smalti, danno ad essi una vitalità drammatica.
La mostra è illustrata da un catalogo in due volumi rilegati, uno dedicato a Le Carte ed uno a Le Ceramiche, quindi ai disegni e alle sculture, entrambi a cura di Marco Fabio Apolloni e Monica Cardarelli, con i testi critici di Enrico Mascelloni e con la prima ricostruzione storica e antologica, mai tentata sinora, del Leoncillo disegnatore. Il doppio catalogo è edito da De Luca Editori d’Arte.
Molte sculture in mostra sono inedite, come un grande Copricamino smaltato in nero blu e turchese che restituisce i colori di una grotta marina, già appartenuto all’attore Raf Vallone, oppure tre rilievi di paesaggio pressochè astratti che ornavano l’Hotel Universo di Roma. Due elementi solidi gemelli, sono probabilmente la prima opera compiutamente aniconica di Leoncillo. Una monumentale transenna di balaustra, inedita anch’essa, è esposta accanto al suo disegno preparatorio.
Protagonista della mostra è però la Sirena, uno dei tre “mostri” (insieme all’Arpia e all’Ermafrodito ora alla GNAM) a cui Leoncillo diede vita nel 1939. Essa è l’ultima ancora in mani private e va ritenuta uno dei capolavori più perturbanti della scultura italiana della prima metà del novecento. Accanto a essa, con un corteggio di acquarelli a soggetto muliebre – Canefore, Ritratto di Elsa de’ Giorgi – è esposto il “Ritratto di Mary” del 1953, da cui l’artista non si separò mai in vita, poiché in esso ritrasse Mary Jochemnse, Miss Olanda nel 1948, bellissima donna da lui amata. Inediti sono pure due piccoli rilievi, La Volpe e il Corvo e Il Lupo e l’Agnello – prestati dagli eredi e tra le opere più antiche di un artista che, come Trilussa, nascondeva forse nelle favole di Fedro il suo precoce sentimento antifascista.
Un altro capolavoro è Il Corso del Tevere, esposto nello Spazio Babuino 136 accanto al suo disegno preparatorio, piccola sinfonia sul tratto urbano del fiume di Roma, scandito dalle sagome scomposte di familiari monumenti come Ponte Milvio, Castel Sant’Angelo, Ponte Rotto, l’Isola Tiberina, brillanti e colorati come in altrettante cartoline cubiste.
La scelta dei numerosi disegni è una prima campionatura per la ricostruzione della carriera dell’artista, e può ritenersi il primo atto di una catalogazione più vasta, in attesa di un futuro catalogo generale di tutta l’opera grafica e non solo di quella plastica
Notizie utili:
Indirizzi e orari
Via Margutta 53/B. Dal lunedì pomeriggio al sabato mattina, dalle 10:00 alle 13:00 e dalle 16:00 alle 19:00
Via del Babuino 136. Dal lunedì pomeriggio al sabato mattina, dalle 10:00 alle 13:00 e dalle 16:00 alle 19:00
Via Monterone 13, 13/A. Dal mercoledì al venerdì, dalle 10:00 alle 13:00 e dalle 16:00 alle 19:00. www.laocoontegalleria.it
Catalogo: Leoncillo – Le carte e le Ceramiche in due volumi (a cura di Marco Fabio Apolloni e Monica Cardarelli. Testi di Enrico Mascelloni – Casa editrice: De Luca Editori d’Arte, www.delucaeditori.com)
Dal 20 al 23 Settembre la Galleria del Laocoonte vi invita a visitare il suo stand numero 7 nel padiglione A
Saranno esposte opere di:
Afro Basaldella, Duilio Cambellotti, Fabrizio Clerici, Fortunato Depero, Marisa Mori, Alberto Savinio, Gino Severini, Mario Sironi, Aleardo Terzi
INFO
Indirizzo:
Centro Esposizioni Lugano
Via Campo Marzio, 6900 Lugano, Svizzera
Orari:
Preview giovedì 20 settembre – esclusivamente ad invito
18.00-21.00
Venerdì 21, sabato 22 e domenica 23 settembre
11.00-19.00
Biglietti:
Giornaliero – 15 CHF
Giornaliero ridotto – 10 CHF (studenti, over 65, persone diversamente abili con accompagnatore, titolari card Visarte)
Ingresso gratuito per minori di 16 anni se accompagnati da un adulto
Disegni smisurati del ’900 Italiano
Una trentina di cartoni di maestri del ’900 italiano mostrano l’alto livello dell’esercizio del disegnare nella prima metà del secolo scorso
Villa Torlonia, Casino dei Principi
24 novembre 2017 – 18 marzo 2018
Inaugurazione 23 novembre ore 18.00
Smisurato rispetto agli schizzi, agli studi preparatori, ai bozzetti, il cartone, è un disegno grande quanto l’opera o la parte di opera che l’artista intende realizzare. Debba essere questa un quadro, un affresco, una vetrata, un mosaico o un arazzo, il cartone è una realizzazione necessaria affinché l’opera sia portata a termine dall’artista stesso o dalle maestranze specializzate che devono materialmente compierla.
Non deve stupire dunque che nel primo ’900 italiano, legato al ritorno alle tecniche di decorazione antiche e tradizionali, sopravvivano questi grandi fogli su cui l’ispirazione dell’artista, già spesa in studi più piccoli, ha saputo trovare finalmente la vera misura e le linee definitive della forma del proprio lavoro.
Se imperturbabile nella sua durevolezza è il buon fresco, brillante il mosaico, splendente la vetrata, il cartone invece non mostra solo gli accidenti occorsi durante la lavorazione, ma è reso fragile dal tempo come un antico documento autografo. Da qui la sua preziosità, la reverenza con cui esso va trattato e mostrato.
La mostra Disegni smisurati del ’900 Italiano, al Casino dei Principi di Villa Torlonia dal 24 novembre 2017 al 18 marzo 2018 – promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, con i servizi museali Zètema Progetto Cultura – espone una ventina di cartoni di maestri del ’900 italiano che i curatori, Marco Fabio Apolloni e Monica Cardarelli, direttrice della Galleria del Laocoonte di Roma, hanno adunato e restaurato, rastrellandoli dal mercato dell’arte o direttamente dagli eredi degli artisti, per costituire una sorta di pinacoteca di “disegni smisurati” per dimostrare l’alto livello dell’esercizio del disegnare nella prima metà del secolo scorso.
Del dannunziano Adolfo De Carolis si espone il grande foglio preparatorio del dipinto Primavera (1903). Due maestosi cartoni per gli affreschi dello scalone del palazzo dell’INA a Roma – ora proprietà dell’Ambasciata Americana – sono opera del quasi dimenticato Giulio Bargellini (Firenze 1875 – Roma 1936), frescante instancabile di terme, banche e ministeri.
Di Achille Funi (Ferrara 1890 – Appiano Gentile, Como 1972), formidabile frescante, ma anche restauratore in chiave moderna dell’arte di Giotto e Piero della Francesca, si mostrano qui due schiere di soldati romani disegnati per il Martirio di S. Giorgio per la chiesa omonima a Milano, Didone e sua sorella per la sala dell’Eneide, affresco effimero eseguito per la Triennale di Monza del 1930, una Zuffa di Cavalieri per il Municipio di Bergamo e infine la Vergine annunciata, cartone colorato a pastello per la chiesa di San Francesco a Tripoli, in cui ha raffigurato la propria allieva e amante Felicita Frei.
Di Gino Severini è una Madonna con Bambino per la Cattedrale di Losanna.
Publio Morbiducci (1889-1963), l’autore del Monumento al Bersagliere a Porta Pia, è l’autore di una serie di disegni con trionfi di spoglie militari in cui le armi dell’antichità classica sono commiste con quelle moderne dell’ultima guerra.
Infine di Ottone Rosai è un Giovinetto Crocifisso sospeso quasi a grandezza naturale su un vasto foglio, in cui il rovello del disegno si traduce in un’apparenza espressionista di grande pathos, dove la sua tormentata omosessualità eleva il proprio oggetto d’amore a sofferente divinità.
Un altro nucleo di cartoni colorati a pastello, opera di Pietro Gaudenzi (Genova 1880 – Anticoli Corrado 1955) costituiscono una mostra nella mostra, illustrando, assieme a bozzetti e foto d’epoca, un intero ciclo di affreschi, eseguiti in due sale del Castello dei Cavalieri di Rodi nell’estate del 1938, oggi completamente perduti.
Esposti al Museo di Anticoli Corrado nel 2014, proprio dove furono eseguiti dall’artista, e nel 2015 alla Mostra “Piero della Francesca. Indagine su un mito” ai Musei di San Domenico a Forlì, dove apparvero come una rivelazione, i cartoni sono esposti per la prima volta in uno spazio pubblico a Roma assieme ai bozzetti, a un dipinto preparatorio de Lo Sposalizio e a un ritrovato inedito ritratto monumentale a olio di Cesare Maria De Vecchi, il quadrunviro che fu ultimo Governatore civile di Rodi, ispiratore e committente del restauro del Castello e delle pitture che Gaudenzi vi eseguì.
I cartoni, straordinari per delicatezza di tocco, rappresentano scene di genere o figure femminili ritratte dall’artista nello svolgimento di umili occupazioni quotidiane nelle strade e nelle campagne di Anticoli Corrado. Guardando gli studi e le figure per la “Sala del Pane”, non si può non ricordare la retorica della “Battaglia del Grano” mussoliniana, ma le figure di Gaudenzi – che pure sul tema vincerà anche, con un suo trittico dipinto, il premio Cremona nel 1940 – sembrano, nella fissità delle loro consuetudini millenarie e immutabili, lontane all’enfasi trionfalistica del regime.
In mostra anche un bozzetto a olio, ciò che resta di un grande quadro in cui era rappresentato Lo Sposalizio, un banchetto di nozze umile e severo trasfigurato in cenacolo sacro che rappresenta le nozze dell’artista con la modella anticolana Candida Toppi, che l’epidemia di spagnola portò via nel 1918. Appena in tempo per metterla in posa, per il grande quadro, due metri e mezzo per sette, che costò lunghi anni di lavoro e fu esposto alla Biennale di Venezia del 1932 e oggi è smarrito.
Schivo, taciturno creatore di un mondo e di un umanità incantata in cui i modelli contadini, da lui ritratti dal vero nel paese di Anticoli Corrado, che egli elesse ad Arcadia personale, sono trasfigurati per grazia poetica, in modo che l’umano e il divino si confondano: così in Gaudenzi una Sacra Famiglia diventa una famiglia, una Visitazione una visita tra comari, uno Sposalizio un semplice banchetto di nozze, senza che il senso del sacro venga meno, ma senza che questo tradisca il senso del vero. È la bellezza dell’umiltà della leggenda cristiana, tante volte meravigliosamente vestita in pittura, che Gaudenzi ha saputo riportare come declinazione purista del Novecento italiano. Con semplicità e finezza sincere.
Il progetto delle pitture nacque per il più ridente angolo del nostro effimero Impero coloniale, l’incantevole isola di Rodi, che fu sede del Governatorato italiano del Dodecaneso dal 1912 al 1943, vetrina turistica e paragone d’eccellenza architettonica e urbanistica. Nel 1936 Mussolini nominò Governatore di Rodi Cesare Maria De Vecchi (Casal Monferrato 1884 – Roma 1959), conte di Val Cismon per meriti militari, già Ras di Torino e Governatore della Somalia.
Il nuovo governatore elesse sua maggiore impresa la ricostruzione del Castello dei Cavalieri di Rodi. Costruito dall’Ordine dei Cavalieri di S. Giovanni che dovettero abbandonare l’isola ai Turchi nel 1522. Nel 1856 era stato distrutto dall’esplosione accidentale di una polveriera e adattato a carcere. De Vecchi volle ricostruirlo completamente, ottenendo un castello “nuovo”, quasi un fondale operistico o una scenografia cinematografica. L’ambiziosa opera, portata a termine in soli tre anni, costò 30 milioni di lire d’allora. Cinquecento tagliapietra e scalpellini furono fatti venire dalla Puglia, squadre di mosaicisti da Firenze e da Venezia per restaurare e mettere in opera nei pavimenti gli antichi mosaici trovati negli scavi archeologici della vicina isola di Coo. L’effetto è maestoso e straniante, gli inglesi che occuparono l’isola fino al ’47 lo descrissero come “a fascist Folly”, e oggi è il monumento più visitato di tutta Rodi.
SCHEDA INFO
Titolo mostra Disegni smisurati del ’900 Italiano
Luogo Musei di Villa Torlonia, Casino dei Principi, via Nomentana 70
Apertura al pubblico 24 novembre 2017 – 18 marzo 2018
Inaugurazione 23 novembre ore 18.00
Orario Da martedì a domenica ore 9.00 – 19.00
24 e 31 dicembre ore 9.00 – 14.00
La biglietteria chiude 45 minuti prima
Giorni di chiusura: lunedì, 25 dicembre, 1° gennaio, 1 maggio,
La biglietteria è presso il Casino Nobile
Biglietti Biglietto cumulativo con Museo del Casino Nobile: euro 7,50 ridotto 5,50 – 6,50
Promossa da Promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale –
Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali
A cura di Marco Fabio Apolloni e Monica Cardarelli
Info Mostra 060608 (tutti i giorni ore 9.00 – 19.00)
www.museivillatorlonia.it; www.museiincomune.it
Servizi museali Zètema Progetto Cultura
Pubblicazioni Cartoni. Disegni smisurati del ’900 italiano. A cura di Marco Fabio Apolloni e Monica Cardarelli. De Luca Editori D’arte, Roma.
Pietro Gaudenzi. Gli affreschi perduti del Castello dei Cavalieri di Rodi. A cura di Marco Fabio Apolloni e Monica Cardarelli. Edizione Polistampa, Firenze
SPONSOR SISTEMA MUSEI CIVICI
Con il contributo tecnico di Ferrovie dello Stato Italiane
Media Partner Il Messaggero
SPONSOR MOSTRA Galleria del Laocoonte, Roma
A Roma nei nuovi spazi espositivo della Galleria W. Apolloni
Via Margutta 53b
Lunedì ore 15,30 – 19,00
Martedì – Venerdì ore 10,00 – 13,00 / 15,30 – 19,00
Catalogo: a cura di Marco Fabio Apolloni e Monica Cardarelli, (De Luca Editori d’Arte), introdotto da uno scritto di Antonio Pennacchi, l’epico romanziere di “Canale Mussolini”, e si avvale della collaborazione di Anna Maria Damigella, Francesco Parisi, e di Francesco Tetro, Direttore del Museo Cambellotti di Latina.
La Galleria W. Apolloni è davvero orgogliosa, e non per modo di dire, di presentare a Roma il suo nuovo spazio di esposizione in via Margutta 53B, nel più grande degli studi d’artista del Palazzo Patrizi, sede a suo tempo dell’Accademia Britannica fino al 1911, e per tanti anni negozio dell’antiquario romano Massimo Tuena. Per rendere memorabile questa apertura la galleria antiquaria ospita la Galleria del Laocoonte, impresa partner per l’arte moderna italiana, che per l’occasione ha organizzato un’esposizione dedicata al grande artista romano Duilio Cambellotti (1876-1960), già presentata al Museo Emilio Greco di Sabaudia l’estate scorsa con grande successo di pubblico e di critica, ma accresciuta per l’occasione da numerosi prestiti di privati collezionisti e colleghi galleristi, da risultarne, con una trentina di opere – alcune inedite – quasi raddoppiata in estensione. Per l’occasione infatti, oltre al catalogo già esistente “Io sono Cambellotti”, pubblicato da De Luca editori d’Arte (a cura di Marco Fabio Apolloni e Monica Cardarelli, con presentazione di Antonio Pennacchi) verrà pubblicato con lo stesso editore un secondo fascicolo.
Cambellotti, artista di schietta e programmatica romanità, che padroneggiò ogni tecnica e materiali, e fu poliedrico ed eclettico creatore di sculture di bronzo, legno, pietra e terracotta, cesellatore di medaglie, realizzatore formidabile di pitture murali, di vetrate, di maioliche, di incisioni e xilografie, di mobili e arredi. Fu anche scenografo, costumista, e “metteur en scène”, soprattutto per il teatro classico a Siracusa e ad Ostia, ma anche per il cinematografo, dagli inizi del muto fino al neorealismo del dopoguerra.
Il suo primo trionfo artistico, del resto, fu l’allestimento della prima rappresentazione de “La Nave” di Gabriele d’Annunzio, nel 1908. Fu anche creatore di manifesti come quello per l’Esposizione Internazionale di Roma del 1911, ed illustratore di numerosissimi libri. In mostra sarà la lussuosa edizione delle favole di Trilussa dalla copertina figurata in tessuto colorato, ricca come un piccolo arazzo. L’arte che invece non praticò mai fu la pittura da cavalletto destinata agli amatori privati. Infatti fu un fedele seguace dell’ideologia umanitaria di William Morris, e concepì sempre la sua arte come opera di divulgazione popolare, come educazione al bello per le masse, e all’inverso,impose al gusto contemporaneo eleganti idealizzazioni di oggetti rustici – mobili, maioliche – che potessero
rendere consapevole il pubblico borghese dell’atavica bellezza degli strumenti del lavoro contadino.
In mostra due prestigiosi mobili dimostrano la sua unicità strepitosa di artista-artigiano. Il suo amore quasi religioso, ma laico, per Roma, la Roma antica svelata dalle scoperte archeologiche a lui contemporanee si riversò soprattutto nella creazione delle “Leggende Romane”, prima tempere e poi xilografie a cui lavorò tutta la vita, Cambellotti creò un neoclassicismo – ma sarebbe meglio dire neo-arcaismo – tutto suo, espressionista e rustico. Socialista umanitario, moderato e pacifista sempre, resuscitò in senso popolare e repubblicano la simbologia romana del fascio, dell’aquila e della lupa molto prima dell’avvento del fascismo, che quando arrivò al potere se ne impadronì trovando in Cambellotti un repertorio simbolico già bello e fatto. Delle “Leggende Romane”, vi sono diverse tavole originali e numerosi studi relativi, nonché le rare tirature originali di alcune xilografie della serie che rimase inedita finché l’artista fu in vita. Oltre che per Roma, Il suo amore per l’Agro Romano e Pontino lo portarono a studiare gli alberi e le piante, gli animali, i paesaggi, le abitazioni, le genti ed i costumi della campagna attorno a Roma, per conservarne il ricordo in forme artisticamente stilizzate e inconfondibili, diffondendone le immagini al fine di sensibilizzare la società sulle condizioni di arretratezza, fatica, miseria e malattia in cui vivevano i contadini dei latifondi malarici.
Con Giovanni Cena, Giacomo Balla, Sibilla Aleramo e Alessandro Marcucci e altri intellettuali umanitari del tempo fu attivo per promuovere le scuole per i figli dei contadini a cui prestò la propria opera di decoratore in edifici in cui il rustico artistico delle cose familiari accogliesse i bambini in ambienti pratici e salubri. L’osservazione degli usi atavici lo portò a studiare la Roma
antica delle origini, in un tempo in cui gli scavi al Foro e al Palatino ne portavano alla luce resti e memorie.
Illustratore di propaganda nella Prima Guerra Mondiale, creatore di singolari monumenti ai caduti nel primo dopoguerra – Terracina, Priverno – Cambellotti fu anche coinvolto nell’opera delle nuove città di fondazione della Bonifica Pontina. Sua la smisurata pittura murale con la “Conquista della Terra” che orna il palazzo della prefettura di Latina.
Terracina era infatti la sua residenza estiva, dove abitava la pittoresca Torre Frangipane, dall’alto della quale- come si vede in mostra – ha immortalato un volo di rondini in uno splendido disegno in cui le volanti messaggere della primavera si librano alte e grandissime al di sopra dei tetti del paese minuscoli e lontani.
In mostra i gessi originali di due delle tre Dolenti del Monumento ai Caduti di Terracina, uno splendido bronzo de “La Corazza” celebrazione dell’antico guerriero contadino italico, un gesso di leonessa, un commovente presepe di terracotta magistralmente dipinto. Delle “Leggende Romane” la tempera più antica del Ponte Sublicio e tre altre leggende, Marte, Orazio Coclite e l’Origine del Campidoglio, stampate da Cambellotti in vita. Acquarelli e disegni preparatori per la casa dei Mutilati di Siracusa, dove i soldati feriti sono tramutati in dolorosi tronchi potati carichi d’armi. La xilografia di Terracina bombardata e il suo disegno preparatorio, “La Legnara” che fa parte di un poema iconografico dedicato al Circeo e alla navigazione antica. Manifesti e tempere preparatorie per le tragedie greche messe in scena a Siracusa. Una serie di medaglie di bronzo con le relative preparazioni in gesso e cera mostrano a qual punto alta fosse la maestria di Cambellotti in quest’arte nella quale egli fu davvero un Cellini del XX secolo. Un cartone di vetrata, disegno smisurato per l’oculo della facciata del Duomo di Teramo, mostra una Vergine tra gli angeli circondata di fiori come una donna Liberty.
Numerose le piccole illustrazioni per libri che mostrano la sapienza grafica di Cambellotti disegnatore, non solo di tavole, ma anche di vignette testate e finalini, una maniera di adornare il libro in ogni sua parte affinché la parte dell’artista fosse pari a quella dell’autore del libro. E in ciò fu superiore, di molti libri avremmo perduto la memoria se non vi fossero le figure di Cambellotti a
renderli preziosi. Tra le opere presentate a Roma rammentiamo, un “Buttero” insieme rustico e futurista appartenuto a Bruno Mussolini, le bronzee conche “dei Cavalli” e “dei Bufali” prodigio di naturalismo e sinteticità formale, e un vaso di bucchero, resurrezione dell’antica tecnica etrusca, ornato dai segni dello Zodiaco. Si segnalano anche le meravigliose illustrazioni per il Prometeo e i Sette contro Tebe di Eschilo, e i modellini di scenografie, come quello per “L’Aiace” e per “L’Ecuba”, dove le linee del modernismo si sposano con l’evocazione dell’antichità remota, tanto da rendere contemporaneo lo stile dell’Ellade primitiva.
NOTIZIE UTILI
Dove: Roma, nuova sede della Galleria W.Apolloni, Via Margutta 53B
Vernissage: venerdì 27 ore 18.00
Quando: dal Venerdì 27 ottobre, ore 18.00 al 23 dicembre 2017
A torino in occasione della fiera d’arte Flash Back
Pala Alpitour|Isozaki – Torino
Ingresso unico Piazza d’armi
Da Giovedì 2 Novembre a Domenica 5 Novembre 2017
Orario: 11.00 – 20.00
Autoritratto, 1930
Olio su tavola, c/c 44×51
Un itinerario di parole per la città seguendo le tracce di Picasso: dagli Studi Patrizi di via Margutta dove allestì il suo atelier ai siti dell’antichità che cambiarono per sempre il suo orizzonte culturale, dalla scoperta della Roma popolare in compagnia degli altri artisti impegnati nel progetto Paradeall’incontro fatale con Olga. In occasione della mostra Picasso. Tra Cubismo e Classicismo 1915 – 1925, quattro appuntamenti romani per raccontare, seguendo il filo rosso delle opere d’arte e delle suggestioni visive, il primo viaggio di Picasso in Italia e l’enorme impatto che questo ebbe nell’evoluzione del suo stile e della sua idea di modernità.
Valentina Moncada racconta Picasso nel suo atelier, il fervore creativo, la quotidianità romana, il rapporto con i numerosi artisti italiani dell’epoca e la nascita del progetto di Parade.
La mostra dal titolo “Picasso. Tra Cubismo e Classicismo 1915-1925” raccoglie un centinaio di capolavori esposti e scelti dal curatore Olivier Berggruen, in collaborazione con Anunciata von Liechtenstein, con prestiti di musei e collezioni eccellenti, dal Musée Picasso e dal Centre Pompidou di Parigi alla Tate di Londra, dal MoMa e dal Metropolitan Museum di New York al Museum Berggruen di Berlino, dalla Fundació Museu Picasso di Barcellona al Guggenheim di New York.
La mostra si soffermerà in particolare sul metodo del pastiche, analizzando le modalità e le procedure tramite le quali Picasso lo utilizzò come strumento al servizio del modernismo, in un percorso dal realismo all’astrazione tra i più originali e straordinari della storia dell’arte moderna. L’esposizione illustrerà gli esperimenti condotti da Picasso con diversi stili e generi: dal gioco delle superfici decorative nei collage, eseguiti durante la prima guerra mondiale, al realismo stilizzato degli “anni Diaghilev”, dalla natura morta al ritratto.
A Palazzo Barberini poi, nel grandioso salone affrescato da Pietro da Cortona, verrà esposto, per la prima volta a Roma, il sipario dipinto per Parade, una immensa tela lunga 17 metri e alta 11. L’architettura di Bernini sarà la cornice per un emozionante dialogo tra l’opera di Picasso e il grande affresco barocco.
presenta
30a edizione
Via del Parione, 11 – 50123 Firenze
Sono le parole che accoglievano il visitatore all’ingresso del Palazzo della Secessione viennese ideato, come un tempio, dall’architetto Joseph Maria Olbrich e destinato alle esposizioni d’arte.
Il motto, coniato dal giornalista Ludwig Hevesi, fu trasposto graficamente da Gustav Klimt in un celebre manifesto che vedeva Teseo, l’eroe-artista, lottare contro il Minotauro, emblema della cultura al potere, dominata dall’implacabile avversione nei confronti dell’arte moderna.
Anche Klimt, che più tardi riscosse numerosi e ufficiali successi, fu escluso da una delle più importanti mostre annuali viennesi assieme ad altri giovani colleghi costretti a restare nell’oscurità. Incompresi e maltrattati dall’arte ufficiale, timorosa d’innovazione, i giovani artisti europei si costituirono in movimenti staccandosi dalle aggregazioni capitanate dagli artisti della precedente generazione, dando vita a vere e proprie Secessioni che, con rapidità moderna, si diffusero nei grandi centri di area mitteleuropea, in particolare a Monaco e a Vienna.
Le Secessioni apportarono all’arte moderna un nuovo, e più dinamico, direzione verso l’equilibrio e la forma manifestavano la continua ricerca degli artisti italiani di una via altra e diversa in cui coesistevano ardite sperimentazioni e le ultime propaggini di uno stile ormai avviato a rinchiudersi in se stesso.
Le Secessioni costituirono dunque una premessa necessaria, il terreno di coltura di nuovi fermenti, sia della linea figurativa, seppure con gli intricati e deformati percorsi del segno, sia per gli sviluppi in senso non figurativo, si pensi a Vasilij Kandinskij nella Monaco di Von Stuck.
I giovani che aderirono alle Secessioni, o che esposero alle annuali mostre, chiedevano, infatti, più attenzione alle espressioni innovative testimoniando dibattito che si allargò presto anche in altre città europee e del bacino mediterraneo, da Praga a Roma, propagando un gusto più irrigidito delle influenze dell’Art Nouveau francese e anglosassone, ma che includeva stilemi delle varie tradizioni nazionali.
Le ideologie secessioniste vennero elaborate in forme moderne non soltanto da pittori e scultori, ma anche da letterati fedeli alla loro missione: Hugo von Hofmannsthal e Rainer Maria Rilke incarnarono perfettamente la figura del profeta.
Nel mosaico di fisionomie tradizionali di cui si componeva l’Europa venivano emergendo i tratti artistici distintivi delle maggiori capitali.
A Monaco, affascinato come Friedrich Schiller dal mito mediterraneo e dal sole di Omero (“Und die Sonne Homers, siehe!”, terminava una sua elegia), Franz von Stuck popolava le brume nordiche di fauni, demoni meridiani e ninfe dagli sguardi e dalle carni accese dal desiderio, poi trasposti nella rivista “Jugend”, che diede il nome all’accezione tedesca di Liberty.
A Vienna l’idea di bellezza era rappresentata dalla donna in tutte le espressioni del femminino, eterea come la Nuda Veritas di Klimt e adorna di panneggi geometrizzati, di ori trionfanti e lapislazzuli come il folle lusso della cupola dorata del Tempio dell’arte di Olbricht e della rivista “Ver Sacrum”.
Le vie acciottolate e buie della “Praga magica” e di “Tutte le bellezze del mondo”, così ben descritte da Angelo Maria Ripellino e da Jaroslav Seifert, venivano invece percorse dai Golem di Gustav Meyrink, dagli incubi oscuri e filiformi e dai sabba stregonici che popolavano le visioni di Josef Váchal e degli altri membri del gruppo Sursum affascinati dalla centenaria tradizione occulta della capitale boema.
Nel crocevia romano invece la Secessione si formò a ridosso della Prima guerra mondiale, in un periodo percorso da fremiti nazionalisti e in piena trasformazione di gusto. Il rifiuto dell’avanguardia più rivoluzionaria – il Futurismo – e il mutamento di direzione verso l’equilibrio e la forma manifestavano la continua ricerca degli artisti italiani di una via altra e diversa in cui coesistevano ardite sperimentazioni e le ultime propaggini di uno stile ormai avviato a rinchiudersi in se stesso.
Le Secessioni costituirono dunque una premessa necessaria, il terreno di coltura di nuovi fermenti, sia della linea figurativa, seppure con gli intricati e deformati percorsi del segno, sia per gli sviluppi in senso non figurativo, si pensi a Vasilij Kandinskij nella Monaco di Von Stuck.
I giovani che aderirono alle Secessioni, o che esposero alle annuali mostre, chiedevano, infatti, più attenzione alle espressioni innovative testimoniando perentoriamente l’inutilità delle scuole e dell’insegnamento dell’arte: “artisti si nasce non si diventa”.
INFORMAZIONI E PRENOTAZIONI
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ORARI MOSTRA
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Sabato e festivi 9.00-20.00
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BIGLIETTI
Intero: 12 euro
Ridotto: 10 euro (gruppi di adulti in visita guidata organizzata con gratuità per 1 accompagnatore;
gruppi di adulti in visita guidata a orario fisso; visitatori di età compresa tra 6 e 18 anni; over 65; studenti universitari; insegnanti con documento; categorie convenzionate)
Gratuito: bambini fino a 5 anni; portatori di handicap e 1 accompagnatore; giornalisti con tesserino; militari
VISITE GUIDATE (max 25 persone a gruppo)
Visite guidate gruppi adulti: 75 euro
Visite guidate in lingua: 85 euro
Visite guidate con linguaggio italiano dei segni: 90 euro
Visite guidate a orario fisso
sabato e festivi alle ore 11.00, 15.30 e 17.30: 14 euro a persona comprensivo di biglietto d’ingresso ridotto
SPECIALE SCUOLE
Biglietto: 2 euro a studente e ingresso gratuito per 2 accompagnatori (tariffa valida per gli studenti di tutte le scuole)
Visite guidate tematiche o laboratori didattici:
GRATUITI per le scuole delle province di Padova e Rovigo; 40 euro per tutte le altre scuole
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La nascita della comunicazione moderna 1890-1957 – La storia della Pubblicità in Italia. 200 opere nella Villa dei Capolavori
Èla Pubblicità la protagonista della grande mostra in programma dal 9 settembre al 10 dicembre 2017 nei saloni della Fondazione Magnani-Rocca – la ‘Villa dei Capolavori’ a Mamiano di Traversetolo presso Parma che fu la sontuosa dimora di Luigi Magnani.
Volete la salute?? Bevete il Ferro China Bisleri
È il 22 giugno 1890 e sulla ‘Tribuna Illustrata’ appare il primo e più antico slogan italiano a cui ne seguirono tanti negli anni successivi come: Bianchezza dei denti Igiene della Bocca …. La vera Eau de Botot è il solo dentifricio approvato dall’Accademia di Medicina di Parigi. fino al celebre A dir le mie virtù basta un sorriso per il dentifricio Kaliklor (1919) esito felice di un concorso aperto a tutti divenuto una pietra miliare della storia della comunicazione pubblicitaria.
Da questi primi passi della storia della pubblicità prende avvio la mostra, a cura di Dario Cimorelli e Stefano Roffi, che, attraverso duecento opere dalla fine dell’Ottocento all’era di Carosello, si pone l’obiettivo di raccontare la nascita in Italia della pubblicità dalle sue prime forme di comunicazione semplici e dirette, all’introduzione dell’illustrazione come strumento persuasivo e spiazzante per novità e per fantasia, al rapporto tra illustrazione e messaggio pubblicitario attraverso i diversi media, dal più conosciuto manifesto, alla locandina, alla targa di latta e poi al packaging della confezione, fino all’arrivo della radio come strumento di comunicazione di massa.
La prima sezione racconta come i primi illustratori furono in primo luogo artisti e i loro bozzetti e manifesti fossero realizzati seguendo l’idea dell’illustrazione come elemento di comunicazione, in primo luogo bello e quindi indipendente dal contenuto promosso, dove la rappresentazione spesso stupisce, altre volte cattura l’attenzione per la sua costruzione e composizione cromatica, altre volte impaurisce, altre ancora attrae con ironia.
La seconda sezione è dedicata al rapporto tra illustrazione e messaggio pubblicitario, dove uno rafforza l’altro, dove il prodotto è rappresentato, o comunque evocato nella rappresentazione, e quindi descritto con il suo nome e la sua marca alcune volte associato a uno slogan che ne rafforza le caratteristiche e la sua distintività. In questa sezione divisa in capitoli, attraverso marchi celeberrimi quali Barilla, Campari, Cinzano, Motta, Pirelli e molti altri, si indaga il mondo del manifesto in un incrocio virtuoso tra temi (la donna, gli animali, l’uomo etc.) i settori merceologici (bevande, moda, trasporti, turismo etc..) le scuole (le grafiche Ricordi, Richter, Chappius etc..) le prime agenzie pubblicitarie (Maga, Acme Dalmonte etc..) e i grandi maestri (fra i quali, Cappiello, Dudovich, Mauzan, Codognato, Carboni, Nizzoli, Testa).
La terza sezione riguarda tutti gli strumenti di promozione pubblicitaria che si sono sviluppati accanto al più conosciuto manifesto, come locandine, depliant, targhe in latta fino all’illustrazione della confezione.
La quarta e ultima sezione è dedicata ai nuovi strumenti di comunicazione che si affacciano dal 1920 in poi, la radio prima e poi la televisione fino al giorno in cui nacque Carosello, il primo passo verso un’altra storia.
La mostra, fra gli altri contributi, si avvale della collaborazione col prestito di un importante numero di bozzetti originali di Carboni, Nizzoli, Testa, Sepo del Centro Studi e Archivio della Comunicazione (CSAC) dell’Università di Parma, e di manifesti d’epoca del Museo nazionale Collezione Salce di Treviso, della Civica Raccolta delle Stampe ‘Achille Bertarelli’ del Comune di Milano, della Collezione Alessandro Bellenda – Galleria L’IMAGE, Alassio (Savona).
Il catalogo dell’esposizione, edito da Silvana Editoriale, prevede i saggi di Dario Cimorelli, Nando Fasce, Elio Grazioli, Peppino Ortoleva, Stefano Roffi, Stefano Sbarbaro, Anna Villari oltre alla riproduzione di tutte le opere esposte.
Principali temi trattati in catalogo: Anna Villari – la pubblicità dalle origini a Carosello, Elio Grazioli – arte e pubblicità, Nando Fasce – la pubblicità a confronto USA-Italia, Peppino Ortoleva – la pubblicità radiofonica, Stefano Sbarbaro – le Officine Grafiche Ricordi
Dal 9 settembre al 10 dicembre 2017. Aperto anche tutti i festivi, compresi 1 novembre e 8 dicembre.
Orario: dal martedì al venerdì continuato 10-18 (la biglietteria chiude alle 17) – sabato, domenica e festivi continuato 10-19 (la biglietteria chiude alle 18). Lunedì chiuso.
Ingresso: € 10,00 valido anche per le raccolte permanenti – € 5,00 per le scuole.
Informazioni e prenotazioni gruppi: tel. 0521 848327 / 848148 info@magnanirocca.it
Il martedì ore 15.30, il sabato ore 16 e la domenica e festivi ore 11.30, 15.30, 16.30, visita alla mostra PUBBLICITÁ! e al capolavoro ospite di Francis Bacon con guida specializzata; è consigliato prenotare via email a segreteria@magnanirocca.it , oppure presentarsi all’ingresso del museo fino a esaurimento posti; costo € 15,00 (ingresso e guida).
Presentando il biglietto d’ingresso della Fondazione è possibile visitare lo Csac a prezzo scontato www.csacparma.it; in programma iniziative comuni fra Fondazione Magnani-Rocca e Csac.
Sempre presentando il biglietto d’ingresso della Fondazione, fra il 30 settembre e l’8 ottobre, ingresso a prezzo scontato al Mercanteinfiera presso le Fiere di Parma www.mercanteinfiera.it.
La mostra è realizzata grazie a: FONDAZIONE CARIPARMA, CRÉDIT AGRICOLE CARIPARMA.
Media partner: Gazzetta di Parma. Con la collaborazione di XL Catlin, leader mondiale nell’assicurazione delle opere d’arte, e di AON S.p.A. Sponsor tecnici: Angeli Cornici, Butterfly Transport, Fattorie Canossa, Società per la Mobilità e il Trasporto Pubblico.
Disegni smisurati, ovvero cartoni, prodromi di affreschi e vetrate del primo ‘900 italiano, quando il disegnare era ancora la prima condizione necessaria del fare arte. Grandi veline di regime, carte da ricalco per i grandi murali di Mario Sironi, bozzetti dei grandi mosaici pensati da Gino Severini, o figure klimtiane del misconosciuto Bargellini, fantasmi classici che ancora sfilano sulle pareti di ministeri, grandi banche e terme. Carte colorate, curve e spigoli agitati dall’invenzione futurista di Giacomo Balla, nel piccolo spazio di paralumi, in una lettera travolgente dai caratteri moltiplicati e enfatizzati dall’entusiasmo per la nuova arte che voleva il futuro subito.
Un’antologia del disegno novecentesco al cui cospetto si stagliano eleganti sculture del novecento toscano, moderne, ma di gusto antico, come se nel bronzo ancora avessero memoria delle fusioni del Rinascimento.