Cartelloni e Copertine. L’Arte nella Pubblicità

Cartelloni e Copertine

L’arte nella pubblicità

6 Dicembre 2024 – Open Day | Chiusura: 15 Febbraio 2025

Gabinetto dei Disegni  W. Apolloni e Galleria del Laocoonte, Via Margutta 53b, Roma

Riprendendo il titolo di una fortunata mostra già allestita nella fiorentina galleria Pio Fedi nel 2015, la Galleria del Laocoonte, o Laocoon Gallery come si declina nella sua doppia natura di spazio per mostre sul ‘900 italiano tanto a Roma quanto a Londra, ha voluto mostrare il meglio degli “artisti illustratori per la pubblicità e l’editoria” dove protagonisti non sono i manifesti o le copertine stampate, ma le opere e i bozzetti originali di mano dell’artista che furono all’origine della loro riproduzione meccanica. Già nel 1965, in occasione della mostra organizzata da Attilio Rossi sul manifesto italiano nel centenario della sua produzione litografica alla Permanente di Milano, si capì che non era stata tanto l’arte moderna a creare il manifesto pubblicitario, ma proprio le divoranti necessità di comunicare velocemente ed efficacemente della pubblicità a semplificare sempre più le espressioni dell’arte moderna.

Si veda l’essenzialità della tela dipinta da Savignac per il Cinzano Soda, con solo il bianco, il blu e il rosso del marchio Cinzano, e il giallo di un rovente cielo arroventato dal solleone: l’omino blu che sorseggia la bibita rossa diventa un’immagine indelebile nella nostra mente che pavlovianamente penserà al Cinzano Soda al primo accenno di calura.

Altrettanto essenziale ma figurativamente più raffinato, cosciente dell’arte antica che domina il genio dei luoghi italiani, è Duilio Cambellotti, che per invogliare alla cura delle acque di Chianciano, suscita dalla terra antiche divinità arcaiche, flessuose dee delle sorgenti che versano il loro benefico, liquido flusso da inesauribili antiche giare di terracotta.

Elegante, apparentemente frivola, è l’arte di Umberto Brunelleschi che a Parigi compose infiniti idilli di maschere galanti in pochoirs di colorata grazia. Altrettanto graziosamente ci invita a comprare un’automobile Fiat appena uscita di fabbrica, o a degustare il cacao olandese Van Houten.

Meno noto, anche perché raro, è Primo Sinopico (pseudonimo del sardo Raoul de Chareun), illustratore di geniale essenzialità fiorito negli anni ’30: può mostrarci un elefante che porge un fiore con la sua proboscide, o un albero visto dal punto di vista degli scoiattoli che lo abitano, ma davvero speciali sono i suoi omini minuscoli e sintetici come segni tipografici. Essi sono una scherzosa, ma non meno inquietante, profezia sulla fine di ogni differenza quando gli uomini si riducono a masse formicolanti.

Un genio bizzarro come Mino Maccari non poteva certo accettare gli obblighi di decoro che una società pubblicitaria può imporre, ma proprio per questo, quando per esempio deve produrre le copertine per la rivista “Carte Parlanti” dell’editore Vallecchi, il risultato del suo anarchico estro diventa davvero sorprendente. E ancora Pino Pascali che lavorava alle animazioni dei caroselli televisivi, di cui qui vi è un “frame” di un arlecchino danzante servito a dar gloria a dei pelati in scatola che portavano il nome del multicolore eroe della commedia dell’arte.

ACHILLE FUNI ‘900 CLASSICO E RINASCIMENTALE (Roma)

Achille Funi. 900′ Classico e Rinascimentale.
Dipinti, disegni e cartoni

 

La Galleria del Laocoonte omaggia uno dei più grandi artisti del Novecento italiano, riunendo un cospicuo numero di grandi cartoni preparatori per i suoi più importanti cicli ad affresco.

 

DOVE:

Galleria del Laocoonte, Via Monterone 13-13A, Roma

ORARI:
Dalle 10:00 alle 13:00 e dalle 15:00 alle 19:00

Achille Funi
Il Parnaso
1948-1953
Tempera e foglia d’oro su tavola
cm 212×476

Achille Funi
Autoritratto
1955
Olio su tela
cm 81×51,5

Achille Funi
Venere latina
1930
Olio su tela, cm 160 x 125

Laocoon Gallery & W. Apolloni presentano

Achille Funi: ‘900 Classico e Rinascimentale

Dipinti, disegni e cartoni

Catalogo della mostra a cura di Marco Fabio Apolloni e Monica Cardarelli (Laocoonte edizioni)

ACHILLE FUNI ‘900 CLASSICO E RINASCIMENTALE

Achille Funi. 900′ Classico e Rinascimentale.
Dipinti, disegni e cartoni

 

La Galleria del Laocoonte omaggia uno dei più grandi artisti del Novecento italiano, riunendo un cospicuo numero di grandi cartoni preparatori per i suoi più importanti cicli ad affresco.

 

ORARI:
Dalle 10:00 alle 13:00 e dalle 15:00 alle 19:00

Achille Funi
Il Parnaso
1948-1953
Tempera e foglia d’oro su tavola
cm 212×476

Achille Funi
Autoritratto
1955
Olio su tela
cm 81×51,5

Achille Funi
Venere latina
1930
Olio su tela, cm 160 x 125

Laocoon Gallery & W. Apolloni presentano

Achille Funi: ‘900 Classico e Rinascimentale

Dipinti, disegni e cartoni

Catalogo della mostra a cura di Marco Fabio Apolloni e Monica Cardarelli (Laocoonte edizioni)

 

Una Mostra in fiera, una mostra per Milano, un omaggio al grande artista ferrarese che fu maestro alla scuola di Brera, e affrescatore instancabile, non solo a Milano, ma anche a Roma, nella sua Ferrara, antica città estense, a Bergamo, a Padova e persino in Tripoli di Libia al seguito del conterraneo Italo Balbo. Cartoni, dipinti, disegni e una grande tavola a fondo oro, lunga quasi cinque metri, sintesi e culmine della sua arte.

La Laocoon Gallery di Londra, che accomuna il lavoro della Galleria del Laocoonte (diretta da Monica Cardarelli) sul Novecento figurativo italiano, con la tradizionale conoscenza antiquaria della galleria W. Apolloni (diretta da Marco Fabio Apolloni), presenta a Milano nel proprio stand (n. 29) della fiera Amart al Museo della Permanente, dall’8 al 12 novembre, la mostra dedicata ad “Achille Funi: ‘900 Classico e Rinascimentale” che comprende dipinti ad olio come la monumentale “Venere Latina”, già esposta alla Biennale di Venezia del 1930, cartoni per affreschi come quelli per la chiesa milanese di S. Giorgio a Palazzo del 1931, oppure quello per “La battaglia di Legnano” affrescata nel 1950 nella sala consiliare di Palazzo Frizzoni a Bergamo, disegni, e la smisurata tavola, raffigurante “Il Parnaso”, che Achille Funi tenne nella stessa aula di Brera dove egli insegnò tecnica dell’affresco fino alla sua morte.

Terminata Amart, la mostra sarà trasferita, a partire da martedì 14 novembre, per tutto il restante mese, grazie alla generosa e amichevole ospitalità del proprietario, nella prestigiosa galleria Mirco Cattai in Via Manzoni 12, dove il pubblico milanese, collezionisti ed amatori d’arte, potranno ammirare e studiare questa scelta ed eccezionale antologia dell’opera di Achille Funi, che a Milano passò gran parte della sua vita, lasciando memoria di sé alla città non solo nei molti affreschi in edifici sacri e laici, ma anche nell’influenza esercitata dal suo lungo insegnamento a Brera, da cui furono toccati molti futuri maestri dell’arte contemporanea della seconda metà del ‘900.

Questa mostra privata, e commerciale, al servizio del collezionismo pubblico e privato, coincide con la grande mostra istituzionale che Ferrara, al Palazzo dei Diamanti, dedica ad “Achille Funi. Un maestro del Novecento tra storia e mito”, dal 28 ottobre 2023 al 25 febbraio 2024. Realizzata dalla curatrice dell’archivio Funi, Nicoletta Colombo, e da Serena Redaelli e Chiara Vorrasi, questa grande antologica non è soltanto un doveroso omaggio della città natale all’artista che nel ‘900 ha così efficacemente contribuito a ravvivare con la sua arte il mito della sua originalissima anima rinascimentale, ma rappresenta il culmine di una “Funi renaissance” che da qualche anno a questa parte ha rinverdito la fama di Funi e il gusto per la sua arte neoclassica e neorinascimentale che ad occhi postmoderni riappare fresca e nuova come forse nemmeno i suoi contemporanei, confusi tra battaglie artistiche e crolli d’imperi di cartapesta, seppero vederla.

La Galleria del Laocoonte è orgogliosa di aver contribuito, sebbene in piccola parte, a questa manifestazione, prestando il grande cartone per l’effimera “Sala dell’Eneide” che fu affrescata – e poi distrutta – per la IV Triennale di Monza del 1930. Il gruppo di Didone insonne per amore con sua sorella Anna fu composto per la prima impresa in cui Funi scoprì in se stesso il grande frescante che doveva diventare. Pompeiano e fidiaco, il gruppo è reso moderno dallo spirito metafisico, dechirichiano, che inquietamente lo anima. Non a caso in esso si può vedere l’ispirazione per la terracotta monumentale, raffigurante la coppia femminile de “Le Stelle” di Arturo Martini, sorelle anch’esse, di due anni posteriore all’affresco di Funi. L’altro prestito è il cartone colorato per la “Vergine Annunciata”, affrescato per la Cattedrale di S. Francesco a Tripoli. La Madonna, che sul grande foglio preparatorio ha l’aspetto e la posa di un’elegante diva del cinema dei telefoni bianchi, è in realtà il ritratto della praghese Felicita Frai, che morirà a Milano centenaria nel 2010, amante e assistente di Funi dal tempo degli affreschi della Sala della Consulta del Municipio di Ferrara (1934-37), scaricata all’improvviso proprio dopo il loro lungo soggiorno in Libia.

La bionda Felicita Frai ha prestato il suo volto anche al personaggio di Parisina, eroina tragica protagonista di una delle pareti affrescate della Sala della Consulta a Ferrara. Giovanissima sposa del marchese di Ferrara Niccolò III d’Este, ebbe una relazione adulterina con il figlio di questi, Ugo, suo coetaneo. Scoperti, entrambi gli amanti vennero fatti decapitare su ordine del tradito marchese, nel 1425. Lei aveva 21 anni, vent’anni lui. Funi li ritrae teneramente abbracciati in un pastello preparatorio per l’affresco, Ugo appare come un giovane androgino dalla nera chioma scarmigliata. Anche Ugo è un ritratto, quello di Leonor Fini (Buenos Aires 1907 – Parigi 1996), la futura pittrice surrealista che fu anch’essa di Funi assistente e ninfa Egeria.

Oltre ai già nominati cartoni per la chiesa di San Giorgio a Palazzo, che raffigurano legionari romani che paiono discesi da un rilevo imperiale, si espone un disegno per la figura di S. Giorgio, nudo e legato, alla vigilia del suo martirio, delicatamente disegnato come in punta d’argento, sottilmente ombreggiato come un disegno tardo quattrocentesco.

La “Venere Latina”, titolata anche “Il nudo e le statue”, ritrae Venere rinata, resuscitata tra le rovine della distrutta classicità, frammenti di sculture e capitelli, così come la pittura raffigura la statua di Pigmalione che prende vita per miracolo divino: le gambe ancora di pallido marmo, il corpo già vivo e pulsante sotto il roseo incarnato. Esposto alla Biennale di Venezia nel 1930, è il manifesto del neoclassicismo funiano.

La stessa illusione d’una mano maestra antica, su carta colorata scura, lumeggiata di bianco come una notturna apparizione argentata dalla luna, è il cartone di una musa, Talìa, la musa della Commedia. Discinta e scarmigliata come una Baccante, tiene in alto per i capelli una maschera comica così come la madre di Penteo, nella furia bacchica, tiene la testa del figlio spiccata dal busto nelle Baccanti di Euripide. Questa figura monumentale, alta più di due metri, è uno dei saggi più impressionanti di imitazione dell’antico prodotte da Funi, nel cartone più bella che nella sua realizzazione al Teatro Manzoni di Milano.

Le Muse sono anche le protagoniste, con Apollo, della grande tavola a tempera, con fondo a foglia d’oro, dipinta da Funi nell’immediato dopoguerra. “Il Parnaso” è lungo quasi cinque metri e alto più di due. Sul fondo di una selvatica siepe d’alloro che pare strappata dalla parete di una villa pompeiana, si stagliano le nove sorelle, sovrastate dal dio della poesia e della musica, loro fratello. Tra esse vi è una statua marmorea di Venere e all’estrema destra un maturo pastore, certamente Giove che in questa forma si giacque con Mnemosine per nove notti consecutive, generando ogni volta una delle nove muse. L’ambiziosa composizione di Funi, che si propone come epigono novecentesco del Parnaso di Raffaello in Vaticano, di quello di A. R. Mengs a Villa Albani, e del meno noto affresco d’uguale soggetto che Andrea Appiani dipinse a Villa Reale a Milano, testimonia del costante amore dell’artista per la pittura romana antica, per la quale si fece più volte pellegrino d’arte al Museo Nazionale di Napoli e a Pompei, dove la famosa Villa dei Misteri, uno dei cicli più belli e integri dell’antichità, divenne accessibile al pubblico solo nel 1931. Non sappiamo se il grande pannello del Parnaso di Funi sia stata una commissione non andata a buon fine. Di proprietà del pittore, fu custodita fino alla morte di lui nell’aula di Brera dove insegnava tecnica dell’affresco. Passata a Luigi Colombo, gallerista ed esecutore testamentario dell’artista, è passata nei primi anni ’90 in una collezione privata, da cui è emersa solo recentemente. Esposta alla mostra dedicata ad Ulisse a Forlì, torna ora a farsi ammirare nuovamente a Milano, dopo più di cinquant’anni.

Il cartone della Battaglia di Legnano, preparatorio per gli affreschi della sala conciliare del Municipio di Bergamo – Funi fu insegnante all’accademia Carrara nel dopoguerra – mostra il momento in cui a Federico Barbarossa fu ucciso nella mischia il cavallo, e l’imperatore rischiò di finire catturato. La mischia è brutale come brutali le fisionomie dei combattenti, al modo di un Paolo Uccello che abbia perso il suo carattere di favola. La guerra, quella vera, recente, spietatamente moderna del 1940-45 è da poco trascorsa, ed è chiaro che l’artista non possa veder niente di bello in una battaglia se non la sua fine.

L’ultimo cartone esposto, alto più di tre metri, è anche legato ad una delle ultime opere di Funi, gli affreschi per l’abside della chiesa di S. Antonio da Padova dei Frati Minimi di S. Francesco da Paola a Rimini, chiesa distrutta dalla guerra e completamente ricostruita. Gli affreschi furono in realtà realizzati nel 1962 da due allievi dell’ormai settantaduenne maestro, e nonostante la sua supervisione e i ritocchi a secco con cui pure egli lì completò, essi non raggiungono la forza e la potenza del cartone realizzato dal maestro, vero e proprio dipinto a tempera su carta, grande nella misura e nell’intensità drammatica con cui Funi riuscì ad immedesimarsi nella mente dei pittori del Trecento, facendo vorticare sullo stesso foglio dov’è appeso il monumentale cadavere di Cristo Crocifisso, i colori di un sole e di una luna che hanno lo smalto e la freschezza di un affresco cavalliniano.

È giusto che Funi possa rivedere le sue opere: perciò la collezione romana Facce del Novecento ha prestato un autoritratto ad olio “estivo” del 1955. Il rosso di una fetta d’anguria, la maglietta a righe, il cappello di paglia, le iridi scure a pallottola, fanno pensare per un attimo a Picasso in Costa Azzurra, è invece Socrate Virgilio Funi, detto Achille, nel suo villino di Forte dei Marmi.

Marco Fabio Apolloni

Vedute di Roma

Vedute di Roma

 

La città eterna vista attraverso gli occhi di alcuni importanti artisti del Novecento, dai Tetti di Mario Mafai alle mura aureliane impacchettate di Christo.

 

ORARI:
Dalle 10:00 alle 13:00 e dalle 15:00 alle 19:00

Walter Lazzaro
Via dell’Impero – Roma
1944
Olio su tavola
cm 37,5×52,5

Mario Mafai
Tetti
1953
Olio su tela
cm 50×35

Danilo Donati
Vittoriano
1980
Tecnica mista su lavagna
cm 96,5×120

Nude

Nude

 

La verità è nuda ed è donna. Una mostra per ricordare in questi tempi di diffuso e confuso puritanesimo, che la nudità è verità, e che la verità è sempre bellezza.

 

ORARI:
Dalle 10:00 alle 13:00 e dalle 15:00 alle 19:00

Virgilio Guidi
Dama dal mantello nero
1914
Olio su tela
cm 130×100

Achille Funi
Venere latina
1930
Olio su tela
cm 160 x 125

Primo Conti
Nudo di Ballerina Dormiente
1926
Olio su tela
cm 120 x 200

L’occhio di Vespignani

L’OCCHIO DI VESPIGNANI

A ventun anni dalla scomparsa, dopo dieci anni dall’ultima retrospettiva a lui dedicata al Casino dei Principi di Villa Torlonia, la Galleria del Laocoonte presenta L’Occhio di Vespignani, una mostra dedicata all’artista romano Renzo Vespignani (1924-2001).

VESPIGNANI’S EYE

Twenty-one years after his death and ten years after the last retrospective dedicated to him, which was held at the Casino dei Principi in Villa Torlonia, Laocoon Gallery presents Vespignani’s eye, an exhibition devoted to the Roman artist Renzo Vespignani (1924-2001).

Renzo Vespignani
Il porto di Napoli dopo il bombardamento
1946
Inchiostri colorati su carta, cm 20×32

Renzo Vespignani
Periferia
1980
Tecnica mista su cartoncino, cm 35×50

Renzo Vespignani
Nudo seduto
1944
China su carta, cm 38,4×26,3

Renzo Vespignani
Manifestanti e Polizia
1957
China, acquerello e pastello su carta, cm 21×28

Renzo Vespignani
Nudo di ragazzo
1981
Tecnica mista su carta, cm 70,5×51,2

La mostra è stata concepita per cercare di ridare lustro alla fama un po’ appannata di colui che è stato il più dotato e straordinario disegnatore italiano del dopoguerra e uno dei più grandi incisori italiani della seconda metà del secolo scorso. Anzi, Vespignani è nato disegnatore proprio durante la guerra, i suoi primi disegni furono esposti nelle vetrine dell’auditorio dell’EIAR – la radio d’allora – per illustrare i concerti in programma, già nell’aprile del 1943. Nei mesi successivi gli avvenimenti avrebbero plasmato per sempre la personalità di un artista già completo, maturo e inimitabile a soli diciannove anni. A luglio il primo bombardamento a Roma, la caduta del fascismo subito dopo, l’armistizio e l’occupazione tedesca di Roma sono stati l’Accademia di Vespignani. Le macerie di San Lorenzo impestate dal lezzo dei cadaveri mal seppelliti sotto i crolli, quelle della sua stessa casa distrutta dal bombardamento di Portonaccio, nel marzo dell’anno seguente, sono state per il giovane artista come la foresta di Fontainebleau per i primi paesaggisti romantici francesi. La sua estetica è nata dalla contemplazione delle rovine della guerra, così come le rovine antiche hanno generato il genio di Piranesi. Il paragone non è ozioso, narra infatti un biografo contemporaneo (L. Bianconi) che il giovane Piranesi a Roma, disegnava giorno e notte, ma non Apolli e Laocoonti, bensì “i più sgangherati storpi e gobbi che vedeva il giorno per Roma… gambe impiagate, braccia rotte, e cudrioni magagnati… pezzi di carne da macello, teste di porco e di capretto”. Furono questi i primi esercizi dell’autore “Della Magnificenza ed Architettura de’ Romani”, purtroppo perduti, ma chi li vide lasciò scritto che tali studi di oggetti repellenti erano però eseguiti “maravigliosamente bene”. Allo stesso modo le case distrutte, i vagoni abbandonati sui binari morti, le periferie desolate, i cadaveri tirati fuori dal cumulo dei calcinacci, i cani stroncati la cui addolorata ferocia impedisce la pietà di un colpo di grazia, le puttanone discinte di Portonaccio, rovinate come per putrefazione dall’età e dal mestiere, sono i soggetti preferiti di Vespignani, terribili, ma disegnati “maravigliosamente bene”. Tanto da sembrare raffinatissime incisioni: tratti più sottili di un capello, slavati dal pennello come in un’acquatinta, intricati e insistiti come le più profonde morsure di un’acquaforte, la maestria di Vespignani non ha paragoni, tanto più perché non mostra la lenta evoluzione di un apprendistato, ma si rivela all’improvviso, come un frutto maturo che non sia mai stato fiore. Qualche suggestione dai disegni di Franco Gentilini, più anziano di una generazione. Un vecchio libro squinternato, rubato per caso da un carrettino, con delle riproduzioni di disegni di George Grosz. Tanto bastò a Vespignani per unire lo squallore delle periferie urbane di Sironi del primo dopoguerra col più squallido orrore di un secondo dopoguerra che ancora dolorosamente faticava ad arrivare, con gli angloamericani inchiodati ad Anzio per ben cinque mesi.
Mentre Roma era ancora occupata, furono Irene Brin e Gasparo dal Corso a scoprire Vespignani, capitato per caso alla “Margherita” di via Bissolati, un negozio di cose e libri usati e qualche opera d’arte, per smerciare “a due lire” i suoi disegni. Seguirà mostra del ’45 a gennaio e replicata a giugno, sempre alla “Margherita”, e l’anno dopo all’Obelisco, la neonata galleria d’arte che la coppia Brin-dal Corso trasformeranno nella più raffinata, attiva e cosmopolita di Roma. I disegni di Vespignani vanno letteralmente a ruba, tanto che nel corso della mostra stessa vengono richiesti all’artista altri disegni per sostituire quelli venduti. Oltre agli americani, ai ricchi e vecchi e nuovi, Irene Brin rammenta anche gruppi di liceali che acquistavano un singolo disegno in società per una manata di spiccioli frutto di una sofferta colletta.
Con il fascismo l’arte ufficiale era crollata come un fondale di cartone, come certi scarponi da avanguardista di cartone pressato tinti col lucido nero che Vespignani rammentava andavano in pezzi con la prima pioggia. Dietro la scena si era rivelato un paesaggio di rovine che erano quelle che Vespignani abitava da ragazzo, dopo una primissima infanzia agiata all’Esquilino, erano quelle in cui si aggirava da sfollato, con in tasca fragili certificati medici per evitare il pericolo di un rastrellamento. Era questa Accademia del disastro italiano quella in cui il Paese seppe contemplare le proprie piaghe riuscendo a farne una poesia che doveva stupire il mondo. La “Madre romana uccisa dai tedeschi”, disegnata da Vespignani, modellata e smaltata da Leoncillo, era in realtà calabrese e si chiamava Teresa Gullace, tutto il mondo però la conosce nelle sembianze di Anna Magnani in “Roma città aperta” di Rossellini, popolana falciata da una raffica di mitra mentre corre dietro a un camion carico di rastrellati.
Vespignani è stato forse non l’unico, ma certamente il più grande interprete del neorealismo nelle arti figurative. E la notorietà internazionale venne anche per lui, immortalato in foto da Alfred Eisenstaed nel 1947 – il fotografo del famoso bacio a Times Square – compare in una pagina di Life, le sue opere vengono acquistate dal MoMA e viene invitato a tenere una mostra a New York. Per quel che riguarda il mercato americano, fu però “a flash in the pan” – un fuoco di paglia, diremmo noi – l’arrabbiata militanza comunista di Vespignani gli chiuse ben presto le porte degli Stati Uniti, disegnare Eisenhower come uno scheletro armato a passeggio con De Gasperi e Scelba al guinzaglio non fu il massimo delle referenze per ottenere un visto.
Del resto anche in tempo di pace Vespignani rimase un “pittore di rovine”, negli anni del “boom” i palazzoni delle periferie che crescono come funghi nell’Italia del benessere sono disegnati, dipinti e incisi con gli stessi segni angosciosi con cui egli aveva descritto quelli distrutti dalle bombe della guerra: tutto il suo tempo è raccontato come un unico grande cataclisma, senza soluzione di continuità tra la rovina della seconda guerra mondiale e lo sviluppo industriale, la crescita urbanistica, l’inquinamento da questi generato. La crescita del benessere per Vespignani corrisponde sempre al degrado morale e materiale del consumismo, che nei volti e nei corpi rappresentati degenera in una sorta di lebbra o decomposizione, pur sempre “maravigliosamente bene” raffigurata.
Gli incidenti stradali, con lamiere accartocciate, cristalli in frantumi e corpi riversi sull’asfalto, vengono descritti come azioni di guerra – del benessere contro l’umanità – ma riprodotti con una raffinatezza e perizia nel dettaglio, un senso del sublime nell’insieme, che fanno di Vespignani un “poeta delle rovine” moderne così come Piranesi lo è stato di quelle antiche. Entrambi sono maestri nel rappresentare il disfacimento, quello della modernità sulla natura in Vespignani, quello della natura sugli antichi monumenti in Piranesi. Due estremi che si toccano e che paradossalmente si somigliano nel comunicare un senso di terribilità del destino umano. Unico riscatto della bellezza sul mondo in disfacimento sono i giovani corpi animati dalla forza della vita, quella dei bambini che crescono, quella dei giovani che si cercano e si abbracciano spinti dall’energia del desiderio.
Negli anni ‘60 Vespignani si sposa – con Netta, che conserverà sempre il nome da sposata, divenendo gallerista e mercante d’arte di punta sulla scena italiana – e diventa padre. La bellezza della moglie, tra la bambola di porcellana e il manichino di Carnaby street, aleggia nelle pitture di quel periodo come un idolo moderno. La tenera bellezza dei figli piccoli costretti alla tortura di lunghissime pose, di cui fa fede un filmato Rai visibile su YouTube – Vespignani disegna sempre dal vero, e anche quando si serve di fotografie d’epoca è capace di trasfigurarle in immagini più vere del vero – è immortalata in immagini che trasformano la lentezza del tempo d’esecuzione in un’istantanea di perfetta fattura.
Avendo avuto la possibilità di trascegliere i più belli tra i disegni della successione di Rossana Mataloni, ultima compagna dell’artista, e andando a cercare tra aste e raccolte private da alcuni anni a questa parte, i fogli di gioventù di Vespignani, la Galleria del Laocoonte ha potuto adunare un “corpus” di circa 40 disegni e cinque olii tra i più belli e rappresentativi dell’opera del Maestro.
Del periodo tra il 1944-47 sono alcune delle più belle – per bruttezza – Prostitute di Portonaccio, La casa di Vespignani bombardata, un vicolo di periferia stretto tra muri animato di personaggi, il Porto di Napoli dopo il bombardamento, e una Signora con cagnolino di struggente pateticità.
Degli olii il più antico è un Bue squartato, del 1951, che rammenta come di notte il giovane Vespignani andava meditando in tempo di guerra, a lume di candela e infagottato di lana, l’opera e le difficilissime incisioni di Rembrandt, misurandosi con esse già alla pari, magari su una lastra di rame, regalatagli da Luigi Bartolini, che allora era preziosa quasi fosse argento.
Una fosca Periferia, del 1965, raffigura un inquietante palazzone che pare mescolare la complessità della moderna tecnologia industriale con l’architettura onirica delle “Carceri” piranesiane.
Del 1971 è invece Netta allo specchio, perfetta sintesi di ritratto e pittura à trompe-l’oeil, in cui la moglie dell’artista sembra galleggiare fluorescente in un campo di luce che pare il fondo oro di un’antica pala d’altare.
Foto segnaletiche e L’Archivio del Pornografo del 1981, fanno parte di un intero ciclo di tele intitolato “Come mosche sul miele”, che fu esposto in una memorabile mostra a Villa Medici nel 1985. Erano e sono formidabili meditazioni sui “ragazzi di vita” che Pasolini aveva immortalato su pagina un quarto di secolo prima, quelli che di Pasolini furono ad un tempo vittime e carnefici. Foto segnaletiche ne cattura il volto come dopo qualche tragico fatto di sangue, mentre altre foto, di giovani volti e di giovani corpi paiono costituire un collage, assieme a ritagli di riviste pornografiche d’epoca, ma sono in realtà un vero e proprio tour-de-force di pittura illusionistica. Uno Zeusi scatenato nel retrobottega proibito di un giornalaio.
Dalla collezione romana “Facce del Novecento”, raccolta di ritratti d’artisti di cui la Galleria del Laocoonte sta curando la catalogazione, provengono due vere rarità: uno schizzo del 1947 con un Autoritratto che Vespignani dedicò e regalò ad Alfred Eisenstaed, il fotografo americano che lo aveva ritratto a sua volta per la rivista “Life”, e una bellissima e curatissima carta con il ritratto del pittore Muccini a letto malato. Quest’ultimo, Marcello Muccini (1926-1978), esordì in maniera altrettanto brillante, assieme a Renzo Vespignani, nel gruppo di pittori che si chiamarono “la banda di Portonaccio”, giovani arrabbiati che portarono polemicamente in mostra le loro opere per strada a Via Veneto. Purtroppo, nonostante i successi iniziali, finì per fare tetti di Roma con la manovella – cioè in serie – per una galleria del centro i cui soldi spese, per il resto della sua breve vita, soprattutto in bottiglie di Vodka.
Altri ritratti sono celati in fogli di grande virtuosismo tecnico, moltiplicati e deformati in superfici riflettenti curve, tra luci al neon e scritte pubblicitarie. Sono degli anni ’80 quando Vespignani può tornare finalmente a New York, componendo tra le luci e i martellanti messaggi commerciali della metropoli un ritratto della città che, concepito come critica impietosa, finisce per esserne la rutilante celebrazione.
Molti fogli sono in tecnica mista, modo facile per descrivere la maniera complesso con cui Vespignani disegnava a colori su carta, mescolando il lapis, le matite colorate, la polvere di pastello data a pennello, e molti altri accorgimenti ed attenzioni che rendono queste carte forse più preziose delle tele ad olio. Tra queste, un disperato braccio teso con chiodi e l’accenno d’un volto, che pare il dettaglio di una crocifissione in cui il Cristo viene lasciato appeso a imputridire. Un occhio, prodigioso per verità e somiglianza, tale che si è voluto scegliere a emblema di questa mostra: “L’occhio di Vespignani”, appunto, per intendere che egli era capace di vedere le cose come nessun’altro e come per magia capace di farle apparire sulla carta così come le vedeva.
Una finestra rotta, uno skyline di Manhattan, le “lucciole” – che non sono insetti – in attesa di notte sul ciglio di una strada, una vecchia “canara” tra edifici abbandonati, un levriero scorticato che corre velocissimo come se fosse trapassato da un cinodromo ad un girone infernale. Sono tante le cose osservate dal vero e trasfigurate nell’immaginazione dall’artista, di cui non mancano anche meticolosi omaggi a idolatrati colleghi del passato: a Rembrandt, a cui ruba il volto della dama con ventaglio che fu del principe Yussopov ed ora è alla National Gallery di Londra, a Van Gogh di cui spia nell’autoritratto il teschio sotto la pelle e mostra impudicamente la medicazione che copre la sua fin troppo nota automutilazione.

The exhibition was conceived to try to restore lustre to the somewhat tarnished reputation of a man who was the most gifted and extraordinary post-war Italian draughtsman and one of the greatest Italian engravers of the second half of the last century. Indeed, Vespignani became a draughtsman during the war, when his first drawings were displayed in the windows of the EIAR auditorium – the radio station of the time – to illustrate scheduled concerts as early as April 1943. In the following months, events would forever shape the personality of an artist who was already complete, mature and inimitable at only nineteen years of age. In July, the first bombing of Rome, immediately followed by the fall of Fascism, the armistice and the German occupation of Rome were Vespignani’s academy. The remains of San Lorenzo, impregnated with the stench of badly buried corpses amongst the rubble, his own house destroyed by the bombing of Portonaccio in March of the following year, were for the young artist like the forest of Fontainebleau for the first French Romantic landscape painters. His aesthetic was born from contemplation of the ruins of war, just as ancient ruins generated Piranesi’s genius. The comparison is not idle, as a contemporary biographer (L. Bianconi) recounts that the young Piranesi in Rome, drew day and night, but not Apollo and Laocoon, but ‘the most ramshackle cripples and hunchbacks that he saw during the day in Rome… legs stuck, arms broken, and skinny cudrioni… pieces of butcher’s meat, heads of swine and kid’. These were the author’s first exercises ‘Della Magnificenza ed Architettura de’ Romani’, unfortunately lost, but those who saw them left written that such studies of repulsive objects were nevertheless executed ‘maravigliosamente bene’, marvellously well. In the same way, the destroyed houses, the abandoned wagons on the dead tracks, the desolate suburbs, the corpses pulled from heaps of rubble, the mangled dogs whose grieved ferocity prevents the mercy of a coup de grace, the discarded whores of Portonaccio, ruined as if by putrefaction by their age and trade, are Vespignani’s favourite subjects, terrible, but drawn ‘marvellously well’. So much so that they seem to be refined engravings: strokes finer than a hair, washed out by the brush as in an aquatint, intricate and insistent like the deepest bites of an etching, Vespignani’s mastery is unparalleled, especially because it does not show the slow evolution of an apprenticeship, but reveals itself suddenly, like a ripe fruit that has never been a flower: a few suggestions from the drawings of Franco Gentilini, a generation older; a shabby old book, stolen by chance from a cart, with reproductions of drawings by George Grosz. This was enough for Vespignani to unite the squalor of Sironi’s urban suburbs after the First World War with the bleakest horror of a Second World War that was still painfully struggling to arrive, with the Anglo-Americans pinned down at Anzio for a good five months.
While Rome was still occupied, it was Irene Brin and Gasparo dal Corso who discovered Vespignani, who happened by chance to be at the “Margherita” in Via Bissolati, a shop selling used books and a few works of art, to sell his drawings “for two lire”. This was followed by an exhibition in January of 1945 that was replicated in June, again at the “Margherita”, and the following year at the Obelisco, then a newly-established art gallery that the Brin-Dal Corso couple would transform into the most refined, active and cosmopolitan in Rome. Vespignani’s drawings literally sell like hot cakes, so much so that during the course of the exhibition itself, the artist is asked for more drawings to replace those sold. In addition to the Americans, of both old and new money, Irene Brin also recalls groups of high school students who would buy a single drawing in society for a handful of pennies from a hard-earned collection.
With Fascism, official art had collapsed like a house of cards, like certain avant-garde boots made of from pressed cardboard and dyed with black polish that Vespignani recalled ravaged by the first rain. Behind the scene was revealed a landscape of ruins that were those inhabited by Vespignani as a boy, following an affluent early childhood at the Esquiline, here he wandered as an evacuee, with fragile medical certificates in his pockets to avoid the danger of a round-up. It was this Academy of Italian Disaster in which the country was able to contemplate its own wounds and turn them into a poem that would amaze the world. The ‘Roman Mother killed by the Germans’, drawn by Vespignani, modelled and enamelled by Leoncillo, was actually from Calabria and was called Teresa Gullace, but the whole world knows her in the guise of Anna Magnani in Rossellini’s ‘Roma città aperta’, a commoner mowed down by a machine-gun fire while running behind a truck loaded with round-ups.
Vespignani was perhaps not the only one, but certainly the greatest interpreter of neo-realism in the figurative arts, and international fame also came for him, immortalised in pictures by Alfred Eisenstaed in 1947 – the photographer of the famous kiss in Times Square – he appeared on a page of Life after his works were bought by MoMA and he was invited to hold an exhibition in New York. As far as the American market was concerned, however, it was somewhat of ‘a flash in the pan’ – with Vespignani’s angry communist militancy soon closing the doors that had opened so genially, drawing Eisenhower as an armed skeleton strolling with De Gasperi and Scelba on a leash was not the best of references for obtaining a visa.
After all, even in peacetime Vespignani remained a ‘painter of ruins’; in the ‘boom’ years, the suburban blocks of flats growing like mushrooms in Italy’s affluence are drawn, painted and engraved with the same anguished signs with which he had described those destroyed by the bombs of the war: his whole time is recounted as one great cataclysm, with no solution of continuity between the ruin of the Second World War and the industrial development, urban growth and pollution they generated. The growth of prosperity for Vespignani always corresponds to the moral and material degradation of consumerism, which in the faces and bodies depicted degenerates into a sort of leprosy or decomposition, though always ‘marvellously well’ depicted.
The road accidents, with crumpled metal sheets, shattered glass and bodies lying on the asphalt, are described as acts of war – of wealth against humanity – but reproduced with a refinement and expertise in detail, a sense of the sublime in the whole, that make Vespignani a modern ‘poet of ruins’ just as Piranesi was of ancient ones. Both are masters in representing decay, that of modernity on nature in Vespignani, that of nature on ancient monuments in Piranesi. Two extremes that touch each other and paradoxically resemble each other in communicating a sense of the terribleness of human destiny. The only redemption of beauty over the crumbling world are the young bodies animated by the force of life, that of children growing up, that of young people seeking each other out and embracing each other, driven by the energy of desire.
In the 1960s Vespignani married – to Netta, who would always retain her married name, becoming a leading art dealer on the Italian scene – and became a father. His wife’s beauty, between porcelain doll and Carnaby street mannequin, hovers in the paintings of that period like a modern idol. The tender beauty of the young children forced into the torture of long poses, of which a Rai film can be seen on YouTube – Vespignani always draws from life, and even when he uses period photographs he is able to transfigure them into images truer than life itself – is immortalised in images that transform the extent of the execution time into a perfectly crafted snapshot.
Having had the opportunity to transcend the most beautiful of the drawings from the succession of Rossana Mataloni, the artist’s last companion, and having searched through auctions and private collections for a few years now for the sheets from Vespignani’s youth, Galleria del Laocoonte has been able to assemble a ‘corpus’ of around 40 drawings and five oil paintings that are among the most beautiful and representative of the Maestro’s work.
From the period between 1944-47 are some of the most beautiful – in terms of ugliness – Prostitutes of Portonaccio, Vespignani’s house bombed out, a suburban alleyway squeezed between walls animated by characters, the Port of Naples after the bombing, and a Lady with a Little Dog of poignant feebleness.
Of the oil paintings, the oldest is A quartered Ox, dated 1951, which recalls how during wartime a young Vespignani would go meditating at night, by candlelight and wrapped in wool, on Rembrandt’s work and the extremely difficult engravings, measuring himself against them already as an equal, perhaps on a copper plate, given to him by Luigi Bartolini, which at the time was almost as precious as silver.
A gloomy Suburbs, from 1965, depicts an unsettlingly large building that seems to mix the complexity of modern industrial technology with the dreamlike architecture of Piranesi’s ‘Carceri’.
Netta before the mirror, 1971, is a perfect synthesis of portrait and trompe-l’oeil painting, in which the artist’s wife seems to float fluorescently in a field of light that resembles the gold background of an antique altarpiece.
The mugshots and The Pornographer’s Archive from 1981 are part of a whole cycle of canvases entitled ‘Like Flies on Honey’, which was exhibited in a memorable exhibition at Villa Medici in 1985. They were and are formidable meditations on the ‘boys of life’ that Pasolini had immortalised on the page a quarter of a century earlier, those who were at once Pasolini’s victims and executioners. The mugshots capture their faces as if after some tragic act of bloodshed, while other photos, of young faces and young bodies seem to constitute a collage, together with clippings from pornographic magazines of the time, but are in fact a veritable tour-de-force of illusionistic painting. A Zeusi unleashed in the forbidden backroom of a newsagents.
From the Roman collection ‘Facce del Novecento’ (‘Faces of the 20th Century’), a selection of artists’ portraits that the Laocoon Gallery is in the process of cataloguing, come two true rarities: a 1947 sketch of a self-portrait that Vespignani dedicated and gave as a gift to Alfred Eisenstaed, the American photographer who had in turn portrayed him for ‘Life’ magazine, and a beautiful, well-kept paper with a portrait of the painter Muccini in bed sick. The latter, Marcello Muccini (1926-1978), made his equally brilliant debut, together with Renzo Vespignani, in the group of painters who called themselves ‘the Portonaccio gang’, angry young men who polemically exhibited their works in the streets of Via Veneto. Unfortunately, despite his initial successes, he ended up cranking out roofs of Rome – i.e. in series – for a gallery in the centre whose money he spent, for the rest of his short life, mainly on bottles of Vodka.
Other portraits are concealed in sheets of great technical virtuosity, multiplied and deformed in curved reflective surfaces, amidst neon lights and advertising lettering. It was in the 1980s when Vespignani was finally able to return to New York, composing a portrait of the city amidst the lights and pounding commercial messages of the metropolis that, conceived as a merciless critique, ends up being its glowing celebration.
Many of the sheets are in mixed media, an easy way to describe the complex way in which Vespignani drew in colour on paper, mixing lapis, coloured pencils, pastel powder applied with a brush, and many other tricks and cares that make these papers perhaps even more precious than oil canvases. These include a desperate outstretched arm with nails and the hint of a face, which looks like the detail of a crucifixion in which Christ is left hanging to rot. An eye, prodigious in truth and resemblance, such that it was chosen as the emblem of this exhibition: ‘Vespignani’s eye’, precisely, to mean that he was capable of seeing things like no-one else and – as if by magic – could make them appear on paper as he saw them.
A broken window, a Manhattan skyline, ‘fireflies’ – which are not insects, in Italian a way of saying “prostitutes” – waiting at night on the side of a road, an old ‘canara’ among abandoned buildings, a flayed greyhound running as fast as if it had run from a dog track to a circle of hell. There are many things observed from life and transfigured in the imagination of the artist, who also pays meticulous homage to idolised colleagues of the past: to Rembrandt, from whom he steals the face of the lady with a fan that once belonged to Prince Yussopov and is now in the National Gallery in London, to Van Gogh whose skull under the skin he spies in the self-portrait and impudently shows the dressing that covers his all too well known self-mutilation.

Eugene Berman in mostra a Roma, Galleria del Laocoonte

Omaggio a Eugene Berman

Eugene Berman e la Pittura Fantastica in Italia

Galleria del Laocoonte, via Monterone 13

Evgeny Gustavovich Berman nasce nel 1899 a San Pietroburgo in una ricca e colta famiglia ebraica. In fuga dalla Russia bolscevica, completerà a Parigi la propria educazione artistica. Già nel 1926, assieme al fratello Léonid, a Christian Bérard e a Pavel Tchelitchev, in occasione di una mostra collettiva, sono celebrati come gruppo artistico, dal critico Waldemar George che per loro inventa l’etichetta di “neo-Romantici” o “neo-umanisti”, in opposizione al cubismo imperante.

La prima sala della Galleria del Laocoonte è interamente dedicata all’arte di Eugene Berman, di cui si sono adunate una quarantina di opere tra disegni a china nera e inchiostro rosso, acquarelli, tempere e schizzi a matita. Si va dai “Capricci” che hanno per soggetto fontane immaginarie, ai paesaggi archeologici elaborati nel corso dei viaggi dell’artista in Italia e nel Medio Oriente, a figure di donne, evocazioni sognanti della propria moglie trasfigurata in figura mitologica, bozzetti per scenografie e costumi d’opera. Una serie di mitologie, Edipo, Le Sirene, Il cavallo di Troia, sono incantevoli studi per illustrazioni, realizzate nel 1962 per la popolare rivista “Life”. Un gruppo di schizzi con cavalli e cavalieri in armatura furono invece realizzati nel 1960 per illustrare la Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso. Una serie di disegni acquarellati in inchiostro bruno, vivaci come fotogrammi di una sequenza cinematografica, sono invece dedicati ai cavalli e ai cavalieri che corrono il Palio di Siena, a cui l’artista assistette nel 1969.

Il catalogo a cura di Monica Cardarelli è in corso di stampa.

Eugene Berman
Ritratto di Clerici
1950
cm 50×40

Eugene Berman
Studio per Cassandra
1943, China rossa acquerellata su carta, cm 26,3×18,5

Eugene Berman
Il Cavallo di Troia
1962
Tecnica mista su cartoncino, cm 27×19,2

Eugene Berman
Monumental sarcofagus
1961
China marrone su carta, cm 24×17

Eugene Berman
Cassandra addormentata
1945, Matita su cartoncino, cm 36,5 x 46,5

Fabrizio Clerici, Surrealismo e Pittura Fantastica in Italia

Fabrizio Clerici, Surrealismo e Pittura Fantastica in Italia

Una mostra promossa dalla Galleria del Laocoonte in collaborazione con la Galleria W. Apolloni

 

 

Dal 9 giugno 2022 in cinque sedi a Roma:

Galleria W. Apolloni – Via Margutta 53b
Gabinetto dei disegni – Via Margutta 53b
Spazio Laocoonte Antico/Contemporaneo – Via Margutta 81
Galleria Del Laocoonte – Via Monterone 13
Galleria Del Laocoonte – Vicolo Sinibaldi 5

 

Comunicato stampa

A Roma da giovedì 9 giugno al 31 ottobre 2022 Monica Cardarelli, titolare della Galleria del Laocoonte, e Marco Fabio Apolloni, erede e responsabile della galleria antiquaria W. Apolloni promuovono uno straordinario omaggio all’arte di Fabrizio Clerici, artista di grande importanza ammirato al di qua e al di là dell’Atlantico, di cui nel 2023 è prossimo il trentesimo anniversario dalla morte.
L’arte di Clerici espressa nei suoi ottant’anni di esistenza e la sua personalità hanno suscitato l’entusiasmo di grandi scrittori, tanto italiani quanto stranieri quali Mario Praz, Leonardo Sciascia, Alberto Savinio, Dino Buzzati, Vincenzo Consolo – che in abito settecentesco ne fece uno dei protagonisti del suo romanzo “Retablo”- ed ancora Jean Cocteau, Julien Green, Marcel Brion, Dominique Fernandez, tanto per nominare i maggiori.

 

Clerici, autentico spirito aristocratico e schivo e artista veramente originale, si è sempre tenuto lontano dalla gazzarra carnevalesca delle neo-avanguardie, e non poteva non essere avversato dagli ignoranti critici del contemporaneo, quanto amato, invece, dai più colti storici dell’arte d’Italia – Giuliano Briganti, Federico Zeri, Vittorio Sgarbi – ai cui occhi raffinati non potevano sfuggire le affettuose e intelligenti assonanze con la cultura figurativa del passato.
La mostra si articola in cinque distinte location per celebrare un artista di grande importanza non solo per Roma, che ha saputo celebrare e glorificare da par suo, ma anche e soprattutto per la maniera elegantissima con cui è riuscito a intrecciare la propria italianità nell’ordito del gran gusto cosmopolita dall’immediato dopoguerra in poi.

La grande pittura di Fabrizio Clerici – GALLERIA W. APOLLONI – Via Margutta 53/B

Nel contesto della galleria d’antiquariato W. Apolloni in Via Margutta 53/b, già studio di scultura di Palazzo Patrizi, tra mobili e oggetti antichi sarà possibile ammirare il vasto dittico “Pro-Menade” (1973), dove il cavallo bronzeo dell’Artemision – un capolavoro ellenistico recuperato in mare, ora al Museo Nazionale di Atene – irrompe arroventato nella solitudine metafisica di una stanza vuota, raggiungendo una potenza d’immagine sovrannaturale, come se il demone equino de “L’Incubo” di Füssli fosse stato ridipinto da Magritte. Un’altra pittura, “Labirinto” (1966), ripropone la mitologica architettura di Dedalo per Creta, al centro del quale Clerici aveva già inventato un anfiteatro e arena taurina convertita in tribunale, nel suo famoso “Minotauro che accusa pubblicamente sua madre” (1949) – di cui qui in mostra nella sezione della grafica – è presente una bellissima versione disegnata nel 1966. Tra le altre opere in mostra si segnalano i “Due Templi dell’uovo” (1956), architetture concentriche di grande suggestione, rovine di un remoto culto immaginario ideate dal visionario e preciso architetto che ha sempre abitato nella mente del Clerici Pittore e “Il S. Sebastiano” (1949), quasi una miniatura, tra le prime pitture di Clerici. In essa, nel martirio, la figura dell’arciere e del santo si confondono, l’uno quasi sosia dell’altro, mentre le frecce si conficcano non sul corpo di Sebastiano, ma sulla tela di una sua immagine dipinta.

 

Imperdibili oltre ad un “Autoritratto”, vi sono una “Cornucopia” che pare una degenerazione barocca di quei “grilli”, ovvero multiformi creature mostruose, rappresentate nelle gemme incise dell’antichità, che furono studiate da Jurgis Baltrušaitis nel suo “Medioevo Fantastico”. Non manca un “Omaggio a Dürer”, dove il famoso Rinoceronte inciso nel 1515 dall’artista tedesco, e ridisegnato da Clerici si specchia, come un Narciso incantato dalla propria catafratta bruttezza. In “Omaggio a Böcklin” gli arieti-sfinge del dio egiziano Ammone costellano un paesaggio in cui svettano i cipressi de L’isola dei Morti, un quadro che lungamente ossessionò Clerici negli anni ‘70 e ‘80.
Un grande disegno dipinto a biacca si trasforma in un finissimo bassorilievo: non a caso, perché questo “Naufragio dei Pulcinella” (1950), è preparatorio per un grande rilievo in stucco della Villa Cicogna a Venezia, di cui Clerici curò il rifacimento e la decorazione dal 1948 al 1954. Dell’impresa veneziana per la contessa Anna Maria Cicogna di Misurata, in cui Clerici fu architetto, artista e direttore di artisti, Monica Cardarelli pubblica in catalogo la lunga storia, ricostruita grazie all’inedito carteggio tra il pittore e la contessa per la prima volta integralmente pubblicato.

 

Concludendo le segnalazioni delle opere in mostra vi sono quattro paesaggi metafisici di stupefacente e inquietante bellezza: sono i bozzetti delle scene del balletto “Le Creature di Prometeo”, musicato da Ludwig van Beethoven per il coreografo Salvatore Viganò nel 1801. Clerici le realizzò per la versione messa in scena nel 1963 a Colonia e a Vienna dal coreografo Aurel Milloss.

…alle Cinque da Savinio – GABINETTO DEI DISEGNI – Via Margutta 53b

Nel Gabinetto dei disegni adiacente alla Galleria W. Apolloni di Via Margutta 53b vengono esposti i 39 disegni originali che hanno dato vita a quel capolavoro del divertissement culturale di Fabrizio Clerici che è “…alle cinque da Savinio”. I disegni, tracciati a mano libera, quasi sempre con un pennarello rosso fine, provengono da un unico taccuino preparatorio per la celebre pubblicazione affidata nel 1983 all’edizione di Franca May. Si tratta di disegni che fanno rivivere l’antica amicizia fra Savinio e Fabrizio Clerici, che di quel volume illustrato fu l’autore delle tavole e il committente.

Quando Clerici fece stampare il volume di illustrazioni “Alle Cinque da Savinio” con prefazione di Leonardo Sciascia, tutti videro, nel repertorio ornitologico in 48 tavole, in cui – uccelli di ogni razza interpretavano come in “tableaux vivants” le scene di vita quotidiana e le cerimonie di un’umanità borghese ormai scomparsa – un esercizio estremo nel genere dell’autoritratto: non nel rappresentare se stessi, ma tutti gli altri come se stesso.

 

Fabrizio Clerici, nato ventidue anni dopo Savinio, ebbe con lui un sodalizio di cui rimane concreta testimonianza scritta nell’introduzione con cui Savinio aveva accompagnato, nel 1942, dieci litografie di “Capricci”, che lo scrittore afferma in modo lusinghiero doversi guardare “col terzo occhio che al dire degli stoici ci portiamo al sommo del cervello, e col quale guardiamo i sogni”. Trent’anni dopo la morte dell’amico, Clerici si divaga di un inverno di malattia riempiendo un piccolo album di Scene di Vita di Volatili borghesi, ritratti alla maniera di Savinio, spesso in camere e sale metafisicamente spoglie, impegnati nella liturgia sociale di una belle époque che par precedere la Prima Guerra Mondiale.

 

La Grafica di Fabrizio Clerici – SPAZIO LAOCOONTE ANTICO/COONTEMPORANEO
Via Margutta 81

 

Nello spazio Laocoonte Antico/Contemporaneo è esposta una preziosa scelta di disegni e litografie di Fabrizio Clerici. L’opera più antica presente in mostra è un ironico “Autoritratto in veste di Generale Martinicano” (1932), in cui Clerici si presenta nella bizzarra uniforme di un caudillo da operetta.

Del 1942 sono invece una serie di litografie dal segno grasso che ricorda il fare di Savinio, tra le quali vi è la struggente “Fine degli Omenoni” che immagina la rovina dei giganti di pietra che reggono la facciata del palazzo milanese che fu dello scultore Leone Leoni.

 

 

Del 1945 è una coppia di meticolosi disegni a punta d’argento: “Cavolo Imperatore” dove una grande verza, dall’orlo delle foglie baroccamente arricciolate è posta su un elaborato piedistallo rococò. Altro disegno esposto è “Souvenir d’Italie”, dove alcuni dei più famosi dipinti d’Italia – Antonello da Messina, la Fornarina, il ritratto d’Alfieri di Fabre, Beatrice Cenci- vengono mostrati ridotti a brandelli. Non si era spento ancora l’eco della tragica battuta di Longanesi sulla distruzione d’Italia: “Ci stanno rovinando gli originali delle foto Alinari!”.

Per il “Satyricon” di Petronio, edito nel 1963, è una tempera di “Mostri” con maschere teatrali da commedia antica, mentre è del 1966 il disegno del “Minotauro che accusa pubblicamente sua madre”, terribile riflessione sul sentirsi “mostro” dalla nascita.

Nello stesso anno Clerici si dedica a illustrare l’“Orlando Furioso” dell’Ariosto, stampato poi nel 1967: preparatori per due tavole dell’opera, sono il disegno per la Cattura di Orlando pazzo, e quello per il Duello tra Bradamante e Marfisa.

Un grande disegno acquarellato, “Follia” (1968), segna l’inizio di un’epoca in cui, in Italia soprattutto, il sonno della ragione generò mostri ben più spaventevoli di quelli dell’Ariosto.

In ultimo si segnala il dittico “Chambre bien obscure” (1982) che fa il verso all’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert, presentando delle tavole dedicate all’ottica perfettamente credibili, se non fosse che a disegnare sono rappresentati degli scheletri animati, scappati da qualche danza macabra per inquietare le scientifiche certezze dell’illuminismo. E ancora la grande tempera “Luce di Lessing” (1980), in cui la statua del Laocoonte celebrata dal filosofo tedesco nel 1766 viene sdoppiata in una delle più affascinati “variazioni sul tema” che Clerici ha dedicato al dolente capolavoro della scultura ellenistica.

La Commedia dell’Arte. Maschere e Carnevale nell’Arte Italiana del Novecento

LA COMMEDIA DELL’ARTE. Maschere e Carnevale nell’Arte Italiana del Novecento

A cura di Monica Cardarelli
Catalogo Edizioni D’Arte

Inaugurazione 23 FEBBRAIO 2022 – OPEN DAY 11.00-19.00

La Mostra

Negli antichi trattati di iconografia, la personificazione della pittura porta spesso una maschera appesa al collo, perché essa imita la natura così come l’attore mascherato il personaggio che egli interpreta. Alla maschera, come simbolo della pittura, la Galleria del Laocoonte dedica una mostra di dipinti, disegni e sculture del ‘900, dove essa è il soggetto rappresentato: sia l’enigmatico oggetto maschera, inanimato soggetto di nature morte futuriste o metafisiche, sia la maschera indossata dall’attore che dà vita e voce ai personaggi della tradizionale commedia dell’arte italiana, tante volte celebrata dall’arte moderna, non solo in Italia.

Avendo in mente le memorie figurative dei Tiepolo, è proprio Venezia, con i suoi antichi carnevali dove nei teatri indossavano maschere tanto gli attori in scena che il pubblico in sala, la capitale ideale delle maschere.

Un grande dipinto di Ugo Rossi (1906-1990), lungo quasi 4 metri, rappresenta appunto piazza San Marco a Venezia piena zeppa di gente in costumi carnevaleschi, colorati e di ogni foggia. Creata per rallegrare il bar di una di quelle navi transatlantiche di lusso che incarnarono l’ottimismo entusiasta post-bellico, quest’opera vuole rappresentare l’Italia come un paese in continua festa proprio per dimenticare gli orrori e le distruzioni del conflitto appena trascorso.

Scene veneziane con maschere di carnevale erano uno dei soggetti preferiti dell’artista Umberto Brunelleschi (1879-1949), un toscano che ebbe un grande successo a Parigi come disegnatore di costumi, scenografo e illustratore di moda. Di lui abbiamo due dei suoi tipici pochoirs con corteggiamenti amorosi di coppie e uno studio per una locandina dedicata ad una festa a soggetto veneziano in maschera tenuta al Cercle de l’Union Interalliées di Parigi. In un altro acquerello egli dipinge l’autoritratto con maschera, studio per un manifesto per la prima parigina della commedia La maschera e il volto, opera oggi quasi dimenticata di Luigi Chiarelli, che ebbe un grande successo internazionale, sulla scia dell’esempio influente di Pirandello. 

Direttamente ispirato dallo stesso Pirandello fu il pittore Giovanni Marchig. La sua opera più importante, Morte di un autore (1924), che raffigura un drammaturgo morto sulla sua scrivania circondato da tutti i personaggi della Commedia dell’Arte in lutto, è ora a Palazzo Pitti. Egli fu un pittore incantevole, poco conosciuto perché lasciò perdere la pittura sul finire della sua vita per diventare un rinomato restauratore di dipinti antichi, uomo di fiducia di Bernard Berenson. Oggi famoso principalmente per essere stato il proprietario del controverso disegno di Leonardo La Bella Principessa. La Galleria del Laocoonte è orgogliosa di presentare un’opera di Marchig del 1933 da poco riscoperta, il ritratto di un giovane attore vestito come Arlecchino. Egli ha il suo costume multicolore ma non indossa la maschera, non è in scena e si sta riposando con le braccia conserte. Stavolta l’enfasi è sul volto, sulla persona reale dell’attore quando non è “posseduta” dal ruolo del suo personaggio. 

Venezia, il Settecento, Casanova. Il famoso seduttore veneziano divenne di gran moda durante gli “années folles”. Qui viene raffigurato mascherato, con una marionetta in ciascuna mano. È infatti l’elegante disegno preparatorio per la copertina dell’opera teatrale Il matrimonio di Casanova (1910), dove l’eroe del titolo diventa il burattinaio che manipola tutti i personaggi della trama. Fu disegnato da Oscar Ghiglia (1876-1945), il pittore preferito di Ugo Ojetti, il più importante critico d’arte italiano del suo tempo, autore anche della commedia assieme a Renato Simoni, critico e autore teatrale, che tradusse la prosa di Ojetti in vernacolo goldoniano.

Sempre Venezia e le sue dame mascherate sono il soggetto di due incantevoli e singolari pitture sottovetro di Vittorio Petrella da Bologna (1886-1951), decorative e ipnotizzanti come le antiche carte marmorizzate delle legature di antichi libri.

Vi sono maschere metafisiche al centro delle enigmatiche nature morte nei dipinti di Marisa Mori (1900-1985), allieva di Casorati, ve ne sono altre in una delle prime opere di Aligi Sassu (1929), promettente futurista da giovanissimo, ancora lontano dagli stancanti cavallucci rossi che lo hanno reso famoso.

Di Roberto Melli (1885-1958), ombroso maestro del colore è esposta Mascherina, bronzetto già esposto alla Secessione Romana, e un grazioso acquarello per una pubblicità per caramelle, con Pierrot che ne offre alla luna.

Fra le tante, un’illustrazione toccante di Arlecchino portato in paradiso dagli angeli, del disegnatore Enrico Sacchetti, appartenuta al famoso attore Ettore Petrolini. Dalla stessa raccolta viene anche un acquarello di Mario Pompei (1903-1958), che del Nerone di Petrolini fu scenografo, con un casotto di burattini con pulcinella che bastona il diavolo per la gioia dei bambini.

Di Ettore Petrolini, “maschera nuda”, per natura più espressiva di ogni faccia di cuoio, cartone o cartapesta, mai portata in scena, sono esposti tre ritratti, ad acquerello, ad olio e in bronzo. Nel primo appare mascherato da Pulcinella, nel secondo è immortalato da Oscar Ghiglia, il bronzo infine è una replica del busto di Kiril Todorov (1902-1987) che è posto sulla tomba dell’attore al Verano.

Attribuito ora a Mario Barberis (1893-1960), è un disegno originale per la copertina di una delle raccolte di racconti brevi di Pirandello, Terzetti del 1912, dove una musa si diverte a indossare una maschera dopo l’altra.

Angelo Urbani del Fabbretto (1903-1974) è stato un pittore e illustratore romano di ispirazione vernacolare, disegnò il menù e le ricette dell’oste Giggi Fazi e si inventò il presepe pinelliano della scalinata di Trinità dei Monti. I guitti mascherati dell’avanspettacolo furono un soggetto costante della sua opera, qui rappresentata da olii piccoli e grandi e da una grande natura morta con il costume da arlecchino abbandonato su una poltrona.

Vi sono trombette di carta, mascherine, campanacci, stelle filanti, ma non è carnevale, è la notte di San Giovanni, la notte delle streghe, quella del 24 giugno, quando fino agli anni ‘60 i romani celebravano con gran mangiate di lumache e gran caciara. Lo celebra in una natura morta giovanile Corrado Cagli (1910-1976), ad encausto, con i monumenti di Roma sullo sfondo. Un breve carnevale estivo. Un piccolo capolavoro di pittura giocosa.

Un altro Arlecchino dell’artista contemporaneo Pino Pascali (1935-1968), inventato quando era impegnato a produrre cartoni animati per la pubblicità televisiva. Arlecchino infatti era il nome di una celebre marca di pomodori in scatola: la pummarola, la commedia dell’arte. L’Italia tutta in un barattolo di latta.

Marco Fabio Apolloni

Date: Dal 23 febbraio al 30 maggio 2022
Galleria del Laocoonte – Via Monterone 13, 00186 Roma
Per informazioni: 06.68308994

Il Catalogo

La Commedia dell’Arte. Maschere e Carnevale nell’Arte Italiana del Novecento

Autore: Monica Cardarelli
Tau Editrice. Introduzione di Marco Fabio Apolloni
Con uno scritto di Laura Biancini

Data di pubblicazione: 2022
Formato: brossura
Pagine: 136
ISBN: 979-12-5975-109-6

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Roma Arte in Nuvola, dal 18 al 21 novembre 2021 alla Nuvola di Fuksas STAND A35

LA GALLERIA DEL LAOCOONTE AD ARTE IN NUVOLA

dal 18 al 21 novembre 2021

Il centro prospettico e visuale dello stand della Galleria del Laocoonte (N. A35) è una vera e propria finestra aperta, che travalica il tempo e lo spazio: inquadrato in una cornice ideata dall’artista stesso che finse in legno travi e bulloni d’acciaio, appare infatti dipinto il paesaggio del quartiere Flaminio nuovo fiammante con Villa Balestra all’orizzonte, così come appariva a Giacomo Balla (1871-1958) che lo dipinse dalla spalletta del Lungotevere della Vittoria, dall’altra parte del fiume, nel 1942. È La Città che avanza, capolavoro del Balla post-futurista, postuma palinodia o controcanto della Città che sale, l’epica esaltazione modernista di Boccioni di più di trent’anni prima. Se all’inizio del secolo si esaltava la febbrile crescita urbanistica della città contemporanea, l’ultimo Balla figurativo usa i trucchi della miglior pittura di paesaggio, la luce che trasfigura, i tremuli riflessi colorati sulle acque del Tevere, per fermare in un’immagine la lirica melanconia di ciò che costruendo si distrugge, la poesia campestre. Il quadro appartenne all’ingegnere Pierluigi Bartoli, socio e cugino di quel Nervi che piegò all’arte il cemento armato, passato poi ad Antonello Trombadori, figlio di pittore che fu poeta, critico d’arte e politico comunista, è finito poi nella casa di Cesare Romiti che fu il potente amministratore delegato della Fiat negli ultimi vent’anni del ‘900. La Galleria del Laocoonte è fiera di poter presentare questo pezzo della storia e dell’arte di Roma proprio alla “Nuvola”, dove l’architettura si trasfigura in visione e quasi allucinazione del futuribile.

ROMA ARTE IN NUVOLA 2021

Proprio per rispetto e devozione del genius loci, dello spirito che permea il quartiere dell’EUR, dove la “Nuvola” galleggia nella sua gabbia di ferro e vetro, la Galleria del Laocoonte ha deciso di presentare i bozzetti in bronzo dei gruppi equestri Romolo e Remo di Publio Morbiducci (1889-1963), che avrebbero dovuto ornare il Palazzo della Civiltà Italiana, e i modelli in gesso di due dei quattro Cavalli che lo stesso Morbiducci concepì per la Quadriga che avrebbe dovuto trovar posto sulla facciata del Palazzo dei Congressi.  Ugualmente, disegni preparatori per i mosaici in bianco e nero che Gino Severini (1883-1966) e Giovanni Guerrini (1887-1972) realizzarono per l’EUR sono presentati a parte nello spazio espositivo dedicato alla mostra “Mitologia Meccanica” di Patrick Alò (1975), geniale assemblatore di rottami meccanici trasfigurate in statue di Dei, eroi e mostri dell’antichità classica.
Evocatore moderno dell’antico fu anche Duilio Cambellotti (1876-1960) – di cui la Galleria detiene un cospicuo nucleo di opere già esposte nel 2017 – di cui qui si espongono Le Danaidi e La punizione del Prefetto di Roma che l’artista immaginò come illustrazione della Storia di Roma nel Medioevo del Gregorovius, dove si mostra il prefetto Pietro appeso per i capelli a cavallo di Marco Aurelio in un desolato paesaggio del Laterano in rovina.

Di Leoncillo, ovvero Leoncillo Leonardi (1915-1968), uno dei nostri maggiori scultori del dopoguerra, la galleria detiene il maggior numero d’opere dei suoi anni figurativi e si appresta a pubblicare il catalogo ragionato dei suoi disegni. Di questo genio della ceramica che egli rese degna di competere col bronzo e il marmo dei suoi colleghi, si presenta una straordinaria e coloratissima Balaustra – già proprietà di quel giudice Alfredo Monaco che aiutò la fuga di Pertini e Saragat da Regina Coeli – la cui gemella è ora nelle collezioni della Banca d’Italia. Accanto ad essa è il relativo disegno preparatorio.
Due grandi cartoni colorati di Ferruccio Ferrazzi (1891-1978) rappresentano la dea Cerere e Vulcano, sono serviti di modello per la realizzazione dei mosaici della fontana monumentale di Piazza Augusto Imperatore, sul palazzo che ora sta per ospitare il primo Bulgari Luxury Hotel di Roma.
Un inedito e raro Ritratto di Donna, a tre quarti, intagliato nel legno, ripropongono l’originaria, evidente maestrìa di un grande scultore quale fu Pericle Fazzini (1913-1987).
Una rondella dipinta del più grande e famoso futurista siciliano, Pippo Rizzo (1897-1964), rappresenta un intrico di serpenti, un’allusione al simbolo della Galleria, il serpente appunto, inestricabile dalla figura di Laocoonte che della galleria è l’eroe eponimo.
Ancora due figurazioni di Pino Pascali (1935-1968), introducono due note scherzose: Moby Dick, divertito omaggio alla balena bianca di melvilliana memoria, e un Arlecchino, studio per un carosello pubblicitario di una allora famosa marca di pomodori pelati.
Infine, del visionario Fabrizio Clerici (1913-1993), pittore surrealista ed architetto geniale di sogni, si presenta Il Labirinto (1966), solo un assaggio della grande mostra che la Galleria del Laocoonte si appresta a proporre nell’immediato futuro.

ROMA TRA ARTE MODERNA E ARTE CONTEMPORANEA

È di grande importanza che Roma si affacci sulla scena internazionale con una specifica piattaforma dedicata all’incontro tra arte moderna e contemporanea e all’emergere delle nuove proposte artistiche, con l’obiettivo di rivestire un ruolo propulsore nei confronti del Mezzogiorno e di tutta l’area mediterranea.

Si sta lavorando per costruire un evento in linea con le specificità e le caratteristiche di Roma, una manifestazione in grado di assecondare la “personalità” del luogo che la contiene, amplificandone la sua identità e ottimizzandone il potere propulsore.

È prevista la partecipazione di gallerie (italiane e internazionali) che presenteranno i movimenti e i grandi nomi dell’arte ma anche un programma di iniziative speciali (installazioni, exhibit, mostre, etc.).

Laocoon Zoo, in mostra dal 16 giugno 2021

Gli animali, disegnati, dipinti, scolpiti, forgiati nella ceramica, sono i protagonisti di una nuova, interessante e divertente mostra che la Galleria del Laocoonte inaugurerà a Roma in anticipo rispetto alla sua inaugurazione nella sede di Londra per la London Art Week di luglio.

Sono più di 100 opere di arte antica, di Novecento e contemporaneo. Gatti, cani, scimmie, struzzi, ippopotami, galli, elefanti, e tanti altri animali che inteneriscono, commuovono, incuriosiscono, incantano e fanno sorridere per la loro irresistibile comicità. Il mondo sarebbe un posto molto più triste senza di loro e l’arte troppo seria.

Molti artisti devono proprio agli animali, la loro fortuna. Carlo Antonio Raineri verso la fine del Settecento fu reso celere dai suoi innumerevoli, variopinti uccelli esotici.

Tofanari è del Novecento il perfetto animalier. Andrea Spadini (1912 – 1983) fu adorato dalle star di Hollywood soprattutto per le sue esilaranti scimmie, famosissimo è il suo gigantesco girotondo di animali intorno alla Torre dell’orologio musicale di Central Park, di cui in mostra alcuni bozzetti preparatori in terracotta. Per Marino Marini (1901 – Viareggio 1980) i cavalli furono una magnifica ossessione. Per Pericle Fazzini il gatto un poetico scherzo. Per Patrick Alò (1975) gli animali prendono vita da rottami di metallo genialmente assemblati.

Oltre questi saranno in mostra opere di: Mario Sironi, Gaetano Monti, Joseph Gott, Libero Andreotti, Duilio Cambellotti, Alberto Martini, Marcello Dudovich, Enrico Sacchetti, Primo Sinopico, Pippo Rizzo, Orfeo Tamburri, Torquato Tamagnini, Pino Pascali, Leoncillo, Fabrizio Clerici, Eugene Berman, Alberto Ziveri ed altri ancora.

Virtual Tour

Video

Laocoon Zoo, a Roma dal 16 giugno 2021
Luogo della mostra: Galleria del Laocoonte Vicolo Sinibaldi 5 – 00186 Roma
Orari della mostra: dal martedì al venerdì dalle 11.00 alle 13.00 e dalle 16.00 alle 19.00

Catalogo della mostra

Laocoon Zoo, a cura di Monica Cardarelli
(Edizione D’Arte 2021)

Alberto Martini Maschere e Ombre. A cura di Monica Cardarelli

ALBERTO MARTINI MASCHERE E OMBRE

(a cura di Monica Cardarelli, ed. D’Arte)

DATA: DAL 12 MAGGIO AL 30 GIUGNO 2021
DOVE: GABINETTO DEI DISEGNI W. APOLLONI – VIA MARGUTTA 53B

 

INFO ORARI: PER VISITE SU APPUNTAMENTO TELEFONARE AL 06/68308994 – 348/1234707

Oppure invia una e-mail: monica.cardarelli@laocoontegalleria.it

VIRTUAL TOUR

Alberto Martini (Oderzo 1876-Milano 1954) è stato, nei suoi raggiungimenti più alti, tra gli illustratori europei di primo Novecento, uno dei più originali e bizzarri. La sua grandezza e inimitabilità consiste soprattutto nella sua capacità virtuosistica di usare la penna e l’inchiostro di china con una tecnica così minuta e ossessiva tale da far sembrare le sue tavole disegnate opera d’incisione, al servizio di un’immaginazione visionaria così originale, da trascendere dalle suggestioni delle opere letterarie da lui illustrate – Poe, Shakespeare, Mallarmé, le più importanti – ponendosi così ad un tempo, come epigono del decadentismo e del simbolismo e precursore assoluto del surrealismo – nei suoi auspici egli si sapeva iniziatore di un movimento artistico che egli immaginava sarebbe venuto nel futuro e di cui egli ancora ignorava il nome. A ciò si aggiunga il carattere della sua persona, aristocratico nelle sue presunzioni, provinciale e cosmopolita ad un tempo, dandy maniacalmente elegante nel vestire, bizzarro e scostante, altero nei comportamenti, fiero dell’aureola di seduttore e raffinato erotomane di cui si seppe circondare.

 

Monica Cardarelli, fondatrice e direttrice della Galleria del Laocoonte di Roma, ha studiato Martini sin dai tempi della sua specializzazione all’Università di Firenze, e presenta ora una mostra (Alberto Martini Maschere e Ombre, ed. D’Arte) – in concomitanza e comunione con quella allestita dalla Galleria Carlo Virgilio – che comprende 70 opere tra disegni a penna e a matita, acquarelli, incisioni, litografie ed un dipinto ad olio “Le Flambeau du Pantin” – la fiaccola di Sganarello – del 1940, che è una visionaria e autobiografica meditazione dell’artista sul tema di Don Giovanni. La mostra, visibile per ora solo su appuntamento ed è ospitata presso il Gabinetto dei Disegni, nuovo spazio dedicato alle opere su carta della Galleria W. Apolloni in Via Margutta 53B.

 

Oltre al catalogo delle opere con una presentazione di Davide Lacagnina, verrà presentato anche un volume, titolo Vittorio Pica e Alberto Martini – il trentennale sodalizio tra un critico ed un artista (ed. D’Arte), dedicato al lungo e importante sodalizio artistico e intellettuale di Martini con Vittorio Pica (Napoli 1864 – Milano 1930), il maggiore divulgatore in Italia tanto della grafica e dell’arte moderna europea, e della letteratura decadentista francese che alle precedenti è indissolubilmente legata. Scopritore, mentore e protettore di Martini, Pica fu tra i fondatori della Biennale di Venezia, e segretario generale dal 1920 al 1926, quando fu brutalmente silurato dal fascismo. Fu allora che Martini ripagò il suo debito lanciando una sottoscrizione in opere tra tutti gli artisti europei da Pica celebrati che fu poi venduta all’asta a beneficio del critico napoletano.

 

Opera capolavoro tra tante è l’Autoritratto (1905), vertiginosa opera di penna, dai mirabolanti effetti grafici di tessitura d’ombre, in cui il giovane Martini si presenta come perfetta figura di bel tenebroso, con la cravatta a fiocco nera che pare un fiore e una farfalla, e una minuscola donna nuda dalle di lepidottero, che si appoggia sopra una tavola disegnata dell’artista, quella per la Berenice di E.A. Poe.

 

Quelle per i racconti di Poe, cominciate nel 1904, sono le illustrazioni più note di Martini, che non furono mai pubblicate in volume vivo l’artista, ma solo nel 1985, in sontuosa veste editoriale, da Franco Maria Ricci. Di queste se espongono qui sei, tra cui due grandi – notturni a china i cui lumi accende il bianco della carta – dedicate a Hop Frog, con l’orrido olocausto del tetro giullare – e William Wilson, in cui è l’artista stesso a sdoppiarsi nel suo minaccioso doppelgänger.

 

Delle tragedie di Shakespeare Martini scelse le due più vicine allo spirito macabro e orrifico di Poe: l’Amleto e il Macbeth. Da queste son presenti due tavole, quelle del giuramento in presenza del fantasma del padre per l’Amleto e un’altra in cui gli occhi ormai folli di Lady Macbeth guardano la propria mano che si staglia, nera d’ombra contro una candela, scorgendovi nel delirio quelle macchie di sangue che nemmeno tutti i profumi d’Arabia avrebbero potuto purificare.

 

Segue per importanza “Il poema delle Ombre”, una serie che comprende una trentina di volti mascherati in tutte le fogge, che evocano il carnevale veneziano, le maschere nere dei ladri e dei congiurati d’altri tempi, i volti femminili velati dei romanzi del mistero, tutte velocemente improvvisate a pennello e inchiostro come “macchie di Roschach” casuali che per satanico prodigio prendano la forma di volti che ci guardano sfrontatamente dai buchi del loro mascheramento. Martini divenne artista favorito della famigerata Marchesa Casati, e regista, costumista, trovarobe e ritrattista per lei e per le sue mirabolanti feste in maschera veneziane. In questa galleria il carnevale si trasforma da sogno ad incubo.

 

Una serie di matite e disegni testimonia della collaborazione che Martini ebbe nel 1905 con “La Lettura”, il supplemento letterario del Corriere della Sera. Non va dimenticato che fu Martini ad illustrare la rivista di Marinetti “Poesia”. Da futurismo, cubismo e surrealismo Martini non fu immune, come ben mostra l’acquarello Aurélia illustrazione per la poesia di Gérard de Nerval. Dal 1928 al 1936 infatti, Martini visse a Parigi, creando un suo particolare genere di “pittura nera” e di “pittura color del cielo” che egli pensò culmine della sua arte. In realtà la sua massima creazione, tanto in ardimento di visionarietà che di straordinarietà tecnica è forse il ciclo dei “Misteri”, del 1915, raffinatissime litografie che sono davvero apparizioni oniriche che l’arte non aveva mai finora saputo concepire tali, e che precedono tutto ciò che il surrealismo saprà inventare nell’arte, nella fotografia e nel cinema.

 

Di Martini incisore si presenta il ciclo completo delle “Sirene” a puntasecca.

Achille Funi / Brafa in the galleries 2021

BRAFA in the Galleries 2021 is the newly created alternative to the BRAFA fair at Tour & Taxis, which has been postponed to January 2022.

From Wednesday 27 – Sunday 31 January 2021 included, the exhibitors signed up for BRAFA 2021 will welcome you in their galleries, where they will present the objects and artworks they had selected for BRAFA 2021 in the best possible conditions. Some have chosen to group together to display their artworks.

In total, 126 art dealers spread across 13 countries and 37 cities look forward to sharing their passion for the beautiful, the rare, the precious and the historical in a warm, friendly atmosphere, in line with the rules in place in their area. Have a look through the list of participating galleries in order to discover those close to you. You can also download maps that enable you to find all the participating galleries in the town of your choice.

Finally, for all those who can’t visit the galleries in person, we have dedicated a page to each exhibitor on our website. Here you will find photos and descriptions of all the beautiful objects being presented, relevant practical information, and a video created for the occasion. New objects will be put online on Wednesday 27 January 2021!

Start the tour on Brafa website

Laocoon Gallery and W. Apolloni Gallery page: https://www.brafa.art/en/exhibitor-detail/589/w-apolloni-srl

Galleria W. Apolloni e Galleria del Laocoonte
Nuovo Spazio Antico/Contemporaneo, via Margutta 81, Roma.

Monday 16.00-19.00
Tuesday – Friday: 10.00-13.00 and 16.00-19.00
Saturday: 10.00-13.00

Visits by reservation only by calling 06 68308994 or via virtual tour

 

Patrick Alò, Mitologia Meccanica

Patrick Alò, Mitologia Meccanica. BRAFA in the Galleries 2021

Patrick Alò, Laocoon. Brafa in the Galleries 2021

Patrick Alò, Mitologia Meccanica. BRAFA in the Galleries 2021

Patrick Alò, Mitologia Meccanica. BRAFA in the Galleries 2021

In total, 126 art dealers spread across 13 countries and 37 cities look forward to sharing their passion for the beautiful, the rare, the precious and the historical in a warm, friendly atmosphere, in line with the rules in place in their area. Have a look through the list of participating galleries in order to discover those close to you. You can also download maps that enable you to find all the participating galleries in the town of your choice.

Finally, for all those who can’t visit the galleries in person, we have dedicated a page to each exhibitor on our website. Here you will find photos and descriptions of all the beautiful objects being presented, relevant practical information, and a video created for the occasion. New objects will be put online on Wednesday 27 January 2021!

 

Laocoon Gallery and W. Apolloni Gallery page: https://www.brafa.art/en/exhibitor-detail/589/w-apolloni-srl

 

Patrick Alò, Mitologia Meccanica

 

La mostra è visitabile online tramite VIRTUAL TOUR o su appuntamento, telefonando al numero 06 68308994

 

Apri il tour virtuale della mostra

 

Galleria del Laocoonte e W. Apolloni
Nuovo Spazio Antico/Contemporaneo, via Margutta 81

Orari: lunedì 16.00-19.00
martedì–venerdì: 10.00-13.00 e 16.00-19.00
sabato: 10.00-13.00

 

‘900 Classico, mostra in tre sedi a Roma

‘900 Classico, mostra in tre sedi a Roma

 

 

 

Visite solo su prenotazione telefonando al numero 06 68308994 o tramite tramite virtual tour

Orari:

  • lunedì 16.00-19.00
  • martedì–venerdì: 10.00-13.00 e 16.00-19.00
  • sabato: 10.00-13.00

Dove:

Galleria del Laocoonte, via Monterone 13-13A – 00186 Roma

Galleria W. Apolloni, via Margutta 53B – 00187 Roma

Galleria del Laocoonte e W. Apolloni, Nuovo Spazio Antico/Contemporaneo, via Margutta 81 – 00187 Roma

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La mostra

La scelta di occupare la Roma papale per farne la Capitale tanto simbolica che amministrativa della Nuova Italia, non ci è costato soltanto due onerosi traslochi – da Torino a Firenze, e da Firenze a Roma – ma ha fatto sì che ne venisse in gran parte influenzata la storia figurativa, architettonica e urbanistica tanto di Roma che del resto del paese. La “nuova” Roma era pur sempre la vecchia Roma dei Papi, e ad ogni passo chiavi e triregni, Santi e Madonne ricordavano ai “buzzurri”, ai nuovi italiani, di essere stati di fatto degli invasori e degli inquilini abusivi di regge, palazzi e conventi che erano stati del papa, della Chiesa e dei suoi Ordini. E’ per questo che l’oligocrazia che aveva fatto l’Italia ed ora cercava di amministrarla e penosamente ammodernarla, al di là delle divisioni politiche dei governanti tra loro, creò una religione alternativa a quella predicata dall’avversario, “quel di se stesso antico prigionier” (Carducci), l’autocrate chiuso in Vaticano, il pontefice romano che poteva vantarsi di quasi milleottocento anni di civiltà figurativa cattolica, dai primi sgraffi nelle catacombe agli affreschi allora contemporanei di Francesco Podesti in Vaticano, che celebrano l’Immacolata Concezione, voluti da Pio IX accanto a quelli di Raffaello. Il culto della Patria, la Monumentomania, e soprattutto la storia infinita dell’ambiziosa costruzione del Vittoriano, costituiscono nel complesso una tal mole di edifici, sculture e chilometri quadrati di pittura rapprese che non hanno pari in Europa prima delle colossali realizzazioni urbanistiche e ideologiche dei totalitarismi del XX secolo. Non deve sorprendere che il modello, lo stile a cui ci si richiamò, fu quello dell’antichità, poiché lo stile classico dell’antica Roma, non certo il gotico o il barocco, è l’unico repertorio a cui ci si poteva conformare.

Video, Tg3 regione del 12 Gennaio 2021: 900 classico, mostra in tre sedi a Roma

Dunque in Italia ci furono dalla fine dell’Ottocento al 1943, due lunghe stagioni di neoclassicismo, quella dell’Italia dei Notabili, che va da Carducci a d’Annunzio, e quella che va dalla presa di potere del Fascismo alla sua caduta. Della prima, fa parte anche il culto di Roma mazziniano e repubblicano, che fu il primo restauratore del simbolo del fascio, passato poi come il testimone della staffetta al primo socialismo e infine strappato, di forza, dal fascismo per sé. La seconda stagione di revival antichizzante coincide con il Fascismo stesso, che riuscì a nascondere la natura moderna e violenta del suo colpo di Stato con la retorica, così come il cemento armato dei suoi palazzi è coperto di marmi e di simboli di Roma Antica e dell’Impero: Mussolini fu un Catilina vittorioso con indosso i panni di Augusto.

Queste pur diverse fasi politiche traevano entrambe una legittimazione dall’antico, non a caso ebbero a cuore i progressi dell’archeologia greco-romana che sotto Pio IX si era concentrata soprattutto, con gran successo di scoperte e propaganda di esse, sulle Catacombe dei primi cristiani. Gli scavi del Foro Romano e la scoperta delle memorie della Fondazione romùlea, sono davvero il controcanto laico di un’archeologia paganeggiante che diventò quasi una criptoreligione, con dispute, fanatismi e trionfalismi che una scienza non dovrebbe incoraggiare. Troppo lungo sarebbe enumerare le campagne di scavi, eseguiti quasi manu militari, nel ventennio fascista: l’Area Sacra di Largo Argentina, la ricomposizione dell’Ara Pacis, la “scoperta” del Mercato di Traiano, gli Scavi di Ostia, e quelli promossi nelle colonie, come a Rodi, in Albania, o in Libia a Leptis Magna, sono imprese che al di là di ogni possibile critica, suscitano meraviglia per l’entità dei lavori e la misura delle scoperte.

Come furono influenzati gli artisti italiani da tutto questo e quale corso ciò ha imposto allo sviluppo dell’arte italiana del Novecento è quello che si propone di evidenziare la mostra 900 CLASSICO, concepita e organizzata da Marco Fabio Apolloni e Monica Cardarelli, in ben tre sedi: nella Galleria del Laocoonte di Via Monterone 13-13A, nella Galleria W. Apolloni di Via Margutta 53B ed infine nel nuovo spazio espositivo contemporaneo che le unisce di Via Margutta 81, che si inaugurerà ospitando nel contempo la mostra antologica dello scultore contemporaneo Patrick Alò: MITOLOGIA MECCANICA, nelle cui opere i rifiuti della modernità tecnologica, i rottami di metallo, rinascono a nuova vita come opere di scultura neoclassica, tratte o ispirate dall’antico.

La fine della Belle Époque floreale italiana è qui rappresentata da Adolfo de Carolis (1874 – 1928), che prende in prestito un verso dell’Antologia Palatina per far nascere la sua Primavera, grande cartone preparatorio per un quadro che fu il suo manifesto estetico, anima greca in corpi michelangioleschi, uno stile tutto suo, ma perfetto per illustrare i centoni poetici di d’Annunzio. Un bozzetto con Minerva e l’Olivo, del 1914, è preparatorio per uno degli affreschi di De Carolis al Palazzo del Podestà di Bologna.

Floreale e klimtiano fu Giulio Bargellimi (1875 – 1936), artista semidimenticato, ma all’epoca sua frescante copiosissimo di Terme e Ministeri, qui presente in due cartoni dove la linearità vascolare arcaica in salsa jugendstil descrive un umanità bella e felice, degna di adornare un tempio, ma che fu dipinta invece per lo scalone delle Assicurazioni Generali.

Pittorico e decadente fu agli inizi della sua carriera di scultore fu anche Libero Andreotti (1875 – 1933) qui rappresentato da ben quattro opere: una rara e inedita Baccante con bacchino ubriaco, scolpita in marmo di Candoglia, il bassorilievo in bronzo de L’Ulivo, in cui le fronde dell’albero sacro ad Atena generano corpi umani, poi ancora la più classicheggiante Veneretta, e infine la Venere Fortuna, che in equilibrio sulla sua minuscola conchiglia, con una vela gonfia di vento tra le mani, allunga le sue forme arcaiche imitate dai bronzi di scavo, quasi fosse un reperto ella stessa.

E’ del 1911 il grande dipinto di Vittorio Grassi (1878 – 1958), con I Dioscuri del Quirinale fluorescenti nella notte, illuminati solo dallo stellone d’Italia. Servì di bozzetto al concorso per il manifesto della Esposizione universale di Roma, ma arrivò secondo: fu scelto come manifesto ufficiale quello di Duilio Cambellotti (1876 – 1960). Quest’ultimo fu un artista poliedrico, scultore pittore, scenografo, ceramista, incisore e medaglista. Cambellotti aveva già, in questo scorcio di secolo, rivisitata tutta l’antichità, inoltrandosi a pensare anche a Micene e al Lazio delle origini per inventarla di nuovo, in linee moderne ed essenziali. Fu lui, socialista, pacifista e umanitario a mettere su carta per primo fasci, aquile e leoni che saranno poi il repertorio simbolico del fascismo. Il suo ciclo de Le Leggende Romane, prima dipinte a biacca e poi incise in xilografia, furono un lavoro che durò una vita, e furono pubblicate postume. Sono qui rappresentate da numerosi disegni preparatori e rare tirature d’autore. Il suo bronzo meraviglioso, La Corazza, dove un antico agricoltore dell’ager romanus veste l’armatura per difendere la Patria, segna quel momento storico, dopo Caporetto, in cui la Grande Guerra imposta dagli interventisti divenne guerra di popolo e di sopravvivenza, e stilisticamente riesce ad unire, in compendio perfetto, l’essenzialità dei bronzi etruschi con le linee moderne e aereodinamiche della scultura futurista. Nei manifesti per il Teatro Classico di Siracusa vi è la stessa unione di antico e moderno, mentre in una delle rare tavole in cui nell’ultimo dopoguerra Cambellotti volle illustrare la Storia di Roma del Gregorovius svetta intatto il Caballus Constantini, cioè la statua equestre di Marco Aurelio, in mezzo alle rovine del Laterano medioevale. In ultimo, i disegni preparatori per i manifesti di Fabiola (1949), il primo peplum girato nella nuova Repubblica Italiana, che permise la rinascita di Cinecittà inaugurando la stagione d’oro degli anni ’50 e ’60.

Arcaismo, antichità barbarica, ma anche neoclassicismo fascista trasfigurato in sogno utopico sono tra le tante idee ispiratrici di un grandissimo artista come Mario Sironi (1885 – 1961), di cui qui si presentano undici opere su carta, privilegiando il Sironi illustratore e cartellonista, come nello studio del manifesto immaginato per l’autarchica pellicola Scipione l’Africano, una copertina per Il Natale di Roma del 1937 ed altri fogli dove Sironi è non solo pittore murale, ma anche inventore delle architetture e delle sculture di un intero edificio, come nel caso del Palazzo dei Giornali di Milano.

Diverso il caso di Gino Severini (1883 – 1966), già futurista, poi sognante inventore di pulcinelli e arlecchini pierfrancescani, che riapprodò a Roma da Parigi per reinventare i mosaici bianchi e neri scoperti a Ostia dagli archeologi e che il fascismo volle simili per il Foro Italico e l’Eur. Qui si espongono disegni preparatori per la Palestra del Duce, per il Viale del Monolite e in due composizioni per una fontana dell’Eur dove Flora e Silvano, antiche divinità latine, rivivono come maschere vagamente picassiane. Preparatori per la Fontana Luminosa dell’Eur sono anche i cartonetti realizzati da Giovanni Guerrini (1887 – 1972), tra gli inventori del Colosseo Quadrato, che illustrano la storia di Roma antica sul mare, tra sirene, tritoni e fiamme distruggitrici dell’iniqua Cartagine. Sempre per i mosaici del Foro Italico sono anche i disegni del meno noto Achille Capizzano (1907 – 1951), pittore e frescante, che lavorò principalmente per l’architetto Luigi Moretti. Un disegno di Giorgio Quaroni (1907 – 1960), pittore e scultore, fratello del più famoso architetto Ludovico, è preparatorio per l’affresco La fondazione di Roma, che fu fatto per la Sala Riunioni del palazzo degli Uffici dell’Eur. Riecheggia la pittura romana antica, trasformando quei paesaggi illusionistici che sfondavano le pareti affrescate delle ville in un teatrale sipario dipinto.

Un artista onirico e personalissimo come Ferruccio Ferrazzi (1891 – 1978) sembrerebbe lontano dalle reinterpretazioni dell’antico del Ventennio, ma il mosaico colossale da lui realizzato per la piazza Augusto Imperatore con il Dio Tevere e i Gemelli, circondato dalle maggiori divinità latine è una delle più felici e sorprendenti creazioni del periodo: di quest’opera sono esposti gli smisurati cartoni dipinti a tempera che rappresentano Vulcano e Cerere, e un piccolo disegno che rappresenta la prima idea de Il Tevere con i gemelli e la Lupa.

Tra i pittori muralisti, che negli anni trenta vollero far rivivere l’arte italiana dell’affresco monumentale, oltre a Sironi che fu promotore del manifesto del 1933, furono Cagli, Campigli, Carrà, e Achille Funi (1890 – 1972). Quest’ultimo fu frescante prodigioso per qualità e quantità, a Roma, Milano, Bergamo, Ferrara e Tripoli di Libia. Di Funi sono in mostra un cartone per la sala virgiliana della Triennale di Monza del 1930, con Didone e Anna, e due cartoni di Legionari Romani eseguiti per il Martirio di S. Giorgio per la chiesa di questo nome in via Torino a Milano. Oltre a questi vi sono il dipinto Venere Latina, ovvero Il nudo e le Sculture, del 1930, statua che si fa carne, sogno di Pigmalione realizzato ad olio. Di Funi ancora oltre ad una Lucrezia romana a olio, classica e tizianesca insieme, vi è infine un pannello monumentale dipinto a tempera su fondo oro, lungo quasi cinque metri, che egli fino alla morte tenne nell’aula di Brera dove insegnava tecnica dell’affresco: si tratta de Il Parnaso, con Apollo e le nove Muse, che ha l’aria d’una miniatura rinascimentale ingigantita o d’una pittura parietale pompeiana dipinta su stagnola dorata, come il coperchio di una ciclopica scatola di cioccolatini.

Smisurato è anche il cartone preparatorio che Alberto Ziveri (1908 – 1990) colorò nel 1943 per il mosaico dell’atrio nell’Accademia dei Vigili del Fuoco di Roma, dando vita colossale ad una Dea Minerva ed anche un po’ Dea Roma – che pare fare il verso alla potente grossolanità dei mosaici tardo antichi, ma con la carnalità statuaria e plebea che il pittore tanto efficacemente sapeva rendere prendendo le sue modelle dalla strada.

Corrado Cagli (1910 – 1972) è rappresentato da un perfetto encausto – emulazione dell’antico – simbolico de La notte di S. Giovanni che a Roma fino a poco tempo fa era evento carnevalesco legato al solstizio d’Estate, e, al tempo di Roma antica, “grande cardine dell’anno e grande evento nel mondo”, come ha scritto Plinio il Vecchio. All’orizzonte, come in una pittura compendiaria antica, si stagliano i monumenti di Roma antica e moderna, da S. Pietro ai Dioscuri del Quirinale, passando per il Foro dove le colonne del Tempio di Vespasiano tremolano come in un miraggio.

Più complesso è il nodo emotivo e culturale che ha generato in Corrado Cagli lo studio del Laocoonte, tratto dall’antico e da El Greco, in cui l’ossessione di giovani corpi stritolati dalle spire dei serpenti è simbolo di un tormento esistenziale, dove si mescolano tanto la condizione della propria omosessualità, che il nuovo clima creato dalle leggi razziali che costrinsero l’artista, divenuto doppiamente “diverso”, all’esilio dall’Italia. Lo stesso tema, in Mirko Basaldella (1910 – 1969), giovane “creato” di Cagli, allievo a lui succube tanto nello stile e nella vita affettiva, diventa una riflessione sul tema del biblico Serpente di Bronzo: anche qui corpi adolescenti e serpenti si torcono, in una visione che è fantasia erotica e tortura infernale ad un tempo, eseguita in bronzo, in bassissimo rilievo, ispirato allo “stiacciato” rinascimentale di Donatello.

La scultura in mostra è variamente rappresentata. Di Publio Morbiducci (1889 – 1963), modernamente antico, vi sono due modellini dei cavalli che dovevano comporre La Quadriga sulla facciata del Palazzo dei Congressi all’Eur, e i due bozzetti in bronzo dei di Romolo e Remo con cavalli, che sarebbero dovuti sorgere accanto al Palazzo della Civiltà Italiana e che furono pio cambiati in Dioscuri. Sempre di Morbiducci è un gruppo di disegni raffiguranti Panoplie che al repertorio antico de I Trofei di Mario aggiungono mitragliatrici e obici e altre diavolerie della moderna guerra.

Tra le opere più straordinarie e singolari presenti in mostra sono invece due vasi di bronzo dalla patina volutamente archeologica dello scultore Mario Ceconi di Montececon (1893 – 1980). Ispirati certamente ai modi arcaizzanti e caricaturalmente divertiti di Arturo Martini (1889 – 1980), celebrano allegoricamente la Conquista dell’Etiopia del 1936, animando in uno una Lupa Romana che mette in fuga un Leone di Giuda della Dinastia Salomonica, e nell’altro un’Italia Armata trionfante sullo stesso disgraziato leone etiope sdraiato a gambe all’aria. Singolare che alle forme derivate dai bronzi archeologici l’artista scelga di sposare quelle naturali delle piante grasse del deserto, fornendo degli ibridi in cui la retorica trionfalistica imperiale fascista pare colorarsi di effetti comici.

Del 1948 è la terracotta colorata di Antonietta Raphael (1895-1975), proveniente dalla Collezione Scheiwiller, che raffigura Leda e il Cigno, in cui il mito greco è svolto nelle forme primitiveggianti di un Gaguin, mutando uno degli amori di Zeus in una leggenda tahitiana.

L’influenza dei bronzi antichi di origine etrusca, della ritrattistica repubblicana antica, esercitarono una forte influenza sugli scultori italiani del Novecento, ed ottenne l’effetto di eroizzare le fisionomie contemporanee, toccando anche il ridicolo nel caso di Mussolini o di vittorio Emanuele III. Qui compaiono un Giuseppe Bottai di bronzo di Quirino Ruggeri (1883 – 1955), un ritratto di Enrico Corradini, vecchio rottame del nazionalismo italiano, reso degno del Sepolcro degli Scipioni. Un anonimo bronzo, maggiore del vero, restituisce il carisma di Dino Grandi, mentre un sorprendente bronzo di Francesco Messina (1900 – 1995) ci mostra uno ieratico ed ascetico Indro Montanelli quarantenne. Del giovane Emilio Greco (1913 – 1995) infine, non ancora prigioniero del suo stile, una Testa d’Uomo, del 1947, restituisce in cemento levigato lo spirito antiadulatorio dei severi romani della Repubblica.

Un monolite di gesso nero come un bucchero, già in una sala di uno dei nostri transatlantici di lusso, simbolico de Gli Elementi, è opera di Marcello Mascherini (1906 – 1983), grande scultore del nostro Novecento che meriterebbe maggior fama di quella che egli gode nella sua città di elezione, Trieste.

L’antico però non è solo severità repubblicana o rigidità marziale da parata, lo spirito greco e i paradossi di Luciano di Samosata, hanno ispirato anche un’antichità surreale, che va dal giocoso all’allucinatorio, lungo una vena ispirata dall’arte metafisica di Giorgio De Chirico, greco di nascita, italiano per sangue e böckliniano per formazione. Innanzitutto va ricordato suo fratello Alberto Savinio (1891 – 1952) qui presente in un disegno, Le départ de l’enfant prodigue, dove teste d’animale s’innestano su corpi statuari. Alcune delle sue più felici creazioni dipinte, Centaurina, Torna la Dea al Tempio, Orfeo Vedovo, sono qui presenti nelle fedeli riproduzioni prodigiosamente eseguite a ricamo su tela da sua moglie Maria Savinio (1899 – 1981)che fu in quest’arte devota Penelope anche quando il marito partì per quell’Odissea da cui nessuno torna. Metafisico, giocoso e devoto all’antico a tal punto da diventare un gran collezionista di reperti etruschi ed egizi, fu Eugene Berman (1899 – 1972), russo espatriato a Parigi, negli Stati Uniti e infine a Roma: di lui tre visioni classiche per ispirazione e soggetto, Il Cavallo di Troia, Edipo e la Sfinge, Ulisse e le Sirene, che servirono nel 1962 per spiegare sul rotocalco Life i miti greci agli americani.

Capace di trasformare in gioco il suo straordinario talento di scultore e plasticatore, fu Andrea Spadini (1913-1983), a cui la Galleria del Laocoonte, per cura di Monica Cardarelli ha già dedicato una vasta mostra antologica che sarà prossimamente presentata in Inghilterra. Spadini era capace di fare il verso all’antichità come al barocco del Bernini, con esiti quasi disneyani quando trasformava i suoi animali di ceramica, fatti per i trionfi da tavola per divi di Holywood e aristocratici jet-setters, in giocolieri e musicisti. Qui si espongono due versioni de Il Tevere, raffigurato come un indolente imperatore sdraiato su una barca di Nemi come su un’amaca, in argento massiccio, con una testa degna d’un Caligola di periferia, oppure con una testa d’aquila romana, rapace e gallinaceo ad un tempo, nella versione in ceramica, nera come il neoclassico basalto di Wedgwood.

Allucinato dall’archeologia come materiale di sogno di civiltà perdute, è stato anche Fabrizio Clerici (1913 – 1993), di cui la Galleria del Laocoonte già ha presentato nel 2017, a Bologna e a Roma, i disegni originali per “Alle cinque da Savinio”, omaggio dell’anziano Clerici all’antico maestro e mentore della sua gioventù. Su Clerici la galleria sta organizzando una mostra retrospettiva e antologica per ricordarne l’ineffabile figura di elegante Don Chisciotte del Surrealismo più raffinato, viaggiatore in Egitto e Medio Oriente delle cui antichità è stato, con gli occhi e con l’eleganza del suo disegno, un instancabile razziatore. Della sua opera si anticipa qui la Minerva Flegrea, in cui la Dea di Butrinto si specchia sopra al bradisismo di Pozzuoli, un paesaggio egizio, un mostro saltato fuori dalle pagine del Satyricon di Petronio ispirato ai compositi “grylloi” incisi sulle gemme antiche di cui tanto ha scritto Jurgis Baltrušaitis nel Medioevo Fantastico. Due versioni de La Luce di Lessing, mostrano infine il gruppo del Laocoonte ridotto ad un contorno di assi di legno rozzamente tagliate come nelle opere di Ceroli. Con questo doppio omaggio all’opera statuaria antica che alla Galleria ha dato il nome ed un programma estetico la mostra può dirsi conclusa. Il gruppo monumentale del Laocoonte di Vincenzo de’ Rossi (1525-1587) tornerà al centro della Galleria di Via Monterone a novembre, reduce dalla mostra di Forlì dedicata all’Odissea dov’è stato tra le maggiori attrattive. Per ora il suo posto è occupato da Il Laocoonte di Patrick Alò, straordinario ammasso di ferraglia, composta ad arte a ripetere la torsione dolorosa e il grido dell’antico sacerdote troiano simbolo universale della sofferenza umana.

Patrick Alò, Mitologia Meccanica

Patrick Alò, Mitologia Meccanica

La Galleria del Laocoonte ha l’onore di presentare “Mitologia Meccanica”, il meglio dell’opera finora prodotta dall’artista Patrick Alò (Roma 1975), in “bella mostra” in uno spazio a lui specificatamente dedicato.

L’arte di Patrick Alò si associa, a suo modo, all’opera degli artisti che vollero rielaborare i miti classici e della Roma antica per i fini propagandistici del regime che perse la guerra. Se questa rimane oggi come monito e memoria contro le manie di grandezza e il delirio di onnipotenza, l’arte di Patrick Alò, artista sensibilissimo e abile nell’assemblare i rottami della moderna civiltà industriale a comporre gli Dèi, gli eroi e i mostri dell’antichità, impone una profonda riflessione sulla sopravvivenza dell’antica mitologia nell’epoca moderna, sulla caducità della civiltà delle macchine, e sulla forte carica simbolica del “reimpiego” degli scarti tecnologici, per un fine non troppo diverso da quello per cui gli uomini del medioevo riutilizzavano i frammenti delle architetture
classiche nei loro edifici contemporanei.

 

La mostra è visitabile su appuntamento telefonando ai numeri 0636002216 – 0668308994

 

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Patrick Alò (Roma, 1975)
Mitologia Meccanica
Via dei Greci 14, 00187 Roma

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The Commedia dell’Arte, Masks and Carnival in Italian 20th Century Art

The Commedia dell’Arte

Masks and Carnival in Italian 20th Century Art

When she is not wearing a facemask covering her mouth to indicate that she is mute, the personification of painting, as portrayed by ancient painters, is a woman displaying in most cases a full face mask hanging from her neck. It is a symbol of the imitation of nature: art imitates reality, like an actor disguised to play a part. We want to remind this connection between the mask and painting for this exhibition by Laocoon Gallery celebrating, with the title of “The Commedia dell’Arte”, Italian masks in XXth Century art.

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At the centre of this thematic collection is an impressive series of drawings by the visionary Italian artist Alberto Martini (1876-1954), a precursor of surrealism. His series “Il Libro delle Ombre” (The Book of Shadows), begun in 1904, consists of 29 drawings in brush and black china ink portraying masked faces in all possible kinds of disguise. Full false faces, vizards, half masks, eye masks, and black domino cloaks with venetian 18th century three cornered hats, all drawn with speedy brushstrokes as in Chinese painting, nocturnal and mysterious in character, illustrations of some dramatic and gothic poem whose words are lost. These enigmatic and obsessive faces, look like Rorschach’s patches appearing in a nightmare, populating some Venetian perpetual night, in which we wouldn’t be surprised to meet the heavily made up disquieting eyes of Marchesa Casati, famous for her eccentric venetian masked balls, for which Martini acted as costume designer and court portrait-painter.

With the figurative remembrance of Tiepolo in mind, we find ourselves in Venice, the ideal capital of masks, with her ancient old carnival where actors on the stage wore masks as well as the people in the audience.

A large painting by Ugo Rossi (1906-1990), almost four metres wide, portrays Venice’s piazza San Marco crowded with people in all kinds of colourful carnival costumes. It used to hang in the bar in one of the luxurious transatlantic ships that were the monuments of post war enthusiastic optimism, a way to represent Italy as a country of perpetual enjoyment after the horror and destruction of the past conflict.

Venetian scenes with carnival masks were a favourite theme of the artist Umberto Brunelleschi (1879-1949), a Tuscan who had a successful career in Paris as costume designer, scenographer and fashion illustrator. By him are two of his typical pochoirs with amorous couples courting, the study for a poster dedicated to a Venetian feast held in the Cercle de l’Union Interalliées in Paris. In another watercolour he paints his own portrait, it is the study for a poster advertising the theatre play “The Mask and the Face”, a now forgotten work by Luigi Chiarelli that had at the time wide international success in the footsteps of Pirandello’s influential example.

Directly inspired by Pirandello was the painter Giovanni Marchig, who’s masterpiece, “Death of an author”(1924), showing a playwright dead at his desk surrounded by all the characters of the “commedia dell’arte” in despair is now in Palazzo Pitti. He was an enchanting painter, little known because he put aside his painter’s brush in the last part of his life to become a famed old master’s restorer, very close to Bernard Berenson. His current fame comes from having been the former owner of Leonardo’s controversial drawing “La Bella Principessa”. Laocoon Gallery is proud to present a newly rediscovered portrait by Marchig (1933), of a young actor dressed up as Harlequin. He has his multi-coloured costume but he doesn’t wear a mask, he’s off stage, resting, his arms folded. The emphasis this time is on the face, on the real person of the actor when not possessed by his character.

Cezanne introduced Italian masks into modern painting, and Picasso in his blue period, followed his lead, but the modern painter who most of all chose and cherished Harlequins and Pulcinellas as subjects and mirrors of his own soul is certainly Gino Severini (1883-1966). The frescoes with dancing and playing masquerades that he painted for Sir George Sitwell in his castle at Montegufoni in Tuscany is a joyous little Sistine Chapel of twentieth-century art. A large cartoon by Severini for a “Concert” oil painting of 1942 will be exhibited along with two charming “pochoirs” and a wax pastel drawing of Harlequin and Pulcinella, preparatory for a famous lithograph of the early 50’s.

After the First World War the man who most promoted as the pinnacle of fashion 18th century’s Venitian style’s Bals Masqués was certainly the French painter Jean Gabriel Domergue (1889-1962). His Parisian Bal Venitien at the Opera in 1922 was only the first of a series held subsequently in Monte Carlo, Cannes, Biarritz and Deauville. He would design the costumes, the programmes, the posters and portray the most prominent and aristocratic beauties as provoking Venetian Ladies coming out from some of Casanova’s alcoves. He also decorated residences and public nightspots with gilded canvases wonderfully sketched over with dreamy elegant scenes of Venetian carnival. The like of these, now mostly dispersed if not destroyed, can be seen assembled in Domergue’s own villa in Cannes, now a Museum where the Jury of the Cinema Festival sits when the Palme d’Or awards are decided. Three rare panels gilded with golden leaves by Domergue with gondolas, amorous masks and beautiful venetian ladies are the most visibly precious lots in this exhibition. He is here at the height of his elegant art.

It is the world of Casanova, reinterpreted with the spirit of the “anneés folles”. The famous Venetian womanizer is portrayed in full mask with a masked puppet in each hand. It is the study for the cover of a play, “The Marriage of Casanova” (1910), in which the title role hero acts as puppeteer of all the characters in the plot. It is the work of Oscar Ghiglia (1876-1945), who was Ugo Ojetti’s – Italy’s master art critic of the time and the author of the play – favourite painter.
Metaphysical masks as the centrepieces of enigmatic still lifes are in the paintings of Casorati’s pupil Marisa Mori as well as in a very early and interesting work by Aligi Sassu (1929). Among other drawings we quote also a moving illustration of Harlequin taken to Heaven by angels, a work of the illustrator Enrico Sacchetti that belonged to the famous comic performer Ettore Petrolini. Attributed to Sacchetti is also the original drawing for the cover of one Pirandello’s collection of short stories “Terzetti” of 1912, where a Muse amuses herself wearing one different mask after another. Another Harlequin is painted by contemporary artist Pino Pascali, from the time when he was creating animated films for television advertisement: Arlecchino used to be a very renowned brand of tinned tomatoes.

Marisa Mori between Figurative and Futurist art

Marisa Mori, between Figurative and Futurist art

Curated by Monica Cardarelli

 

Having already dedicated exhibitions in Rome and Turin to this great female artist, and with a monographic study covering the entire corpus of her activity also currently in publication, Laocoon Gallery is proud to present in London.

Marisa Mori, a Florentine Futurist and descendant of Gian Lorenzo Bernini. She is a perfect example of the inexplicable oblivion into which supremely skilled female artists would often fall. A precocious talent, almost entirely self-taught until her arrival, in 1925, at the school of Felice Casorati in Turin.

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She quickly refined her innate artistic skills, and was invited to take part in exhibitions alongside her master from the outset, with art critics of the time immediately taking note, commenting on the quality of stroke, the composition and the colour, evident in works such as Via Lanfranchi, The still life Grapefruit and eggs, Marina di Massa, Study for two masks and her many self-portraits in both pastel and charcoal.

Mori’s independent spirit alongside a desire to experiment and learn led her around 1930 to approach the futurist movement. An old black and white photo portrays her proudly dressed as an aviator – in overalls, cap and glasses – sitting in the cockpit of a two-seater aerobatic plane – a flight which would inspire Mori to the creation of her bright and almost “sensual” futurist works: best represented by Mechanical Deconstruction of a crowd – she continued in this vein until the enactment of the Racial Laws, at which point she decided to distance herself from the futurist movement in protest, beginning a fourth phase of her artistic production – during which she portrayed subjects such as Florence immediately after its bombing, English soldiers whom she hosted in her large Florentine house, as well as returning to some of the subjects which had always been dear to her, creating some remarkable depictions of masks, still lifes and female portraits

Artworks

Mechanical deconstruction of the crowd

Marisa Mori, c.1933

Oil on cardboard, 81 x 110 cm
P.O.A

Via Lanfranchi

Marisa Mori, 1926

Oil on panel, 46 x 50 cm
P.O.A

verso Via Lanfranchi

Marisa Mori, 1926

Oil on panel, 46 x 50 cm
P.O.A

Reading woman

Marisa Mori, 1929-30

Oil on cardboard, 35 x 33 cm
P.O.A

Grapefruit and eggs

Marisa Mori, c.1935-40

Oil on panel, 45 x 49 cm
P.O.A

Study for two masks

Marisa Mori, 1931

Oil on panel, 58 x 44 cm
P.O.A

Marina di Massa

Marisa Mori, 1930

Oil on panel, 52 x 52 cm
P.O.A

Self portrait

Marisa Mori, 1930

Oil on panel, 44 x 51 cm
P.O.A

Luciferian self portrait

Marisa Mori, c.1926

Charcoal on pape, 50 x 33 cm
P.O.A

Luciferian self portrait

Marisa Mori, c.1926

Charcoal on pape, 50 x 36,5 cm
P.O.A

Self-portrait in a circle

Marisa Mori, 1929-30

Charcoal and pastel on paper, 48,3×34,4 cm
P.O.A

Self portrait

Marisa Mori, 1925

Charcoal on paper, 43×30,3 cm
P.O.A

Self portrait

Marisa Mori, c.1928

Charcoal on pape, 48 x 33 cm
P.O.A

Female portrait with a necklace

Marisa Mori, c.1928

48,5 x 34 cm
P.O.A

Fishermen’s nets

Marisa Mori, 1950-55

Oil on panel, 60 x 50 cm
P.O.A

Masks and guitar

Marisa Mori, 1928-29

Oil on panel, 51 x 54 cm
P.O.A

English soldier

Marisa Mori, c.1944-45

Thick pencil on paper, 35,5 x 24 cm
P.O.A

Preparatory drawing for Soldier with a helmet

Marisa Mori, c.1944-45

Pencil on paper, 33 x 24 cm
P.O.A

 Soldier with helmet

Marisa Mori, 1945

Charcoal on paper, 32.5 x 25 cm

P.O.A

Ruins of Florence

Marisa Mori, 1945

Oil on panel, 49 x 35 cm
P.O.A

Lo Zuavo e i Bersaglieri

LO ZUAVO E I BERSAGLIERI

UNA MOSTRA “STORICA” ALLA GALLERIA W. APOLLONI DI ROMA IN VIA MARGUTTA 53B

A cura di Marco Fabio Apolloni
Galleria W. Apolloni

INFO:

Dove: Galleria W. Apolloni, Via Margutta 53B
Quando: Dal 20 settembre 2020

Visite su prenotazione

Info +39 06 68308994
Dal lunedì al sabato dalle 10.00 alle 13.00 e dalle 16.00 alle 19.00, salvo il lunedì mattina e il sabato pomeriggio.

 

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Seguendo gli stessi criteri che portarono ad allestire nel 2007 la mostra “Garibaldi a Roma!”, collezione di dipinti, disegni e stampe riguardanti la Repubblica Romana del 1848-49 – il cui nucleo maggiore è esposto ora in comodato provvisorio al Museo di Roma di Palazzo Braschi – la Galleria W.Apolloni prosegue la propria opera di scoperta e valorizzazione della storia nazionale per ciò che riguarda la propria competenza storico-artistica. Dal 20 settembre 2020, a celebrare il 150° anniversario della presa di Porta Pia da parte dei Bersaglieri del generale Raffaele Cadorna, nella Galleria W.Apolloni di Via Margutta 53B verrà allestita una mostra straordinaria con alcune opere d’arte di somma importanza accomunate dall’eloquente titolo: “Lo Zuavo e i Bersaglieri”, a voler accomunare, dopo tanto tempo trascorso, spente le passioni e gli odii d’allora, gli avversari di un tempo in un unico sentimento di pietà e gratitudine.

La memoria degli zuavi pontifici, corpi volontari giunti da tutti i paesi cattolici, ma in maggioranza francesi, olandesi e belgi, a difendere Pio IX contro gli italiani, è rappresentata dalla presenza di una scultura funebre in marmo a grandezza naturale del capitano Augustin Latimier Du Clésieux (Saint-Brieuc, Bretagna, 1844-1871), zuavo a Roma e poi volontario nella guerra franco-prussiana, ferito mortalmente nella battaglia dell’altipiano di Auvours l’11 gennaio 1871 e morto il 26 febbraio seguente a casa propria, in Bretagna, a soli 27 anni. L’opera si deve al virtuosistico scalpello dello scultore Victor Edmond Leharivel Durocher (Chanu, Orne, 1816-1878), scultore ufficiale che nel Secondo Impero collaborò con l’architetto Louis Visconti – figlio dell’archeologo romano Ennio Quirino – ad ornare l’ingrandimento del Louvre voluto da Napoleone III. Augustin Du Clésieux era l’unico figlio di una famiglia bretone molto ricca e da poco nobilitata. Da parte di padre discendeva da un Reggente della Banca di Francia, da parte di madre da una famiglia di importanti armatori locali. L’inconsolabile contessa Du Clésieux sua madre, che gli sopravvisse per 16 anni, ordinò all’artista la scultura, firmata e datata 1873, che fu posta sopra la tomba del defunto nella cripta di una cappella neoromanica, dedicata a S.Agostino, fatta costruire adiacente alla Scuola dei Fratelli della Dottrina Cristiana nella rue Vicaire della città di Saint-Brieuc. Nazionalizzata la scuola sotto la Terza Repubblica, distrutta la cappella nel 1971 per fare posto ad un parcheggio, chissà dove tumulate le ossa del povero Augustin, la monumentale scultura è andata all’asta a Brest quattro anni fa, nel più totale disinteresse dei locali e delle autorità preposte alla tutela artistica di Francia. E’ stata acquistata dall’antiquario romano Marco Fabio Apolloni proprio perché il giovane e nobile zuavo, già venuto a difendere papa Mastai contro “L’Anticristo” Garibaldi, tornasse a Roma per trovarvi, si spera, una pace definitiva. Il giovane ufficiale è rappresentato ancora vivo semisdraiato su una chaise-longue neo-rococò, nell’uniforme tipica che traeva origine dall’abbigliamento dei guerrieri algerini che i francesi combatterono nel 1830, e che fu reso famoso dalle seguenti campagne militari in Crimea e in Italia durante la Seconda Guerra d’Indipendenza. Solo il colore grigio celeste, che il marmo non può rendere, distingueva gli zuavi pontifici da quelli inquadrati nell’esercito francese. Per il resto lo scalpello di Leharivel è riuscito a descrivere il ruvido panno dell’uniforme, i pantaloni a sbuffo, il kepì con visiera, le babbucce ricamate e persino i merletti della camicia da cui spunta lo scapolare che il milite cattolico portava al collo. Sul fronte della base è graffita una baionetta, al centro della quale risalta in bassissimo rilievo la medaglia al valore che fu consegnata il giorno del funerale. “E’ proprio un’idea da Francesi, di vestire i difensori del Santo Padre da maomettani”. Così dicevano, i romani dell’epoca a proposito della bizzaria dell’uniforme degli zuavi che, non erano però soldati da operetta, se si considera che il pur brevissimo fatto d’arme di Porta Pia costò agli italiani il doppio dei morti e dei feriti rispetto ai pontifici.

dal TG3 Regione del 7 Ottobre

Corpi nuovi, creati più o meno negli stessi anni, Zuavi e Bersaglieri avevano combattuto fianco a fianco in Crimea e nelle battaglie del ’59. Eppure nel ’70, sono affrontati gli uni agli altri in perfetta antinomia, pontifici contro italiani: così, in mostra, alla splendida, candida scultura dello zuavo francese morente si contrappongono i colori squillanti, accesi dal sole di settembre, che Michele Cammarano (Napoli 1835-1920), testimone oculare dell’entrata degli italiani a Roma, ha sparso in battaglia su una tela alta più di tre metri, fissando ancora calde, se così si può dire, le impressioni della battaglia per conquistare all’Italia la sua Capitale. Noto, pubblicato su tutti i libri di storia è il quadro di Cammarano che raffigura i Bersaglieri a passo di carica, lungo più di quattro metri, conservato al Museo di Capodimonte. Questo però, esposto e poi acquistato, è del 1871, frutto di ripensamenti e meditazioni,per celebrare la presa di Roma nel modo più eroico e storicamente più gratificante. Quello che si mostra ora invece è stato dipinto un anno prima, immediatamente dopo la Presa di Porta Pia, mostrata in tutt’altro modo, più veritiero, nel modo confuso e rabbioso con cui veramente avvenivano i fatti d’armi. I Bersaglieri si arrampicano concitati sul terrapieno formato dai detriti delle mura bombardate, confusi nel fumo dell’artiglieria. Le fisionomie sono stravolte, le bocche urlanti, le uniformi strapazzate e infarinate dai calcinacci. Un trombettiere giace a terra morto, un baffuto maggiore ci guarda direttamente negli occhi e con lo sguardo, col gesto, con la voce – vediamo che urla anche se non lo sentiamo – sembra spronarci a partecipare all’attacco.
Molto diverso è il quadretto del fiammingo Carel Max Quaedvlieg (Valkenburg 1823 – Roma 1874), minuscolo in confronto al Cammarano, ma che entro il suo perimetro di tredici per venti centimetri, riesce a inquadrare le Mura Aureliane e la breccia formicolante di Bersaglieri, con la morte del comandante Giacomo Pagliari sull’avanscena, e gli zuavi che sparano sullo sfondo di questa visione teatrale della Breccia, estremo opposto dei vasti “panorami” che andavano di moda in questo periodo. Vissuto a Roma per ventun anni, Quaedvlieg è noto per i suoi paesaggi della campagna romana animati da contadini e da butteri, eseguiti con lenticolare precisione, generalmente su rame, con colori luminosissimi. Questo di Porta Pia è un “unicum”, un documento storico figurativo di inestimabile valore, che fu infatti acquistato all’asta da Fabrizio Apolloni alla fine degli anni ottanta al termine di un accanito duello con un misterioso “underbidder” al telefono che si rivelò poi essere il compianto Bettino Craxi, molto attento alle memorie garibaldine e risorgimentali. Completano questa mostra celebrativa il bozzetto in scultura di Publio Morbiducci (Roma, 1889-1963) per il monumento al Bersagliere eretto davanti a Porta Pia nel 1932 e due pastelli satirici che ritraggono Charrette comandante degli Zuavi pontifici e Mons. Pacca il giovane, Prefetto pontificio. Due ritratti del Cardinale Giacomo Antonelli, uno in marmo che lo raffigura giovane, di Giuseppe De Fabris, ed uno dipinto in miniatura a smalto su pietra lavica da Filippo Severati – inventore della tecnica che andò perduta alla sua morte – che lo ritrae in trono nella sua piena dignità di Segretario di Stato, eminenza grigia e anima nera dell’ultimo Pio IX.

La mostra si aprirà domenica 20 settembre 2020, ma non ci sarà un’inaugurazione. L’ingresso è consentito a piccoli gruppi su prenotazione o, compatibilmente, a richiesta, durante gli orari di apertura della galleria 10-13, 16-19 salvo lunedì mattina e sabato pomeriggio. Per l’occasione verrà pubblicato un pieghevole e la mostra sarà messa online sul sito della galleria.

mostra Il Mito di Ulisse Forli

Ulisse, l’arte e il mito

Ulisse. L’arte e il mito.

Il più grande viaggio dell’arte mai raccontato

Quanti Ulisse! E quante Odissee! Il protagonista dell’Odissea è il più antico e il più moderno personaggio della letteratura occidentale. Egli getta un’ombra lunga sull’immaginario dell’uomo, in ogni tempo. L’arte ne ha espresso e reinterpretato costantemente il mito. Raccontare di Ulisse ha significato raccontare di sé, da ogni riva del tempo e raccontarlo utilizzando i propri alfabeti simbolici, la propria forma artistica, attribuendogli il significato del momento storico e del proprio sistema di valori.

Dall’Odissea alla Commedia dantesca, da Tennyson a Joyce e a tutto il Novecento, di volta in volta, Ulisse è l’eroe dell’esperienza umana, della sopportazione, dell’intelligenza, della parola, della conoscenza, della sopravvivenza e dell’inganno. E’ “l’uomo dalle molte astuzie e “dalle molte forme”.

Dopo la Guerra di Troia, quando affronta le sue avventure nel viaggio del lungo ritorno, egli è già un personaggio famoso. Ma quel viaggio è anche la faticosa riconquista di sé, della propria identità, attraverso il recupero narrativo della sua vicenda alla corte di Alcinoo, attraverso la memoria del ritorno. Così come accade all’arte, che narra narrandosi, che racconta l’oggetto e la sua forma stilistica.

La Galleria del Laocoonte partecipa alla mostra con 4 opere

 

  • Vincenzo de’ Rossi, Laocoonte e i suoi due figli. Marmo bianco, cm 210x160x80
  • Carlo Carrà, Ulisse con compagni, 1945. Matita su carta applicata su carta, cm 32,5×19
  • Achille Funi, Il Parnaso, 1948-1953. Tempera e foglia d’oro su tavola, cm 212×476
  • Leoncillo, Sirena, 1939. Terracotta policroma invetriata, cm 62x25x23

Publio Morbiducci – Nudi Maschili

PUBLIO MORBIDUCCI – NUDI MASCHILI

 

a cura di Monica Cardarelli (catalogo De Luca Editori d’Arte)

Dove: GALLERIA DEL LAOCOONTE, Via Monterone 13

Quando: Dal 13 dicembre 2019 al 12 marzo 2020
Orario: Dal mercoledì al venerdi, dalle 11.00 all 13.00 e dalle 16.00 alle 19.00

La Mostra

La Galleria del Laocoonte inaugura a Roma, nella sua sede di Via Monterone 13, la mostra Publio Morbiducci – Nudi Maschili a cura di Monica Cardarelli (catalogo De Luca Editori d’Arte, Introduzione di Marco Fabio Apolloni e uno scritto di Francesco Parisi). Verranno esibiti circa trentasei disegni – scampati alla distruzione dello stesso autore, che tra il 1945 e il 1946 epurò una cospicua parte della sua produzione – relativi ad alcuni dei giganteschi atleti in marmo di Carrara dello Stadio dei Marmi e dello Stadio del Tennis di Roma.

Comunicato stampa

Publio Morbiducci è un artista romano che fu, con egual forza di stile, pittore, xilografo, medaglista e scultore di opere monumentali, note agli occhi dei più che le registrano come familiari presenze del paesaggio urbano di Roma, anche quando non si conosca chi ne sia stato l’autore. Chi non sa che davanti a Porta Pia c’è il Monumento al Bersagliere? Chi all’Eur può ignorare la coppia dei Dioscuri e i loro cavalli di travertino impennati fino a superare col muso teso al cielo i sette metri d’altezza? Ebbene sono opera di Publio Morbiducci, nome di battesimo da romano antico e un cognome che suona ironicamente a contrasto, se si pensa alle dure masse di pietra tiburtina e di marmo apuano che lo scalpello dello scultore hanno laboriosamente macinato nel corso di tutta una vita. Eppure aveva debuttato come pittore, tra i più straordinari e all’avanguardia, tra quelli della Secessione Romana alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, pari per intensità espressionistica ai mostri sacri della pittura europea dell’epoca. Questo debutto straordinario fu però presto abbandonato poiché per l’influenza del suo maestro Duilio Cambellotti, Morbiducci preferì percorrere il solco della tradizione, dedicandosi alla xilografia e alla medaglistica, due arti ancillari della grande pittura e della grande scultura, che in quel momento si ispiravano alle forme sintetiche e classiche dell’antica tradizione italiana rinascimentale.

Per quel che riguarda la scultura monumentale, a lui vengono affidate, per il Padiglione Italiano all’Esposizione Universale di New York del 1939, alcune delle opere più importanti, tra cui l’Italia Fascista dorata che figurava preminente sulla facciata dell’edificio celebrativo dei raggiungimenti del regime e delle future glorie – che non si realizzarono – dell’E42, l’esposizione universale romana che avrebbe dovuto superare in magnificenza proprio la manifestazione statunitense che coincise invece con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. È nella stessa ottica trionfalistica e celebrativa, in attesa di future olimpiadi che non ebbero luogo se non tanto più tardi, che venne realizzato il Foro Italico, insieme di complessi sportivi e spazi monumentali di cui fanno parte lo Stadio dei Marmi e lo Stadio del Tennis: sessantaquattro statue di atleti per il primo, diciotto per il secondo, ognuna alta quattro metri, ognuna pagata da una provincia d’Italia.

Sulla carta, di Morbiducci è soltanto il “Discobolo in riposo”, una delle ultime statue ad essere collocata, nello Stadio dei Marmi, nel 1938, sei anni dopo l’inaugurazione ufficiale dello stesso, che era coincisa col decennale del fascismo. In realtà, Morbiducci aveva partecipato al concorso iniziale, in cui scultori di tutte le regioni d’Italia sottoposero 127 bozzetti, ma soprattutto egli si era assunto il compito di realizzare le ultime statue commissionate ad Eugenio Baroni (1880-1935) – il pescatore con il rampone e quello con la rete, per lo Stadio del Tennis, ad esempio – di cui egli fu, artisticamente e operativamente parlando, ad un tempo l’erede e l’esecutore testamentario. Fu Morbiducci infatti a realizzare il Monumento al Duca d’Aosta a Piazza Castello a Torino, per il quale Baroni aveva vinto il concorso ma che non poté terminare perché si ammalò e morì avendo solo il tempo di lasciare a Morbiducci il testimone.

Quasi per tutti gli anni Trenta dunque, Morbiducci disegnò corpi in pose atletiche, cercando quella sintesi, tra reale e ideale, che era stato l’antico e lontano segreto della bellezza greca: atleti vittoriosi, con un nome e una patria, erano stati trasfigurati dall’arte in corpi perfetti, tipi ideali e sintesi di impersonale bellezza giovanile, per la Grecia e per l’occidente che si sentì suo erede per i secoli a venire. A matita, a carboncino, a sanguigna, Morbiducci lavora per trasformare l’individualità dei suoi modelli in tipi ideali, alla ricerca di una venustà italica che risulta sempre temperata dall’ideale classico e lontana dal disumanesimo culturista che trionferà alle Olimpiadi di Berlino del ’36.

Morbiducci non è certo Leni Rifenstahl, come suo modello mette in posa il figlio del fratello, oppure sono modelli presi dalle piazze di Testaccio – dove egli aveva lo studio – sono fisici irrobustiti più dall’officina o da scaricar cassette al mercato, o quarti di bue al Mattatoio, che dagli esercizi ginnici d’Olimpia. Sono insomma, quintessenzialmente italiani, così com’erano gli italiani prima del benessere.

XX: The Female Gender in XXth Century Italian Art

XX: THE FEMALE GENDER IN XXth CENTURY ITALIAN ART

 

is the latest in a series of meaningful exhibitions by curator Monica Cardarelli to be brought to Laocoon Gallery of London following its successful inauguration in Italy.

The exhibition comprises around one hundred works, with techniques ranging between paintings, drawings, pastels, bronzes, terracotta and ceramics, of Italian artists from the 20th Century who represented as many female figures. Wives or lovers, virgins or prostitutes, holy mothers like the Madonna or man-eating she-devils.

 

Chaste teenagers or mature Magdalenes, but also goddesses, nymphs, legendary personifications of Spring or Italy, imposing and shapely figures wearing crowns of turreted walls. The title of the exhibition uses “XX” as both chromosomes and Roman numerals in order to represent not only the genes that determine a woman’s sex but also the 20th Century, an era which saw unprecedented change in the role, status, appearance and condition of women.

 

Exhibition curator, gallery director and strong advocate of women’s rights Monica Cardarelli, who has researched and brought together this astonishing selection of art portraying the female gender in its many representations and transfigurations, says of the exhibition, “In a single image we can find a myriad of stories and destinies that intertwine and overlap, and this is also the case for each of the other images that make up this exhibition. Each contains stories that oscillate between past and present, leading to a series of reflections, to which are added those generated by their being together, by the dialogue that inevitably they entertain while standing side by side.”

 

The exhibition runs from 1st December to 30th January, inviting visitors to explore and share their responses to the vast array of inspiration adorning the gallery walls.

 

For enquiries and further information
E: info@laocoongallery.co.uk
T: 020 8075 3903
www.laocoongallery.co.uk

Luigi Sabatelli, La Sala dell’Olimpo di Palazzo Pitti

Luigi Sabatelli, La Sala dell’Olimpo di Palazzo Pitti

Questo studio ha per oggetto il grande ciclo ad affresco realizzato da Luigi Sabatelli (1772 – 1850), nella Sala dell’Iliade di Palazzo Pitti (1820 – 1825). Le fonti d’indagine sono soprattutto quelle d’archivio: corrispondenze, rapporti, resoconti, registri di cassa, a cui si aggiungono disegni, cartoni e schizzi preparatori, rintracciati nelle collezioni pubbliche e private.

 

Accanto a questi, frutto di un’accurata campagna fotografica, si presentano nuove immagini degli affreschi stessi, per renderne più chiara e facile la lettura.

 

Prima ancora di parlare del ciclo dell’Iliade, ho ritenuto necessario inquadrare l’artista in relazione alla sua formazione, ricordando quali furono i suoi primi maestri a Firenze, quale l’ambiente culturale frequentato a Roma negli anni del suo alunnato, fino al soggiorno veneto e al rientro a Firenze, sua città nativa nel 1797.

 

Di seguito ho voluto indagare le numerose opere ad affresco che Luigi Sabatelli realizzò prima della grande commissione per Palazzo Pitti. Così, confidando nelle memorie che l’artista dettò al figlio Gaetano tre anni prima della sua morte (1847), ho ripercorso tutte le tappe della sua attività di frescante.

 

Un’indagine non sempre facile, soprattutto perché l’artista in questa prima fase ha operato in gran parte in palazzi e ville private, che sono tali ancora oggi. Tuttavia, nella maggioranza dei casi, la disponibilità degli attuali proprietari ha reso possibile la ricerca negli archivi di famiglia e sorprendentemente anche l’ingresso dei fotografi nelle sale affrescate dal nostro Sabatelli.

 

Il materiale fotografico, insieme a quello grafico e documentario degli archivi pubblici e privati, potrà dare un contributo per una migliore comprensione dello sviluppo di Sabatelli pittore, dalla gioventù fino alla sua maturità, che coincide appunto con la sua più prestigiosa commissione e opera maggiore, quella di Palazzo Pitti, testimonianza dell’alta considerazione di cui egli godeva come pittore di affreschi.

 

Monica Cardarelli

Luigi Sabatelli, La Sala Dell'Olimpo di Palazzo Pitti

Abstract

“Nemo Magistro in Patria”: Luigi Sabatelli (Firenze 1772 – Milano 1850), fiorentino spirito bizzarro del neoclassicismo italiano, protoromantico precoce, che fu davvero grandissimo maestro nel disegno e nella pittura a fresco, nonché incisore “apocalittico” e sublime, attende ancora la giusta collocazione che egli merita nella pur studiatissima storia dell’arte italiana dell’Ottocento.

A Milano fu maestro a Brera per quasi mezzo secolo fino alla morte, e quando tornò a Firenze per affrescare il suo capolavoro, lo smisurato cielo olimpico della Sala dell’Iliade a Palazzo Pitti, affollato di umanissimi dei omerici, la sua opera venne quasi ignorata già allora dalla critica, come fosse stata quella di uno straniero.

Ancora oggi gli occhi dei visitatori, rapiti dalla visione dei capolavori di pittura antica appesi alle pareti, non trovano tempo di alzarsi al cielo a contemplare l’azzurro imperturbabile che incornicia il colorato pantheon di Sabatelli. In attesa di una monografia e di un catalogo ragionato ancora al di là da venire, questo studio di Monica Cardarelli segue la carriera di Luigi Sabatelli frescante dai suoi primi inizi fiorentini, tra opere perdute, misconosciute e a volte del tutto inedite, fino alla grande realizzazione di Pitti, completata nel 1825.

La commissione del soffitto della grande sala che solo con Sabatelli trova il suo definitivo nome dal poema della guerra di Troia, ebbe una storia lunga e tormentosa, dal tempo della Regina d’Etruria Maria Luisa di Borbone, fino all’ultimo regnante dei Lorena, Leopoldo II, che vide l’opera finalmente terminata. L’intera storia, comprendendo i velleitari progetti napoleonici di Elisa Baciocchi, mai realizzati, è qui ricostruita grazie ai documenti e alle lettere dell’epoca, che spiegano la genesi di una delle più straordinarie e misconosciute creazioni del nostro Ottocento.

David Breuer Weil’s Laocoon

Laocoon Gallery opens in London 

Exciting new gallery opens in the heart of the historic art district of London.

 

As the art scene in London continues to be a pole of attraction for a variety of cultural offerings, Galleria del Laocoonte has gone into partnership with W. Apolloni, one of the most experienced and highly distinguished art dealers in Rome, to open the Laocoon Gallery. Set in the heart of the historic art and antiques district of St James’ the gallery will not only present an exceptional selection of works from the most seminal figures in Western art history, but also brings to London previously unseen pieces from a number of early 20th century Italian artists. Monica Cardarelli, director of Laocoon Gallery in London, says, “Italian 20th century art is not only Futurism, or De Chirico, or the few other artists who are well known outside Italy. There is a real crowd of exceptional artists that need to be revealed to the world of English-speaking art lovers.”

Following a successful exhibition of works by renowned Italian sculptor Leoncillo Leonardi which opened as part of London Art Week, the gallery’s next offering will be based on the myth of Laocoön, featuring a large bronze by English born David Breuer-Weil, who has emerged as one of the leading contemporary British sculptors with iconic works such as Brothers, Flight and Alien, displayed to great public and critical acclaim in major public spaces in London and around the world. The artist has been commissioned by renowned art dealer Marco Fabio Apolloni to create and cast for the Laocoon Gallery a striking new work inspired by the ancient statue of Laocoön that was excavated in Rome in 1506 under Michelangelo’s very eyes. The piece shows a cyclopean head of Laocoön composed with shattered rubble, which emerges from the soil as if it were coming up from the deep to take a breath. In a number of smaller scale explorations and preparations also set to be exhibited, the iconic original in its entirety is handled using wax, engulfing Laocoön and his sons with snake coils that become tentacles or strands of DNA.

 

Breuer-Weil comments, “Laocoön is a great sculpture that has inspired generations of artists because of its sheer expressive force and as an emblem of martyrdom. I have not tried to copy it but to explore its themes in a relevant contemporary manner making the works speak to today’s generation.  In some of my works, the Laocoön and his sons are not attacked by snakes as in the Greek myth that inspired the original ancient sculpture but by their own DNA, because that is usually the biggest threat we have to face in our lives, our own makeup.”

 

The exhibition opens on 12th September 2019 at the Laocoon Gallery, 2a-4 Ryder Street, London, SW1Y 6QB.

Luigi Sabatelli 1772-1850 Disegni e Incisioni

Luigi Sabatelli 1772 – 1850 Disegni e Incisioni

E’ un fatto che chi giunge nella Sala dell’Olimpo – o meglio dell’Iliade – di Palazzo Pitti, fa correre lo sguardo saltabeccando da un capolavoro all’altro tra quelli appesi alle pareti, ma raramente alza lo sguardo in alto, al soffitto, un vero e proprio cielo vasto e azzurrissimo che fa da sfondo alla catasta immane di divinità olimpiche, dominate dalla maestosa figura di Giove in trono.

 

E’ uno dei più begli affreschi neoclassici italiani a noi giunti intatti, e il suo autore è Luigi Sabatelli, fiorentino, che in questa sala raggiunse il culmine della sua arte. Il suo nome è noto più agli amatori e collezionisti di stampe e disegni antichi, perché nell’arte del disegno fu indubbiamente portentoso e le sue grandi incisioni, La Peste di Firenze, La Visione di Daniele, e le sei mirabili scene de L’ Apocalisse sono quanto di meglio sia stato pubblicato nell’epoca sua in Italia.

Produsse pochi quadri ad olio, dedicandosi molto di più alla pittura a fresco, ma molte di queste opere sono andate perdute nell’ultima guerra tanto a Milano quanto a Firenze, mentre altre si trovano in luoghi difficilmente accessibili – come l’incredibile Prometeo a Palazzo Bolzesi a Cremona – o decisamente fuori mano, come il grande ciclo apocalittico nella chiesa di Sant’Antonio Abate a Valmadrera in quel di Lecco.

 

Queste le ragioni della poca notorietà, in aggiunta al fatto che su di lui non è stata mai scritta una monografia, ad eccezione del catalogo di una mostra a lui dedicata dal Gabinetto degli Uffizi, nell’ormai lontano 1978. Quanto ciò sia incomprensibile e certamente immeritato è proprio quello che si vuol dimostrare esponendo un nucleo di disegni suoi, dei suoi figli e della sua scuola, nonché le maggiori sue incisioni. Frutto di una ricerca durata anni, la scelta comprende opere le più svariate. Un bellissimo Ritratto di donna a matita e sanguigna è prova magistrale della sua arte di ritrattista all’impronta, esemplare raro, poiché la maggior parte di questa produzione è quasi tutta conservata – male – alla Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma. Un disegno preparatorio per la Visione di Daniele è l’istantanea della fucina della sua capacità inventiva, che sbizzarrì creando i mostri allegorici della Sacra Scrittura, mischiando tra loro gli animali che accuratamente aveva disegnato dal vero nel Serraglio del Viceré, allora nel Castello Sforzesco di Milano. Zuffe, battaglie, lotte di Cavalieri sono le scatenate creature della sua fantasia, alcune di queste, in mostra, provengono dalle storiche raccolte della figlia di Pietro Benvenuti e da quella dello scultore genovese Sante Varni.

 

Un album intero, sicuramente databile al suo giovanile soggiorno a Roma, riproduce dettagli della Colonna Traiana, teste e gruppi di soldati romani e Daci, disegnati con mano sicura e spirito affine, per senso del pathos drammatico, a quello che scolpì la lotta crudele per la conquista della Dacia attorno al fusto della colonna colossale.

 

Due disegni preparatori per una delle lunette di Palazzo Pitti, La Toletta di Giunone, ci riportano alla Sala dell’Olimpo, il capolavoro sabatelliano che costituisce anche il soggetto di una monografia su l’artista scritta dopo lunghi, pazienti e fruttuosi studi da Monica Cardarelli, in cui si esamina la carriera di Sabatelli come frescante dagli inizi fino al termine della sala di Pitti. La ricerca ha saputo scoprire opere a fresco inedite e mai pubblicate, e moltissimi documenti d’archivio per riuscire a narrare la complessa storia di una commissione nata al tempo della regina d’Etruria, vagheggiata da Elisa Baciocchi in onore di Napoleone, ma poi effettivamente portata a termine dalla restaurata dinastia degli Asburgo-Lorena. Il libro, che sarà presentato a Firenze durante i giorni della Biennale dell’Antiquariato, è pubblicato dall’editore Polistampa di Firenze.

 

La mostra dei disegni ed incisioni di Sabatelli verrà presentata nello stand 27 della Galleria W.Apolloni a Palazzo Corsini e in seguito trasferita nella sua sede romana, in Via Margutta 53B.

Luigi Sabatelli 1772 – 1850 Disegni e Incisioni

Luigi Sabatelli (Firenze 1772 – Milano 1850)

Luigi Sabatelli nacque a Firenze il 19 febbraio del 1772. Ultimo figlio di Giovanni Sabatelli e Francesca Falleri, si appassionò precocemente all’arte del disegno. A soli otto anni intraprese gli studi d’arte grazie alla benevolenza del marchese Pier Roberto Capponi, nel cui palazzo il padre lavorava come cuoco.

 

I suoi primi maestri furono due incisori: Benedetto Eredi e Santi Pacini. Questo primo approccio all’arte, condizionò notevolmente la sua futura produzione artistica, caratterizzata fin dall’inizio da una straordinaria maestria nel disegnare a penna. Nel 1784, a dodici anni, fu iscritto all’Accademia delle Belle Arti fiorentina, dove proprio in ragione di questo suo notevole talento nel disegnare all’impronta senza errore, gli fu attribuito l’appellativo di Guercino, poiché i suoi disegni erano improntati a quelli dell’antico maestro barocco, allora avidamente collezionati e riprodotti in incisione per gli amatori.

 

Ottenuti diversi primi premi e riconoscimenti, nel 1788, si trasferì a Roma, dove entrò in contatto con il Cavaliere Tommaso Puccini, pistoiese, futuro direttore della Galleria degli Uffizi. Fu il suo primo mecenate, nonché suggeritore dei soggetti di alcune delle sue opere più note. Ricordiamo la grande incisione per La Peste di Firenze – esposta assieme a diversi disegni ad essa relativi -, la serie delle incisioni per L’Apocalisse – di cui si mostra l’intera serie ed alcuni disegni tratti dalle incisioni -, l’acquaforte per La Visione di Daniele – di cui in mostra uno straordinario disegno preparatorio. Puccini fu anche il suggeritore del soggetto per il dipinto di Davide e Abigail ora ad Arezzo, di cui qui si mostra un foglio con una prima idea. Sempre da lui suggeriti sono i soggetti di alcune delle più epiche Battaglie e Zuffe di cavalli e cavalieri, di cui in mostra il disegno per il Valor di Michel di Lando e sua vittoria contro i Ciompi in Firenze e il disegno per Pietro Maringhi fiorentino dà fuoco a una nave pisana.

 

A Roma Sabatelli frequentò assiduamente il variegato ambiente artistico di quegli anni. In particolare strinse amicizia con Damiano Pernati, membro di una nobile e antica famiglia novarese con cui nel 1795, realizzò i Pensieri Diversi, una serie incisa da Damiano Pernati su disegno di Sabatelli, raccolta ispirata a temi di letteratura classica e religiosa e a personaggi dell’antichità, animata da suggestioni protoromantiche.

 

L’amicizia con Damiano Pernati a Roma dette modo a Sabatelli di frequentare il suo medesimo entourage: Angelica Kauffmann, Canova, Raffaello Morghen, Gaspare Landi.

 

In questi stessi anni l’artista entra in contatto con l’Accademia dei Pensieri, inaugurata da Felice Giani nel 1790, fondata sulla centralità del disegno e dell’invenzione e nello stesso momento frequenta Vincenzo Camuccini, Giuseppe Bossi, Pietro Benvenuti ed altri artisti che come lui partecipavano alle riunioni serali per lo studio del nudo, tenute da Domenico Corvi e organizzate da Leopoldo Cicognara come una piccola accademia privata.

 

Sempre a Roma l’artista strinse amicizia con Benigne Gagneraux; del loro legame resta testimonianza nella Caccia del Toro, incisa da Gagneraux su disegno di Sabatelli.

 

Nell’Urbe il suo talento di disegnatore non passò inosservato: lui stesso racconta nelle sue Memorie di esser stato portato in trionfo dai compagni della scuola di nudo in Campidoglio, dopo aver disegnato, senza mai staccare la penna dal foglio, e in brevissimo tempo, un’accademia perfetta già alla prima prova. Legato a questo periodo è il nucleo di disegni, inedito, tratti dai rilievi della Colonna Traiana, in cui Sabatelli isola volti e segmenti di scene e composizioni, da cui trarrà ispirazione per la sua successiva produzione.

 

La sua innata maestria nel disegnare, rafforzata dall’esercizio e dall’esperienza, è testimoniata inoltre dal consistente nucleo di disegni conservati presso il Gabinetto Civico di Castello Sforzesco di Milano e presso il Gabinetto di Disegni e Stampe degli Uffizi di Firenze; anatomie umane e animali, eseguite con assoluta destrezza, a cui si aggiungono I Ritratti realizzati tra il 1797 e il 1810, oggi conservati presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, disegni a penna che Ugo Ojetti definì “[…] opere di una prontezza senza pentimenti”. Qui in mostra sono tre ritratti, tra cui un bellissimo volto femminile a due colori del 1806.

Dopo Roma, nel 1794, Luigi Sabatelli si trasferisce a Venezia per due anni, per studiare il colore.

 

Una volta tornato in patria, spinto dalla necessità, accettò la prima commissione per un’opera a fresco, Il Ratto di Ganimede, da realizzare nel Palazzo del marchese Gerini in via Ricasoli. Pur non essendosi mai cimentato nella tecnica dell’affresco, questa prima prova ebbe esiti tanto sorprendenti che da questo momento le grandi famiglie nobili fiorentine fecero a gara per avere affrescate dal nostro Sabatelli intere sale, pareti e volte delle loro ville e Palazzi. Ricordiamo i Ginori, i Guicciardini, i Martelli, i Tempi, i Bardi, e cosa ancora più rilevante, la stessa Regina Reggente del Granducato di Toscana, Maria di Borbone, che gli affidò non solo l’incarico di affrescare Il Sogno di Salomone nella sua camera da letto, nella Palazzina della Meridiana di Palazzo Pitti, nominandolo al contempo pittore di camera e maestro di disegno del principe Carlo, suo figlio, ma gli affidò anche la prestigiosa commissione di affrescare quella grande Sala di Palazzo Pitti, che molto tempo dopo sarebbe diventata la Sala dell’Olimpo. Questa era la più grande, importante e anche la più problematica sala del Piano nobile del Palazzo, rimasta priva di decorazioni proprio perché l’ultima dopo l’infilata delle sale affrescate da Pietro da Cortona e dunque degna solo dell’opera di un pittore tale da poter reggerne il confronto. In mostra due dei disegni preparatori per la prima delle otto lunette di cui si compone l’affresco, che mostra una splendida Giunone alla toilette, circondata da operose ancelle e giocosi putti.

 

La storia di questa importante commissione è indubbiamente straordinaria e allo stesso tempo particolarmente significativa per comprendere il merito e il valore artistico di Luigi Sabatelli. L’artista infatti ricevette questa commissione per ben tre volte e da tre diversi governi, quelli che si succedettero al Granducato di Toscana dal 1807 al 1814: il governo dei Borbone con la Regina Reggente Maria, quello napoleonico con Elisa Baciocchi e infine quello degli Asburgo Lorena con Ferdinando III, che dette finalmente avvio ai lavori nel 1820.

 

Luigi Sabatelli, dal canto suo, una volta realizzata la colossale opera a Palazzo Pitti, e conclusa anche l’opera a fresco per la Cappella di Sant’Antonio in Santa Croce, nel 1825 se ne torna a Milano. Prosegue il suo insegnamento a Brera, che aveva temporaneamente affidato a Francesco Hayez, e continua a ricevere importanti commissioni sia pubbliche che private. Ricordiamo in particolare il ciclo ad affresco con Le nozze di Amore e Psiche in Palazzo Busca Serbelloni (1831) opera purtroppo perduta, e ancora il ciclo ad affresco per la Chiesa di Valmadrera (1836), di cui in mostra due disegni per la scena de I Dodici Apostoli accanto al trono di Cristo. Tornerà ancora a Firenze nel 1841 per affrescare la Tribuna di Galileo nel Palazzo della Specola.

 

L’artista ebbe anche il merito di aver sauto trasferire ai suoi figli l’arte e la passione per il disegno, in particolare a Francesco (1801-1829), salutato come speranza dell’arte italiana da Mazzini, e a Giuseppe (1813-1843), purtroppo entrambi morti di tisi in giovanissima età. Di Giuseppe vi sono qui in mostra diversi rari esempi di disegni tra cui un’accademia maschile, proveniente dalla collezione di Sante Varni, di somma eccellenza.

 

Luigi Sabatelli muore a Milano nel gennaio del 1850.

XX Il Genere Femminile nell’Arte del ‘900 Italiano

XX Il Genere Femminile nell’Arte del ‘900 Italiano

A cura di Monica Cardarelli
Presentazione di Cecilia Del Re, assessora al turismo – fiere e congressi – ambiente – urbanistica – agricoltura urbana.
Catalogo ed. Polistampa con un’introduzione di Barbara Alberti e uno scritto di Marco Fabio Apolloni

Dal 16 Settembre al 2 Ottobre 2019
Piazza San Felice 10r
Dal lunedì al sabato dalle 10:00 alle 18:00

A Roma dal 18 Ottore 2019
Via Monterone 13- 13A, Roma

La Mostra

XX IL GENERE FEMMINILE NELL’ARTE DEL ‘900 ITALIANO è la terza delle mostre che la Galleria del Laocoonte con sede a Roma e Londra, inaugura nella città di Firenze. Anche quest’anno così come due anni fa, la sede sarà la storica galleria Marletta a pochi passi da Piazza De’ Pitti e l’omonimo Palazzo.

 

Circa un centinaio, tra dipinti, disegni, pastelli, bronzi, terrecotte e ceramiche, di artisti italiani del XX secolo, che hanno rappresentato altrettante figure femminili. Mogli o amanti, vergini o puttane, madri sante come la Madonna o diavole mangiatrici d’uomini. Adolescenti caste, o mature Maddalene, ma anche dee, ninfe, personificazioni leggiadre della Primavera o dell’Italia, giunonica e turrita.

 

Monica Cardarelli, direttrice della Galleria del Laocoonte, ha riunito per il pubblico e i collezionisti, tante immagini di donne, per dare un’idea di come il ‘900 abbia saputo vedere attraverso gli occhi degli artisti – ma anche di alcune artiste – il genere femminile nelle sue tante rappresentazioni o trasfigurazioni. Il titolo della mostra, XX IL GENERE FEMMINILE NELL’ARTE DEL ‘900 ITALIANO, gioca sulla stessa grafia della lettera capitale e il numerale romano, per cui XX è allo stesso tempo il gene che determina il sesso di una donna, ma anche quel secolo Ventesimo, che ha visto più di ogni altro, cambiare tanto e così velocemente il ruolo, lo stato, l’aspetto e la condizione femminile, tanto nella vita quanto nell’immaginario, così come l’arte l’ha registrato.

 

L’opera più antica è di Giulio Aristide Sartorio, in un aereo pastello che è come un ultimo sospiro dell’800. Una giovane vergine preraffaellita dalla lunga veste botticelliana – era l’americana Lisa Stillman – sfoglia un album, forse musicale: è un’astrazione angelicata alla D’Annunzio, un’ideale da adorare al modo degli stilnovisti, anche se poi nella realtà i Rapagnetta – questo il vero nome del Vate – cercavano di sedurre le Marie Hardouin di Gallese: non a caso entrambe, l’americana ammirata da Sartorio e la franco-papalina che D’Annunzio sposò, figurano tra le dame del bel mondo ritratte nel trittico de Le Vergini Savie e delle le Vergini Stolte, commissionato a Sartorio dal conte Primoli nel 1891. All’estremo opposto, degli ormai consumistici anni ’60, è il collage polimaterico di Margherita Vanarelli, che assembla ritagli di pubblicità per comporre una moderna casalinga con bambino sul seggiolone, forse un piccolo marito già ubriaco di vino rosso.

 

Il Novecento inizia con le opere dello scultore Libero Andreotti, che nei primi anni del secolo elesse nei suoi modi liberty la donna a suo quasi unico soggetto: vi è Artemisia (1906), una cera dove un’elegante cortigiana nuda è circondata da levrieri russi in adorazione, forse un imbestiamento simbolico dei suoi corteggiatori. Lo stesso tema, ancora più esplicito è nel bronzo Donna con levriero (1908), in cui le feste alla padrona, del cane rampante sono così irruente da farle scivolare il vestito mostrando l’esuberante nudità di lei. Una mistura di sensualità, eleganza e perversione, che bene incarna la paura-attrazione per il sesso femminile del decadentismo, in cui la dominante fantasia d’amore e morte non era che un tragediare la paura del contagio sifilitico.

 

Ben altra morte venne, e fu la guerra. Così grande che cambiò anche lo stile degli artisti: la Venere-Fortuna di Libero Andreotti è completamente diversa dalle opere precedenti. Tra art déco e Quattrocento, scivola sulle acque, facendo windsurf sulla sua conchiglia, una donna longilinea, con fianchi d’adolescente.

 

Nuova figura di donna artista è Adriana Bisi Fabbri, cugina di Boccioni, qui presente in un gigantesco Autoritratto (1903) rosa-shocking e in un altro, a pastello, inedito. Marisa Mori fu allieva di Casorati e poi futurista: oltre a l’Autoritratto (1928), è sua una Donna che legge in riva al mare (1929), bozzetto incantevole e solare. Di Adriana Pincherle (1946), pittrice e sorella di Alberto Moravia, non vi sono quadri ma essa è più che presente in uno straordinario ritratto dipinto da Afro e in un bronzo di Marino Marini che la raffigura. Di Edita Broglio il grande disegno preparatorio per Terrazza sul Mare (1949). Elica e Luce Balla, figlie di Giacomo Balla, si ritraggono a vicenda, mentre il padre ritrae Luce che dipinge (1935). Poco nota invece è Lila de Nobili, grande costumista e scenografa, di cui qui è una preziosa tempera in cui Maria Callas appare nei panni di Violetta per la famosa Traviata di Luchino Visconti del 1955. Del suo collega Danilo Donati, per Fellini, è invece il grande pastello di Cortigiana Romana (1972) per il film “Roma”, in cui essa appare come simbolo riassuntivo e notturna personificazione della Città Eterna. Puttane di bordello sono invece quelle di Alberto Ziveri, in un quadretto che fu di Zavattini. Di questo sanguigno pittore romano è anche un grande ritratto della moglie, nuda, col cilindro in testa ed il ventaglio in mano, tra suonatori e spettatori, in cui l’equivoca atmosfera postribolare conferisce al dipinto una strana e affascinante bellezza. E’ un mondo da cui non è lontano Renzo Vespignani, che con il suo incredibile virtuosismo del disegno riesce a dare alle sue prostitute vecchie e sfatte un’orrida bellezza al modo di un Grosz italiano di secondo dopoguerra.

 

Tra misoginia e amore penneggiò un altro sommo disegnatore italiano, Alberto Martini, di cui qui vi è una donnina allegra, una Lady Machbeth (1911) sonnambula dagli occhi sgranati sulla fiamma che non vede, e una Aurèlia (1934) di Gerard de Nerval che al centro del seno schiude un occhio, secondo l’anatomia del surrealismo.

 

Figurini di moda, il Ritratto della Duse (1910), il Ritratto di Dina Galli (1913), e un Nudo in penombra, sono opera di Enrico Sacchetti, un altro grande misogino che amò tanto le donne, da morire suicida per il rifiuto di una trentenne, a novant’anni.

 

Poco conosciuto è Mario Micheletti, di cui è però uno dei dipinti più inconsueti della mostra, Natura Viva (1937), autoritratto al cavalletto con la modella nuda sdraiata davanti, i capelli tagliati à la garçonne, impudica nella sua innocenza. Davanti alla nudità di lei, l’artista indossa cappello, cappotto e sciarpa: un paradosso che ricorda la Conversazione Platonica di Casorati.

 

Picassianamente nuda è la Donna seduta (1943) di Cesare Peverelli, ed ancora più deformati dall’influenza del maestro spagnolo Due nudi ( femminili di Enrico Prampolini. Di Leoncillo invece, sono Tre Veneri (a penna, caricaturali e mostruose, che ricordano i disegni di Scipione. Nuda è anche un’Italia scultorea di Plinio Nomellini, mentre Sironi la presenta vestita e fascistissima con il moschetto o l’elmo da ex-combattente incoronato d’alloro.

 

Sono assai diverse le donne di Andrea Spadini, lo scultore fantasioso: incantevoli e fiabesche, tanto in pietra, come nella fanciulla con scimmie, che nella sua favorita ceramica smaltata, in cui è capace di dar lustro ad una sarta famosa, Simonetta Fabiani, immortalandola come Leda (1959) che monta alla cavallerizza il suo Cigno. Di Spadini padre, pittore, un Ritrovamento di Mosè (1940) che è uno studio di modelle in cui l’unico maschio è Andrea, appena nato e già messo in posa.

 

Duilio Cambellotti, che creò anch’esso lo stile della sua epoca, coniugandolo però ai miti classici della Grecia e a quelli arcaici di Roma, unendo cioè antichità e modernità dando vita a qualcosa vicino all’eternità, un’antichità attuale, una modernità remotissima. E’ quella che anima una fantastica scena ad acquarello che illustra il Supplizio delle Danaidi (1950), le cinquanta figlie di Danao, condannate per aver ucciso i loro mariti a riempire d’acqua nell’Ade un gran vaso senza fondo.

 

Molto diverse le donne di Dino Buzzati, giornalista che fu grande scrittore e anche originalissimo artista figurativo. Circondano la testa dell’emiro che le sta sognando nel suo Harem (1958), sono grappoli di natiche e mammelle senza volto, sono donne oggetto, molto simili a oggetti di design ed alle sculture alla Moore di quell’epoca. Modellate dal desiderio.

 

Se il desiderio ha dita per modellare un corpo, ha anche occhi per accarezzarlo. Quello della giovinetta dipinta da Ferruccio Ferrazzi ha un corpo che pare levigato da un pennello fatto di ciglia, dipinto di luce abbacinante, d’una chiarezza che vuole essere la simbolica emanazione del corpo dipinto di una fanciulla che è alla primavera della vita, e primavera essa stessa di una natura ancora incontaminata. Dello stesso visionario pittore romano, uno studio per La Giostra (1936), dove donne streghe e baccanti ad un tempo cavalcano cavallini di legno, e un disegno per La Stanza, un’annunciazione erotica che par colorata come se Ferrazzi ci avesse strofinato ali di farfalle.

 

A La Primavera (1903), dannunziana e un po’ michelangiolesca, è dedicato il cartone di De Carolis, grande pittore idealista.

 

Cartone, per gli affreschi della Cattedrale di Tripoli dipinti all’epoca di Italo Balbo, è quello di Achille Funi, che rappresenta L’Annunciata (1937), ma ritrae Felicita Frai, allieva praghese e amante del pittore, che la ritrasse anche come Parisina in un altro squisito cartone, servito per le Storie di Ferrara dove la tragica sorte di lei, giustiziata dal marito Niccolò III d’Este.

 

Ritratti di donna di Pietro Gaudenzi, Roberto Melli, Alberto Savinio, Alberto Scordia, Antonietta Raphael. Bellissimi pastelli di Antonio Mancini, un disegno di Mino Maccari, un acquarello di Renato Guttuso con la testa di Medusa liberamente tratta da Caravaggio.

Clerici, omaggio a Savinio

Dal 20 al 23 Settembre a Lugano | Stand 7, Padiglione A

Clerici, omaggio a Savinio

Mostra a cura di Monica Cardarelli e Marco Fabio Apolloni

Mostra: Andrea Spadini, dal 19 Marzo

ANDREA SPADINI (1912-1983)

Prorogata al 31 Maggio 2019

Dal 19 Marzo a Roma la Galleria del Laocoonte ospiterà la mostra in tre sedi Andrea Spadini, 1912 – 1983. Si tratta di una vasta antologica dello scultore e ceramista romano che fu il prediletto da star di Hollywood come Lauren Bacall, Henry Fonda, Douglas Fairbanks jr., ma anche dai più celebri personaggi del mondo del cinema, della moda e della mondanità italiana, tra cui Alberto Sordi, gli stilisti Alberto Fabiani e Simonetta Colonna di Cesarò, o la contessa Cicogna, per la quale assieme a Fabrizio Clerici decorò la bizzarra villa di Venezia.

La mostra, curata da Monica Cardarelli, che in questi anni ha studiato e catalogato le opere dell’archivio di famiglia, esibirà ottanta sculture, tra marmi, pietre di grandi dimensioni, bronzi, terrecotte, e maioliche smaltate, a cui si accompagnano altrettanti disegni dell’artista, da quelli di lui adolescente, furtivo e prodigioso apprendista del padre, il famoso pittore Armando Spadini (1883-1925), a quelli che servirono da studi per le sculture, anch’essi godibili come opere d’arte a sé, per la spiritosa vivacità dell’invenzione e l’agile disinvoltura del tratto.

Una mostra in tre sedi

L’esposizione si articola in TRE SEDI, oltre alla già nominata sede di Via Margutta, dove sono le sculture di maggiore dimensione con i relativi disegni, la produzione giovanile dell’artista trova posto invece a Via Monterone 13, nella Galleria Del Laocoonte attorno al grande marmo Cinquecentesco da cui essa prende il nome. Infine nello Spazio Espositivo di Via del Babuino 136, sono invece disposti i bronzi e le ceramiche di più piccola dimensione.

Andrea Spadini

Da giovanissimo Andrea Spadini divenne scultore a Firenze, alla scuola di Libero Andreotti. Fu poi assistente di Arturo Martini. A diciassette anni era già artista completo e padrone di tutte le tecniche della scultura. Cominciò la sua carriera lavorando per l’E 42 e per il Padiglione Italiano dell’Esposizione Universale di New York del 1939. Dopo la guerra, in cui fu sergente del Genio e tra i difensori di Porta San Paolo il 10 Settembre del 1943, Spadini cominciò quasi per gioco a modellare figure in ceramica. Dopo i suoi lavori realizzati a Villa Cicogna a Venezia, viene invitato da Irene Brin e Gaspero Del Corso a lavorare per la loro Galleria dell’Obelisco con lo pseudonimo, “Lo Spada” con cui l’artista firmò obelischi di ceramica animati da mori, gatti e Pulcinella. Queste opere incontrarono subito il favore del pubblico e l’attenzione della clientela cosmopolita di cui la galleria era un polo d’attrazione. Il lavoro più ambizioso che egli fece per Gaspero Del Corso fu il Lazzarone Napoletano (1958) in terra bianca. Più grande del vero, doveva essere la base per una consolle, ma non passò per le scale, ritornò dunque nello studio dell’artista. Ora a Via Margutta si potrà ammirare da tutti i lati nella sua minuziosa perfezione.

Tra le opere in mostra è una scimmia di terracotta a grandezza naturale, assieme alle più piccole Capra Flautista e Ippopotamo che suona il violino, modello e bozzetti per i bronzi di animali che animano l’orologio musicale del Central Park a Manhattan, voluto dall’editore George T. Delacorte jr. e inaugurato nel 1965.

Due obelischi con le Scimmie Vanitose, quattro Scimmie Ballerine e altre quattro che navigano su barche di papiro, tutte di ceramica smaltata, provengono dalla collezione del conte Lanfranco Rasponi, che delle scimmie aveva la mania, avendone anche una domestica, viziata e adoratissima. Rasponi fu una singolare figura di public relations man nell’ambiente della Lirica tra Italia e Stati uniti, nonché titolare della Sagittarius Gallery a New York, dove nel 1956 si tenne la prima mostra di Andrea Spadini negli Stati Uniti. Il suo successo americano lo portò dopo pochi anni nel 1960 a firmare un contratto con Tiffany & Co., che da quel momento esporrà le sue opere nella sua sede più prestigiosa sulla Quinta Strada di New York. Centritavola o segnaposti di ceramica, lavori ogni volta originali, creati dall’artista uno per uno e mai ripetuti, oppure di bronzo dorato o argentato e persino argenti massicci, costituiscono questa classe di opere, preziose come i gioielli, che in mostra saranno nelle vetrine dello Spazio Espositivo di Via del Babuino 136. Tra queste le personificazioni del Gange e del Fiume Giallo, entrambi in bronzo dorato, figure mollemente adagiate su imbarcazioni simboliche, che Andrea Spadini modellò ispirandosi ai Quattro Fiumi di Bernini di Piazza Navona.

Nella Galleria del Laocoonte a Via Monterone 13, sono adunati i disegni giovanili e le sculture di prima della Guerra. Sono marmi o peperini che Andrea Spadini raccattava in giro tra i ruderi di Roma o della Campagna, vuoi per una ragione di risparmio, vuoi perché l’idea della materia antica era capace di aggiungere qualcosa di suggestivo a queste forme, da lui aggredite con lo scalpello “alla prima “ e lasciate volutamente abbozzate o frammentarie, come se non di un’opera moderna si trattasse, ma di un reperto archeologico consunto o spezzato, in cui si potesse vedere ancora superstite la traccia arcana di una lontana e perduta maestria. È il caso di un ritratto in peperino che pare strappato ad un monumento etrusco, di un San Sebastiano (1936) che è come un mutilo tronco di un Marzia suppliziato, o del Ritratto in marmo di Bruno Barilli (1935), che fa pensare a una testa antica rotolata giù da qualche acropoli.

La sua opera unica e geniale, incurante della logica delle avanguardie, non turbata da ansie di modernismo è sospesa come un sogno di un fantastico mondo popolato di personaggi e animali d’ogni sorta, che giocano e graziosamente sembrano muoversi, tanto naturalmente in equilibrio li ha fissati la mano dell’artista. In questa leggerezza è l’estrema felicità del suo anticonformismo.

Leoncillo, le carte e le ceramiche

Leoncillo Leonardi in mostra a Roma fino al 28 Febbraio 2019

Leoncillo, le carte e le ceramiche

Dal 29 Ottobre. Mostra prorogata al 28 Febbraio 2019

Una grande mostra in tre sedi per celebrare Leoncillo (1915-1968), il più originale scultore italiano del dopoguerra

L’itinerario della mostra:

Sculture

GALLERIA W. APOLLONI
Via Margutta 53/B, Roma

ORARIO
10:00-13:00 | 16:00-19:00
dal Lunedì pomeriggio al Sabato mattina

Arti applicate

SPAZIO BABUINO
Via del Babuino 136, Roma

ORARIO
10:00-13:00 | 16:00-19:00
dal Lunedì pomeriggio al Sabato mattina

Disegni

GALLERIA DEL LAOCOONTE
Via Monterone 13 – 13A, Roma

ORARIO
10:00-13:00 | 16:00-19:00
dal Mercoledì al Venerdì

La mostra

Dal 29 ottobre si aprono i battenti della mostra Leoncillo. Le carte e le Ceramiche. La mostra, che resterà aperta fino alla fine di Dicembre 2018 (prorogata al 28 Febbraio 2019), è stata organizzata dalla Galleria del Laocoonte di Roma, a cura di Marco Fabio Apolloni e Monica Cardarelli, valendosi della consulenza scientifica di Enrico Mascelloni, il principale esperto dell’opera di Leoncillo.

Leoncillo Leonardi (Spoleto 1915-Roma 1968) è tra i massimi scultori italiani del ‘900 e certamente il principale innovatore nell’ambito della ceramica, avendola elevata a materiale esclusivo della sua arte, quindi estraendola dagli scaffali dei negozi dell’artigianato, per porla sui piedistalli e nelle vetrine dei più importanti musei d’arte contemporanea.

Sarà un’esposizione divisa in tre sedi: presso la Galleria W. Apolloni di Via Margutta 53B sono collocate le sculture in ceramica, appartenenti alla fase che si chiude con la fine della II guerra mondiale (1939-1945) e successivamente a quella neocubista (1946-1957), affiancate da un nucleo di disegni che illustrano tali fasi dell’attività di Leoncillo. Nella nuova sede espositiva Spazio Babuino 136, che si inaugura per l’occasione come sede comune della Galleria del Laocoonte e della Galleria W. Apolloni, per piccole e meditate esposizioni, è raccolto un nucleo inedito d’oggetti d’uso: un servizio da thè ed uno da caffè modellato in forme ad un tempo attraenti e mostruose, calici sbilenchi e multicolori, piatti da parete con bassorilievi d’animali, un modello per camino e una cornice per specchio, quest’ultima al contempo metafisica e cubista. Anche qui un nucleo di disegni illustra l’opera del Leoncillo decoratore, che seppe  applicare la propria plastica a interni di cinematografi, bar, ristoranti e locali nella Roma del dopoguerra e del miracolo economico. L’ultima sezione della mostra è ospitata nella Galleria del Laocoonte di via Monterone 13-13A e comprende solo disegni dell’ultimo decennio dell’artista, morto nel 1968 a 53 anni, in cui egli abbandonò ogni motivo iconico per dar forma a corpi di materia – sempre terracotta – dall’aspetto minerale, in cui il taglio, la frattura, l’apparenza della combustione, la suggestione di sangue o di lava restituita dagli smalti, danno ad essi una vitalità drammatica.

La mostra è illustrata da un catalogo in due volumi rilegati, uno dedicato a Le Carte ed uno a Le Ceramiche, quindi ai disegni e alle sculture, entrambi a cura di Marco Fabio Apolloni e Monica Cardarelli, con i testi critici di Enrico Mascelloni e con la prima ricostruzione storica e antologica, mai tentata sinora, del Leoncillo disegnatore. Il doppio catalogo è edito da De Luca Editori d’Arte.

Molte sculture in mostra sono inedite, come un grande Copricamino smaltato in nero blu e turchese che restituisce i colori di una grotta marina, già appartenuto all’attore Raf Vallone, oppure tre rilievi di paesaggio pressochè astratti che ornavano l’Hotel Universo di Roma. Due elementi solidi gemelli, sono probabilmente la prima opera compiutamente aniconica di Leoncillo. Una monumentale transenna di balaustra, inedita anch’essa, è esposta accanto al suo disegno preparatorio.

Protagonista della mostra è però la Sirena, uno dei tre “mostri” (insieme all’Arpia e all’Ermafrodito ora alla GNAM) a cui Leoncillo diede vita nel 1939. Essa è l’ultima ancora in mani private e va ritenuta uno dei capolavori più perturbanti della scultura italiana della prima metà del novecento. Accanto a essa, con un corteggio di acquarelli a soggetto muliebre – Canefore, Ritratto di Elsa de’ Giorgi – è esposto il “Ritratto di Mary” del 1953, da cui l’artista non si separò mai in vita, poiché in esso ritrasse Mary Jochemnse, Miss Olanda nel 1948, bellissima donna da lui amata. Inediti sono pure due piccoli rilievi, La Volpe e il Corvo e Il Lupo e l’Agnello – prestati dagli eredi e tra le opere più antiche di un artista che, come Trilussa, nascondeva forse nelle favole di Fedro il suo precoce sentimento antifascista.

Un altro capolavoro è Il Corso del Tevere, esposto nello Spazio Babuino 136 accanto al suo disegno preparatorio, piccola sinfonia sul tratto urbano del fiume di Roma, scandito dalle sagome scomposte di familiari monumenti come Ponte Milvio, Castel Sant’Angelo, Ponte Rotto, l’Isola Tiberina, brillanti e colorati come in altrettante cartoline cubiste.

La scelta dei numerosi disegni è una prima campionatura per la ricostruzione della carriera dell’artista, e può ritenersi il primo atto di una catalogazione più vasta, in attesa di un futuro catalogo generale di tutta l’opera grafica e non solo di quella plastica

Notizie utili:

Indirizzi e orari

Via Margutta 53/B. Dal lunedì pomeriggio al sabato mattina, dalle 10:00 alle 13:00 e dalle 16:00 alle 19:00

Via del Babuino 136. Dal lunedì pomeriggio al sabato mattina, dalle 10:00 alle 13:00 e dalle 16:00 alle 19:00

Via Monterone 13, 13/A. Dal mercoledì al venerdì, dalle 10:00 alle 13:00 e dalle 16:00 alle 19:00. www.laocoontegalleria.it

Catalogo: Leoncillo – Le carte e le Ceramiche in due volumi (a cura di Marco Fabio Apolloni e Monica Cardarelli. Testi di Enrico Mascelloni – Casa editrice: De Luca Editori d’Arte, www.delucaeditori.com)

Dal Secessionismo al Futurismo, Dal 20 al 31 Luglio

“Dal Secessionismo al Futurismo”

Dal 20 al 31 Luglio la Galleria del Laocoonte vi invita a visitare la mostra “Dal Secessionismo al Futurismo”.

Saranno esposte opere di
Giacomo Balla, Afro Basaldella, Duilio Cambellotti, Gustav Klimt, Marino Marini, Marisa Mori, Giulio Aristide Sartorio, Alberto Savinio, Arthur Segal, Gino Severini, Mario Sironi.

Informazioni

Apertura al pubblico: da Mercoledì a Venerdì
dalle ore 10.00 alle 13.00 e dalle 15.00 alle 19.00

Marisa Mori, Disegni e Dipinti

Marisa Mori 1900 – 1985. Disegni e Dipinti

Una trentina tra disegni e dipinti chiariscono l’iter artistico della pittrice fiorentina allieva
di Casorati e poi futurista, Maria Luisa Lurini, in arte Marisa Mori

Dal 24 Maggio al 25 Giugno 2018

Maria Luisa Lurini, in arte Marisa Mori – nata a Firenze il 9 marzo del 1900 da Mario Lurini, ispettore de La Fondiaria e Edmea Bernini, discendente di Gian Lorenzo Bernini – possiede in realtà un ben più vasto repertorio artistico, che vede in prima posizione la sua innata attitudine al disegno, testimoniata da un inesplorato e vasto nucleo di opere, soprattutto a carboncino, portato alla luce grazie al lavoro di archiviazione condotto dalla Galleria del Laocoonte, che ne pubblicherà il catalogo generale (a cura di Monica Cardarelli, edizione Polistampa). In mostra l’intenso Ritratto Luciferino del 1926 nelle sue due versioni, quella che ne ritrae il solo volto e quella che la vede davanti al cavalletto, testimoni entrambi della prima maniera dell’artista.

Dal 1925 allieva di Felice Casorati, Marisa Mori apprende velocemente la lezione del maestro, tanto che nello stesso anno del suo ingresso nella casa-studio di Via Mazzini, Casorati la farà partecipare al suo fianco alla mostra “Vedute di Torino” indetta dalla Società di Belle Arti Antonio Fontanesi. Marisa Mori presenterà due versioni di Via Lanfranchi, la via dove abitava con i genitori e il figlioletto di tre anni dopo il breve e burrascoso matrimonio con suo cugino Mario Mori (1890-1943), tecnico minerario e agronomo. In mostra è la prima versione di Via Lanfranchi, una metafisica istantanea poeticamente solitaria.

Al verso della tavoletta dipinta, come tante altre opere della Mori, è raffigurata un’altra opera, la Natura morta metafisica, realizzata ben due anni più tardi. Di medesima ispirazione casoratiana sono le opere Pompelmo e uova, Le scale del mio studio, il bozzetto per La lettura, e lo Studio di due maschere.

Negli anni a seguire Marisa Mori prosegue la sua attività espositiva accanto al maestro e agli allievi della scuola trasferita al numero 33 di via Bernardino Galliari. La nuova sede si trovava proprio di fronte alla casa di Riccardo Gualino (1879-1964), imprenditore amante delle arti, grande amico del critico d’arte Lionello Venturi e la cui collezione includeva oltre a moltissime opere di Casorati, di cui fu il munifico mecenate, anche quelle di Marisa Mori. Insieme agli allievi e allieve della scuola, fra cui Carlo Levi, Nella Marchesini e Daphne Maugham, poi moglie di Casorati, Marisa Mori espose oltre che a Torino, a Milano, Parigi e Londra. Particolarmente apprezzate dalla critica le sue vedute con “il mare che sconfina verso la luce del cielo” di cui in mostra la Marina di Andora, Venezia, Marina di Massa.

Fino al marzo del 1931 esporrà con il gruppo di Casorati e alla galleria Milano di Torino, nella mostra recensita nella Gazzetta del Popolo, l’artista fiorentina viene elogiata tra l’altro per la “sensibilità acuta del colore”, in mostra Il tendone da circo, Il convento, il Vaso di amarilli, l’Autoritratto e Donna che legge, tutte opere datate tra il 1929-31.
Pur non rinnegando nessuno dei suoi periodi creativi, come essa stessa aveva dichiarato in un’intervista del 1978, che non fece mai pubblicare, Marisa Mori è consapevole di non avere il “temperamento ragionatore, geometrizzante e sintetico di Casorati” e che urgeva in lei un altro tipo di espressione, che il Futurismo contribuì a liberare. A partire dal 1931, nonostante gli ammonimenti del maestro Casorati, Marisa Mori si accosta ai futuristi piemontesi: Prampolini, Rosso, Dottori, Tullio Mazzotti, grazie all’amico Fillia (Luigi Colombo, 1904-1936), e naturalmente a Filippo Tommaso Marinetti che scherzosamente chiamava “il rinoceronte” e che la spronò a fare l’esperienza del volo acrobatico.

Tornata a Firenze e riallacciati, solo per breve tempo, i rapporti con il marito, l’1 gennaio del 1933 firma il Manifesto di Antonio Marasco (1896-1975) entrando ufficialmente a far parte del movimento futurista. Sono di questo periodo La scomposizione meccanica della folla, Maternità futurista, Figure e forme luminose, Ascolto Radiofonico e Composizione.

Quando nel 1938 furono emanate le leggi razziali Marisa Mori si dissociò dal movimento futurista e coerentemente a questa scelta nel 1943 offrirà rifugio ai suoi amici ebrei, tra cui Paola, Rita e Gino Levi Montalcini. Inizia così la quarta fase della sua vita artistica da cui ebbero origine alcune notevoli nature morte e ritratti, in mostra lo Studio per argenteria e il Paesaggio con pino. Dopo la guerra si occuperà anche di teatro continuando a dipingere solitaria fino al sopraggiungere della sua morte il 6 Febbraio del 1985.

SCHEDA INFO

Titolo mostra: MARISA MORI 1900-1985 DISEGNI E DIPINTI

Luogo: VIA MONTERONE 13, 13/A

Apertura al pubblico: 24 MAGGIO – 25 GIUGNO 2018

Inaugurazione: 23 MAGGIO 2018 ore 18.00

Orario: da Mercoledì a Venerdì dalle ore 10.00 alle 13.00 e dalle 15.00 alle 19.00

A cura di Monica Cardarelli

Info Mostra: 06 68308994 | 348 1234707 (tutti i giorni 9.00 – 19.00)

Disegni smisurati del ‘900 italiano

Adolfo De Carolis, Studio per La Primavera, 1903, tecnica mista su carta applicata su tavoletta, 145x167cm
Ottone Rosai – Giovinotto crocifisso, 1950, carboncino su carta applicato su tela, cm 180×140

Disegni smisurati del ’900 Italiano

Una trentina di cartoni di maestri del ’900 italiano mostrano l’alto livello dell’esercizio del disegnare nella prima metà del secolo scorso

Villa Torlonia, Casino dei Principi

24 novembre 2017 – 18 marzo 2018

Inaugurazione 23 novembre ore 18.00

Smisurato rispetto agli schizzi, agli studi preparatori, ai bozzetti, il cartone, è un disegno grande quanto l’opera o la parte di opera che l’artista intende realizzare. Debba essere questa un quadro, un affresco, una vetrata, un mosaico o un arazzo, il cartone è una realizzazione necessaria affinché l’opera sia portata a termine dall’artista stesso o dalle maestranze specializzate che devono materialmente compierla.

Non deve stupire dunque che nel primo ’900 italiano, legato al ritorno alle tecniche di decorazione antiche e tradizionali, sopravvivano questi grandi fogli su cui l’ispirazione dell’artista, già spesa in studi più piccoli, ha saputo trovare finalmente la vera misura e le linee definitive della forma del proprio lavoro.

Se imperturbabile nella sua durevolezza è il buon fresco, brillante il mosaico, splendente la vetrata, il cartone invece non mostra solo gli accidenti occorsi durante la lavorazione, ma è reso fragile dal tempo come un antico documento autografo. Da qui la sua preziosità, la reverenza con cui esso va trattato e mostrato.

La mostra Disegni smisurati del ’900 Italiano, al Casino dei Principi di Villa Torlonia dal 24 novembre 2017 al 18 marzo 2018 – promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, con i servizi museali Zètema Progetto Cultura espone una ventina di cartoni di maestri del ’900 italiano che i curatori, Marco Fabio Apolloni e Monica Cardarelli, direttrice della Galleria del Laocoonte di Roma, hanno adunato e restaurato, rastrellandoli dal mercato dell’arte o direttamente dagli eredi degli artisti, per costituire una sorta di pinacoteca di “disegni smisurati” per dimostrare l’alto livello dell’esercizio del disegnare nella prima metà del secolo scorso.

Del dannunziano Adolfo De Carolis si espone il grande foglio preparatorio del dipinto Primavera (1903). Due maestosi cartoni per gli affreschi dello scalone del palazzo dell’INA a Roma – ora proprietà dell’Ambasciata Americana – sono opera del quasi dimenticato Giulio Bargellini (Firenze 1875 – Roma 1936), frescante instancabile di terme, banche e ministeri.

Di Achille Funi (Ferrara 1890 – Appiano Gentile, Como 1972), formidabile frescante, ma anche restauratore in chiave moderna dell’arte di Giotto e Piero della Francesca, si mostrano qui due schiere di soldati romani disegnati per il Martirio di S. Giorgio per la chiesa omonima a Milano, Didone e sua sorella per la sala dell’Eneide, affresco effimero eseguito per la Triennale di Monza del 1930, una Zuffa di Cavalieri per il Municipio di Bergamo e infine la Vergine annunciata, cartone colorato a pastello per la chiesa di San Francesco a Tripoli, in cui ha raffigurato la propria allieva e amante Felicita Frei.

Di Gino Severini è una Madonna con Bambino per la Cattedrale di Losanna.

Publio Morbiducci (1889-1963), l’autore del Monumento al Bersagliere a Porta Pia, è l’autore di una serie di disegni con trionfi di spoglie militari in cui le armi dell’antichità classica sono commiste con quelle moderne dell’ultima guerra.

Infine di Ottone Rosai è un Giovinetto Crocifisso sospeso quasi a grandezza naturale su un vasto foglio, in cui il rovello del disegno si traduce in un’apparenza espressionista di grande pathos, dove la sua tormentata omosessualità eleva il proprio oggetto d’amore a sofferente divinità.

Un altro nucleo di cartoni colorati a pastello, opera di Pietro Gaudenzi (Genova 1880 – Anticoli Corrado 1955) costituiscono una mostra nella mostra, illustrando, assieme a bozzetti e foto d’epoca, un intero ciclo di affreschi, eseguiti in due sale del Castello dei Cavalieri di Rodi nell’estate del 1938, oggi completamente perduti.

Esposti al Museo di Anticoli Corrado nel 2014, proprio dove furono eseguiti dall’artista, e nel 2015 alla Mostra “Piero della Francesca. Indagine su un mito” ai Musei di San Domenico a Forlì, dove apparvero come una rivelazione, i cartoni sono esposti per la prima volta in uno spazio pubblico a Roma assieme ai bozzetti, a un dipinto preparatorio de Lo Sposalizio e a un ritrovato inedito ritratto monumentale a olio di Cesare Maria De Vecchi, il quadrunviro che fu ultimo Governatore civile di Rodi, ispiratore e committente del restauro del Castello e delle pitture che Gaudenzi vi eseguì.

I cartoni, straordinari per delicatezza di tocco, rappresentano scene di genere o figure femminili ritratte dall’artista nello svolgimento di umili occupazioni quotidiane nelle strade e nelle campagne di Anticoli Corrado. Guardando gli studi e le figure per la “Sala del Pane”, non si può non ricordare la retorica della “Battaglia del Grano” mussoliniana, ma le figure di Gaudenzi – che pure sul tema vincerà anche, con un suo trittico dipinto, il premio Cremona nel 1940 – sembrano, nella fissità delle loro consuetudini millenarie e immutabili, lontane all’enfasi trionfalistica del regime.

In mostra anche un bozzetto a olio, ciò che resta di un grande quadro in cui era rappresentato Lo Sposalizio, un banchetto di nozze umile e severo trasfigurato in cenacolo sacro che rappresenta le nozze dell’artista con la modella anticolana Candida Toppi, che l’epidemia di spagnola portò via nel 1918. Appena in tempo per metterla in posa, per il grande quadro, due metri e mezzo per sette, che costò lunghi anni di lavoro e fu esposto alla Biennale di Venezia del 1932 e oggi è smarrito.

Schivo, taciturno creatore di un mondo e di un umanità incantata in cui i modelli contadini, da lui ritratti dal vero nel paese di Anticoli Corrado, che egli elesse ad Arcadia personale, sono trasfigurati per grazia poetica, in modo che l’umano e il divino si confondano: così in Gaudenzi una Sacra Famiglia diventa una famiglia, una Visitazione una visita tra comari, uno Sposalizio un semplice banchetto di nozze, senza che il senso del sacro venga meno, ma senza che questo tradisca il senso del vero. È la bellezza dell’umiltà della leggenda cristiana, tante volte meravigliosamente vestita in pittura, che Gaudenzi ha saputo riportare come declinazione purista del Novecento italiano. Con semplicità e finezza sincere.

Il progetto delle pitture nacque per il più ridente angolo del nostro effimero Impero coloniale, l’incantevole isola di Rodi, che fu sede del Governatorato italiano del Dodecaneso dal 1912 al 1943, vetrina turistica e paragone d’eccellenza architettonica e urbanistica. Nel 1936 Mussolini nominò Governatore di Rodi Cesare Maria De Vecchi (Casal Monferrato 1884 – Roma 1959), conte di Val Cismon per meriti militari, già Ras di Torino e Governatore della Somalia.

Il nuovo governatore elesse sua maggiore impresa la ricostruzione del Castello dei Cavalieri di Rodi. Costruito dall’Ordine dei Cavalieri di S. Giovanni che dovettero abbandonare l’isola ai Turchi nel 1522. Nel 1856 era stato distrutto dall’esplosione accidentale di una polveriera e adattato a carcere. De Vecchi volle ricostruirlo completamente, ottenendo un castello “nuovo”, quasi un fondale operistico o una scenografia cinematografica. L’ambiziosa opera, portata a termine in soli tre anni, costò 30 milioni di lire d’allora. Cinquecento tagliapietra e scalpellini furono fatti venire dalla Puglia, squadre di mosaicisti da Firenze e da Venezia per restaurare e mettere in opera nei pavimenti gli antichi mosaici trovati negli scavi archeologici della vicina isola di Coo. L’effetto è maestoso e straniante, gli inglesi che occuparono l’isola fino al ’47 lo descrissero come “a fascist Folly”, e oggi è il monumento più visitato di tutta Rodi.

SCHEDA INFO

Titolo mostra Disegni smisurati del ’900 Italiano

Luogo Musei di Villa Torlonia, Casino dei Principi, via Nomentana 70

Apertura al pubblico 24 novembre 2017 – 18 marzo 2018

Inaugurazione 23 novembre ore 18.00

Orario Da martedì a domenica ore 9.00 – 19.00

24 e 31 dicembre ore 9.00 – 14.00

La biglietteria chiude 45 minuti prima

Giorni di chiusura: lunedì, 25 dicembre, 1° gennaio, 1 maggio,

La biglietteria è presso il Casino Nobile

Biglietti Biglietto cumulativo con Museo del Casino Nobile: euro 7,50 ridotto 5,50 – 6,50

Promossa da Promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale –

Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali

A cura di Marco Fabio Apolloni e Monica Cardarelli

Info Mostra 060608 (tutti i giorni ore 9.00 – 19.00)

www.museivillatorlonia.it; www.museiincomune.it

Servizi museali Zètema Progetto Cultura

Pubblicazioni Cartoni. Disegni smisurati del ’900 italiano. A cura di Marco Fabio Apolloni e Monica Cardarelli. De Luca Editori D’arte, Roma.

Pietro Gaudenzi. Gli affreschi perduti del Castello dei Cavalieri di Rodi. A cura di Marco Fabio Apolloni e Monica Cardarelli. Edizione Polistampa, Firenze

SPONSOR SISTEMA MUSEI CIVICI

Con il contributo tecnico di Ferrovie dello Stato Italiane

Media Partner Il Messaggero

SPONSOR MOSTRA Galleria del Laocoonte, Roma

IO SONO CAMBELLOTTI – Via Margutta 53b

IO SONO CAMBELLOTTI

A Roma nei nuovi spazi espositivo della Galleria W. Apolloni

Via Margutta 53b

Lunedì ore 15,30 – 19,00
Martedì – Venerdì ore 10,00 – 13,00 / 15,30 – 19,00
Catalogo: a cura di Marco Fabio Apolloni e Monica Cardarelli, (De Luca Editori d’Arte), introdotto da uno scritto di Antonio Pennacchi, l’epico romanziere di “Canale Mussolini”, e si avvale della collaborazione di Anna Maria Damigella, Francesco Parisi, e di Francesco Tetro, Direttore del Museo Cambellotti di Latina.

La Galleria W. Apolloni è davvero orgogliosa, e non per modo di dire, di presentare a Roma il suo nuovo spazio di esposizione in via Margutta 53B, nel più grande degli studi d’artista del Palazzo Patrizi, sede a suo tempo dell’Accademia Britannica fino al 1911, e per tanti anni negozio dell’antiquario romano Massimo Tuena. Per rendere memorabile questa apertura la galleria antiquaria ospita la Galleria del Laocoonte, impresa partner per l’arte moderna italiana, che per l’occasione ha organizzato un’esposizione dedicata al grande artista romano Duilio Cambellotti (1876-1960), già presentata al Museo Emilio Greco di Sabaudia l’estate scorsa con grande successo di pubblico e di critica, ma accresciuta per l’occasione da numerosi prestiti di privati collezionisti e colleghi galleristi, da risultarne, con una trentina di opere – alcune inedite – quasi raddoppiata in estensione. Per l’occasione infatti, oltre al catalogo già esistente “Io sono Cambellotti”, pubblicato da De Luca editori d’Arte (a cura di Marco Fabio Apolloni e Monica Cardarelli, con presentazione di Antonio Pennacchi) verrà pubblicato con lo stesso editore un secondo fascicolo.
Cambellotti, artista di schietta e programmatica romanità, che padroneggiò ogni tecnica e materiali, e fu poliedrico ed eclettico creatore di sculture di bronzo, legno, pietra e terracotta, cesellatore di medaglie, realizzatore formidabile di pitture murali, di vetrate, di maioliche, di incisioni e xilografie, di mobili e arredi. Fu anche scenografo, costumista, e “metteur en scène”, soprattutto per il teatro classico a Siracusa e ad Ostia, ma anche per il cinematografo, dagli inizi del muto fino al neorealismo del dopoguerra.
Il suo primo trionfo artistico, del resto, fu l’allestimento della prima rappresentazione de “La Nave” di Gabriele d’Annunzio, nel 1908. Fu anche creatore di manifesti come quello per l’Esposizione Internazionale di Roma del 1911, ed illustratore di numerosissimi libri. In mostra sarà la lussuosa edizione delle favole di Trilussa dalla copertina figurata in tessuto colorato, ricca come un piccolo arazzo. L’arte che invece non praticò mai fu la pittura da cavalletto destinata agli amatori privati. Infatti fu un fedele seguace dell’ideologia umanitaria di William Morris, e concepì sempre la sua arte come opera di divulgazione popolare, come educazione al bello per le masse, e all’inverso,impose al gusto contemporaneo eleganti idealizzazioni di oggetti rustici – mobili, maioliche – che potessero
rendere consapevole il pubblico borghese dell’atavica bellezza degli strumenti del lavoro contadino.
In mostra due prestigiosi mobili dimostrano la sua unicità strepitosa di artista-artigiano. Il suo amore quasi religioso, ma laico, per Roma, la Roma antica svelata dalle scoperte archeologiche a lui contemporanee si riversò soprattutto nella creazione delle “Leggende Romane”, prima tempere e poi xilografie a cui lavorò tutta la vita, Cambellotti creò un neoclassicismo – ma sarebbe meglio dire neo-arcaismo – tutto suo, espressionista e rustico. Socialista umanitario, moderato e pacifista sempre, resuscitò in senso popolare e repubblicano la simbologia romana del fascio, dell’aquila e della lupa molto prima dell’avvento del fascismo, che quando arrivò al potere se ne impadronì trovando in Cambellotti un repertorio simbolico già bello e fatto. Delle “Leggende Romane”, vi sono diverse tavole originali e numerosi studi relativi, nonché le rare tirature originali di alcune xilografie della serie che rimase inedita finché l’artista fu in vita. Oltre che per Roma, Il suo amore per l’Agro Romano e Pontino lo portarono a studiare gli alberi e le piante, gli animali, i paesaggi, le abitazioni, le genti ed i costumi della campagna attorno a Roma, per conservarne il ricordo in forme artisticamente stilizzate e inconfondibili, diffondendone le immagini al fine di sensibilizzare la società sulle condizioni di arretratezza, fatica, miseria e malattia in cui vivevano i contadini dei latifondi malarici.
Con Giovanni Cena, Giacomo Balla, Sibilla Aleramo e Alessandro Marcucci e altri intellettuali umanitari del tempo fu attivo per promuovere le scuole per i figli dei contadini a cui prestò la propria opera di decoratore in edifici in cui il rustico artistico delle cose familiari accogliesse i bambini in ambienti pratici e salubri. L’osservazione degli usi atavici lo portò a studiare la Roma
antica delle origini, in un tempo in cui gli scavi al Foro e al Palatino ne portavano alla luce resti e memorie.
Illustratore di propaganda nella Prima Guerra Mondiale, creatore di singolari monumenti ai caduti nel primo dopoguerra – Terracina, Priverno – Cambellotti fu anche coinvolto nell’opera delle nuove città di fondazione della Bonifica Pontina. Sua la smisurata pittura murale con la “Conquista della Terra” che orna il palazzo della prefettura di Latina.
Terracina era infatti la sua residenza estiva, dove abitava la pittoresca Torre Frangipane, dall’alto della quale- come si vede in mostra – ha immortalato un volo di rondini in uno splendido disegno in cui le volanti messaggere della primavera si librano alte e grandissime al di sopra dei tetti del paese minuscoli e lontani.
In mostra i gessi originali di due delle tre Dolenti del Monumento ai Caduti di Terracina, uno splendido bronzo de “La Corazza” celebrazione dell’antico guerriero contadino italico, un gesso di leonessa, un commovente presepe di terracotta magistralmente dipinto. Delle “Leggende Romane” la tempera più antica del Ponte Sublicio e tre altre leggende, Marte, Orazio Coclite e l’Origine del Campidoglio, stampate da Cambellotti in vita. Acquarelli e disegni preparatori per la casa dei Mutilati di Siracusa, dove i soldati feriti sono tramutati in dolorosi tronchi potati carichi d’armi. La xilografia di Terracina bombardata e il suo disegno preparatorio, “La Legnara” che fa parte di un poema iconografico dedicato al Circeo e alla navigazione antica. Manifesti e tempere preparatorie per le tragedie greche messe in scena a Siracusa. Una serie di medaglie di bronzo con le relative preparazioni in gesso e cera mostrano a qual punto alta fosse la maestria di Cambellotti in quest’arte nella quale egli fu davvero un Cellini del XX secolo. Un cartone di vetrata, disegno smisurato per l’oculo della facciata del Duomo di Teramo, mostra una Vergine tra gli angeli circondata di fiori come una donna Liberty.
Numerose le piccole illustrazioni per libri che mostrano la sapienza grafica di Cambellotti disegnatore, non solo di tavole, ma anche di vignette testate e finalini, una maniera di adornare il libro in ogni sua parte affinché la parte dell’artista fosse pari a quella dell’autore del libro. E in ciò fu superiore, di molti libri avremmo perduto la memoria se non vi fossero le figure di Cambellotti a
renderli preziosi. Tra le opere presentate a Roma rammentiamo, un “Buttero” insieme rustico e futurista appartenuto a Bruno Mussolini, le bronzee conche “dei Cavalli” e “dei Bufali” prodigio di naturalismo e sinteticità formale, e un vaso di bucchero, resurrezione dell’antica tecnica etrusca, ornato dai segni dello Zodiaco. Si segnalano anche le meravigliose illustrazioni per il Prometeo e i Sette contro Tebe di Eschilo, e i modellini di scenografie, come quello per “L’Aiace” e per “L’Ecuba”, dove le linee del modernismo si sposano con l’evocazione dell’antichità remota, tanto da rendere contemporaneo lo stile dell’Ellade primitiva.
NOTIZIE UTILI
Dove: Roma, nuova sede della Galleria W.Apolloni, Via Margutta 53B
Vernissage: venerdì 27 ore 18.00
Quando: dal Venerdì 27 ottobre, ore 18.00 al 23 dicembre 2017

CATALOGO: Io sono Cambellotti

Marisa Mori – Pittrice futurista lirica volante

Marisa Mori

Pittrice futurista lirica volante

A torino in occasione della fiera d’arte Flash Back

Pala Alpitour|Isozaki – Torino

Ingresso unico Piazza d’armi

Da Giovedì 2 Novembre a Domenica 5 Novembre 2017

Orario: 11.00 – 20.00

Marisa Mori.

Autoritratto, 1930

Olio su tavola, c/c 44×51

Disegni e sculture del ‘900

20 settembre – 1 ottobre 2017

Disegni e sculture del ‘900

 

Piazza san Felice, 10

50125 – Firenze

 

Aperta tutti i giorni

9.00 – 19.00

Disegni smisurati, ovvero cartoni, prodromi di affreschi e vetrate del primo ‘900 italiano, quando il disegnare era ancora la prima condizione necessaria del fare arte. Grandi veline di regime, carte da ricalco per i grandi murali di Mario Sironi, bozzetti dei grandi mosaici pensati da Gino Severini, o figure klimtiane del misconosciuto Bargellini, fantasmi classici che ancora sfilano sulle pareti di ministeri, grandi banche e terme. Carte colorate, curve e spigoli agitati  dall’invenzione futurista di Giacomo Balla, nel piccolo spazio di paralumi, in una lettera travolgente dai caratteri moltiplicati e enfatizzati dall’entusiasmo per la nuova arte che voleva il futuro subito.
Un’antologia del disegno novecentesco al cui cospetto si stagliano eleganti sculture del novecento toscano, moderne, ma di gusto antico, come se nel bronzo  ancora avessero memoria delle fusioni del Rinascimento.

Alberto Martini dei Misteri, Mostra

Dopo il successo nei locali della Galleria del Laoocoonte, la mostra “Alberto Martini dei Misteri” sarà ospitata alla Galleria W. Apolloni in via del Babuino 132-134.

Di Alberto Martini (Oderzo 1876 – Milano 1954) saranno esposte oltre ad alcune tavole per i racconti di Edgar Allan Poe, le belle litografie, studi per illustrazioni, come quelle realizzate per La Lettura del Corriere della Sera, ed infine uno dei suoi più affascinanti autoritratti giovanili, un vero e proprio capolavoro di maestria della penna che immortala l’artista come il dandy decadente per eccellenza, o piuttosto per inarrivabile eleganza.

Il Poema delle Ombre

Il libro o poema delle ombre è un’opera misteriosa eseguita da Alberto Martini nel 1904 e continuata ancora nel 1909-10. Forse doveva illustrare un poema o addirittura un testo teatrale di cui però non abbiamo traccia se non la sintetica lista di un enigmatico sommario che rende ancora più misteriosa la funzione delle illustrazioni. Un coro muto di maschere ci guarda. C’è Venezia e il suo carnevale, ma ci sono maschere di congiurati, forse di ladri e di assassini, ma anche voluttuose maschere femminili velate che fanno pensare a congiure d’altro genere, a segreti convegni, a baci tra amanti ignoti gli uni a gli altri, ad una Venezia notturna tra Casanova e la marchesa Casati.

Il Poema delle Ombre, 1904-10, china acquarellata su carta, 15 x 19.
William Wilson, 1936, china su cartoncino, cm 26×37

Il Poema delle Ombre, 1904 – 1910, china acquerellata su carta, cm 19.4×15.2

Duilio Cambellotti a Sabaudia – dal 19 maggio al 16 luglio 2017

Duilio Cambellotti

Una mostra della Galleria del Laocoonte di Roma

A Sabaudia, presso il Museo Emilio Greco

Sala espositiva – Piazza comunale – Corte del Comune

prorogata fino al 16 Luglio 2017

 

Maggio
da Lunedì a Venerdì h 16.00-19.00
Sabato e Domenica h 10.00-13.00 / 16.00-19.00


Giugno
da Lunedì a Venerdì h 17.30-20.30
Sabato e Domenica h 10.00-13.00 / 17.30-20.30


Luglio
da Lunedì a Domenica h 19.00-23.00

 

Mostra a cura di Marco Fabio Apolloni e Monica Cardarelli

Quello invece che ho visto un po’ meglio… è La redenzione dell’Agro che sta in prefettura a Latina, nel grande salone di rappresentanza. Adesso lì ci si riunisce il consiglio provinciale, ma quella volta ci stava ancora il prefetto e ci eravamo andati tutti e mille in tuta blu lì sotto, nella piazza, a urlare e strombettare perché erano quattro mesi che non ci pagavano. Fu lui che ci fece salire su – «Solo il Consiglio di fabbrica, però» – e noi entrammo e vedemmo quell’affare. Tutti con gli occhi in alto stavamo, tutti zitti senza neanche più ricordare – per qualche minuto – perché ci eravamo venuti. Poi Palude disse: «Ahò!», mi diede una strattonata, ci riscotemmo e cominciammo a argomentare.

 

Antonio PENNACCHI, dall’introduzione del Catalogo dell Mostra, Duilio Cambellotti, 19 maggio – 2 luglio 2017.

 

La Galleria del Laocoonte di Roma presenta a Sabaudia una copiosa raccolta di opere di Duilio Cambellotti (Roma 1876-1960), artista di schietta e programmatica romanità, che padroneggiando ogni tecnica e materiali, fu poliedrico ed eclettico creatore di sculture di bronzo, legno, pietra e terracotta,di medaglie, di pitture murali, di vetrate, di maioliche, di incisioni e xilografie, di mobili e arredi. Fu anche scenografo, costumista, “metteur en scène”, soprattutto per il teatro classico a Siracusa e ad Ostia, ma anche per il cinematografo, dagli inizi del muto fino al neorealismo del dopoguerra.

Il suo primo trionfo artistico, del resto, fu l’allestimento della prima rappresentazione de “La Nave” di Gabriele d’Annunzio, nel 1908. Fu anche creatore di manifesti come quello per l’Esposizione Internazionale di Roma del 1911, ed illustratore di numerosissimi libri. In mostra sarà la lussuosa edizione delle favole di Trilussa dalla copertina figurata in tessuto colorato, ricca come un piccolo arazzo.

L’arte che non praticò mai fu la pittura da cavalletto destinata agli amatori privati. Infatti fu un fedele seguace dell’ideologia umanitaria di William Morris, e concepì sempre la sua arte come opera di divulgazione popolare, come educazione al bello per le masse, e all’inverso,impose al gusto contemporaneo eleganti idealizzazioni di oggetti rustici – mobili, maioliche – che potessero rendere consapevole il pubblico borghese dell’atavica bellezza degli strumenti del lavoro contadino.

Il suo amore per l’Agro Romano e Pontino lo portarono a studiare gli alberi e le piante, gli animali, i paesaggi, le abitazioni, le genti ed i costumi della campagna attorno a Roma, per conservarne il ricordo in forme artisticamente stilizzate e inconfondibili, diffondendone le immagini al fine di sensibilizzare la società sulle condizioni di arretratezza, fatica, miseria e malattia in cui vivevano i contadini dei latifondi malarici. Con Giovanni Cena, Giacomo Balla, Sibilla Aleramo e Alessandro Marcucci fu attivo per promuovere le scuole per i figli dei contadini a cui prestò la propria opera di decoratore in edifici in cui il rustico artistico delle cose familiari accogliesse i bambini in ambienti pratici e salubri. L’osservazione degli usi atavici lo portò a studiare la Roma antica delle origini, in un tempo in cui gli scavi al Foro e al Palatino ne portavano alla luce resti e memorie. Nelle “Leggende Romane”, prima tempere e poi xilografie a cui lavorò tutta la vita, Cambellotti creò un neoclassicismo tutto suo, espressionista e rustico. Cambellotti, socialista umanitario, moderato e pacifista sempre, resuscitò la simbologia romana del fascio, dell’aquila e della lupa molto prima dell’avvento del fascismo, che quando venne se ne impadronì trovandosi un repertorio simbolico già bello e fatto.

Illustratore di propaganda nella Prima Guerra Mondiale, creatore di singolari monumenti ai caduti nel primo dopoguerra – Terracina, Priverno – Cambellotti fu anche coinvolto nell’opera delle nuove città di fondazione della Bonifica Pontina. Sua la smisurata pittura murale con la “Conquista della Terra” che orna il palazzo della prefettura di Latina.

Terracina era infatti la sua residenza estiva, dove abitava la pittoresca Torre Frangipane, dall’alto della quale- come si vede in mostra – ha immortalato un volo di rondini in uno splendido disegno in cui le volanti messaggere della primavera si librano alte e grandissime al di sopra dei tetti del paese minuscoli e lontani.

In mostra i gessi originali di due delle tre Dolenti del Monumento ai Caduti di Terracina, uno splendido bronzo de “La Corazza” celebrazione dell’antico guerriero contadino italico, un gesso di leonessa, un commovente presepe di terracotta magistralmente dipinto. Delle “Leggende Romane” la tempera più antica del Ponte Sublicio e tre altre leggende, Marte, Orazio Coclite e l’Origine del Campidoglio, stampate da Cambellotti in vita. Acquarelli e disegni preparatori per la casa dei Mutilati di Siracusa, dove i soldati feriti sono tramutati in dolorosi tronchi potati carichi d’armi.

La xilografia di Terracina bombardata e il suo disegno preparatorio, “La Legnara”, che fa parte di un poema iconografico dedicato al Circeo e alla navigazione antica. Manifesti e tempere preparatorie per le tragedie greche messe in scena a Siracusa. Una serie di medaglie di bronzo con le relative preparazioni in gesso e cera mostrano a qual punto alta fosse la maestria di Cambellotti in quest’arte nella quale egli fu davvero un Cellini del XX secolo. Un cartone di vetrata, per l’oculo della facciata del Duomo di Teramo, mostra una Vergine tra gli angeli circondata di fiori come una donna Liberty.

Numerose le piccole illustrazioni per libri che mostrano la sapienza grafica di Cambellotti disegnatore, non solo di tavole, ma anche di vignette testate e finalini, una maniera di adornare il libro in ogni sua parte affinché quella dell’artista fosse pari a quella dell’autore del libro. E in ciò fu superiore, di molti libri avremmo perduto la memoria se non vi fossero le figure di Cambellotti a renderli preziosi.

Il Catalogo a cura di Monica Cardarelli e Marco Fabio Apolloni, (De Luca Editori d’Arte), è introdotto da uno scritto di Antonio Pennacchi, l’epico romanziere di “Canale Mussolini”, e si avvale della collaborazione di Anna Maria Damigella, Francesco Parisi e Francesco Tetro.

Duilio Cambellotti, Le Furie. Studio per il manifesto dell’Edipo a Colono, 1936, tempera su carta.
Duilio Cambellotti, Le Rondini. Terracina, inchiostro e tempera su carta..

Alberto Martini, Il Poema delle Ombre in mostra a Roma

Dopo il successo della mostra Maschere del ‘900, la Galleria del Laocoonte ha deciso di non smontare l’esposizione del Poema delle Ombre di Alberto Martini, affiancando ad esso una scelta di opere dello stesso artista. Di Alberto Martini (Oderzo 1876 – Milano 1954) saranno esposte oltre ad alcune tavole per i racconti di Edgar Allan Poe, le belle litografie, studi per illustrazioni, come quelle realizzate per La Lettura del Corriere della Sera, ed infine uno dei suoi più affascinanti autoritratti giovanili, un vero e proprio capolavoro di maestria della penna che immortala l’artista come il dandy decadente per eccellenza, o piuttosto per inarrivabile eleganza.

Il Poema delle Ombre

Il libro o poema delle ombre è un’opera misteriosa eseguita da Alberto Martini nel 1904 e continuata ancora nel 1909-10. Forse doveva illustrare un poema o addirittura un testo teatrale di cui però non abbiamo traccia se non la sintetica lista di un enigmatico sommario che rende ancora più misteriosa la funzione delle illustrazioni. Un coro muto di maschere ci guarda. C’è Venezia e il suo carnevale, ma ci sono maschere di congiurati, forse di ladri e di assassini, ma anche voluttuose maschere femminili velate che fanno pensare a congiure d’altro genere, a segreti convegni, a baci tra amanti ignoti gli uni a gli altri, ad una Venezia notturna tra Casanova e la marchesa Casati.

Macbeth atto V, 1910, china su cartoncino, cm 36 x 25,5
Il Poema delle Ombre, 1904-10, china acquarellata su carta, 15 x 19.
Le yovevr d’echecs de maetzel, 1914, china su cartoncino, cm 25,8×18
William Wilson, 1936, china su cartoncino, cm 26×37

Il Poema delle Ombre, 1904 – 1910, china acquerellata su carta, cm 19.4×15.2

Bologna – Clerici – Omaggio a Savinio – dal 19 al 28 marzo 2017

CLERICI: Omaggio a Savinio

Una mostra della Galleria del Laocoonte di Roma

A Bologna, presso la Galleria Fondantico di Tiziana Sassoli

via de’ Pepoli, 6E

dal 19 al 28 Marzo 2017

h 10.00-13.00 16.00-19.00

 

Mostra a cura di Marco Fabio Apolloni e Monica Cardarelli

I 39 disegni originali che hanno dato vita a quel capolavoro del divertissement culturale di Fabrizio Clerici che è Alle cinque da Savinio, è oggetto di una preziosa esposizione a cura di Marco Fabio Apolloni e Monica Cardarelli fondatori della Galleria del Laocoonte che sarà ospitata nella prestigiosa Galleria Fondoantico di Tiziana Sassoli in via de’ Pepoli, 6E.

I disegni, tracciati a mano libera, quasi sempre con un pennarello rosso fine, vengono proposti in mostra accanto ad una attenta selezione di opere di Alberto Savinio. Tra esse, Maria Antonietta e Luigi XVI, disegno per una delle tavole dei Processi Celebri, un Tiresia monocolo dallo scaligero Oedipus rex di Strawinskij, un’acquarello di Poltromamma ed ancora, un disegno preparatorio per un Ritratto di Signora con testa d’uccello dal becco a spatola.

La mostra, rievocando la celebre pubblicazione affidata nel 1983 all’edizione di Franca May, fa rivivere l’amicizia fra Savinio e Fabrizio Clerici che di quel volume illustrato fu l’autore delle tavole e il committente. L’arte di Clerici sarà presente in mostra anche con il suo dipinto Il sogno di Lessing, dedicato, non a caso, al Laocoonte. Con questa citazione infatti si inanella un ciclo, perché è oggi la Galleria romana del Laocoonte a conservare 39 tavole dell’omaggio a Savinio qui esposte.

Fabrizio Clerici, con un naso così importante e nobilmente adunco, poteva sembrare a prima vista un rapace, ma bastava ascoltare la sua voce educata, i suoi discorsi raffinati in cui erano spesso incastonate, nel suo italiano di milanese vissuto a Roma sin da bambino, qua e là parole e frasi francesi, per capire che egli non era uccello da preda, ma piuttosto un distintissimo trampoliere, una gru, un airone, a cui madre natura aveva dato per sopravvivere il dono supremo dell’eleganza e lunghe gambe dall’alto delle quali poter osservare la bassa corte in cui razzoliamo noi bipedi ordinari.

Così quando quest’artista surreale e metafisico, nel 1983, fece stampare presso le edizioni di Franca May, il volume di illustrazioni “Alle Cinque da Savinio”, con prefazione di Leonardo Sciascia, tutti videro, nel repertorio ornitologico in 48 tavole, in cui uccelli di ogni razza interpretavano come in “tableaux vivants” le scene di vita quotidiana e le cerimonie di un’umanità borghese ormai scomparsa, un esercizio estremo nel genere dell’autoritratto: non nel rappresentare se stessi, ma tutti gli altri come se stessi.

Eppure non sappiamo se Fabrizio Clerici fosse cosciente di questo risultato. Il pittore, lo scrittore a cui l’omaggio è dedicato, Andrea De Chirico (Atene 1891 – Roma 1952) in arte e per i posteri ormai Alberto Savinio, invece lo sapeva. Quando ritrasse se stesso si rappresentò – si vide – con una testa di civetta su di un corpo umano, caro ad Atena Dea dell’intelletto e simbolo del notturno studio. E dalle favole di Esopo fino alle Scene della Vita degli Animali di Grandville, rappresentare gli uomini come bestie è sempre stata arte di caricatura e satira sociale. Satira garbata, di un borghese che mette in caricatura i borghesi pari suoi, ma pur sempre caricatura, che è come dice il nome, mettere in ciò che si rappresenta di più di ciò che gli occhi vedono. Meglio, nel caso di Savinio, vedere la vera immagine della persona al di là degli ingannevoli tratti somatici umani: così anche la Madonna dell’Annunciazione può divenire uno struzzo o un uccello dal becco a scarpa, un’elegante Signora con Ventaglio un casuario o una papera, un eroe classicamente nudo portare sopra il collo la testa di un gallo o di un germano reale. Forse gli uccelli, se si potessero vedere così, se ne potrebbero avere a male, ma non la borghesia per la quale Savinio dipingeva, quando ancora si facevano ritratti “seri” di Signore con Ventaglio o quando il Duce del Fascismo poteva venir rappresentato seriamente nudo come un eroe grecoromano.

Fabrizio Clerici (Milano 1913 – Roma 1993) è stato l’ultimo surrealista, l’ultimo metafisico, non tanto d’Italia, ma di una cosmopoli elegante che ha esalato il suo canto del cigno prima del ’68, prima dell’ineluttabile volgarità trasversale di massa che tutto ha travolto sotto la mascheratura delle provocazioni d’avanguardia. “Il Minotauro che accusa sua Madre”, “Il Sonno Romano”, “Le Confessioni palermitane”, sono da considerarsi ancor’oggi, e forse oggi ancora di più, dei legittimi capolavori. Da Savinio lo separavano ventidue anni, eppure con Savinio ebbe tra guerra e dopoguerra un sodalizio di cui rimane concreta testimonianza scritta in “Ascolto il tuo cuore città” (1944), passeggiata e divagazione letteraria in giro per Milano in cui il giovane Clerici è continuamente evocato come compagno e deuteragonista – cioè secondo attore. Due anni prima, un’introduzione di Savinio aveva accompagnato dieci litografie di “Capricci”, che lo scrittore afferma in modo lusinghiero doversi guardare “col terzo occhio che al dire degli stoici ci portiamo al sommo del cervello, e col quale guardiamo i sogni”.

Trent’anni dopo la morte dell’amico, Clerici si divaga di un’inverno di malattia riempiendo un piccolo album di Scene di Vita di Volatili borghesi, ritratti alla maniera di Savinio, spesso in camere e sale metafisicamente spoglie, impegnati nella liturgia sociale di una belle époque che par precedere la prima guerra mondiale. Un tempo lontanissimo che però Savinio aveva vissuto, cantato in prosa ne “L’Infanzia di Nivasio Dolcemare”, e trasfigurato nei suoi quadri ritraendo in modo visionario le vecchie foto della sua famiglia dove i genitori si trasformano in confortevoli poltrone da salotto.

Maschere del ‘900

MASCHERE DEL ‘900

dal 5 al 28 febbraio

presso i locali della Galleria

Gino Severini e le sue maschere geometricamente disegnate, Corrado Cagli, un capolavoro giovanile di Aligi Sassu, una rara mascherina di bronzo di Roberto Melli del 1913, già esposta alla Secessione Romana, sono tra le cose più notevoli di questa mostra sul tema della maschera, dei personaggi della commedia dell’arte, del canevale nell’arte del ‘900 italiano. E’ un repertorio dove i maggiori si mescolano allegramente, come in un veglione appunto, ai piccoli maestri, il solenne con il grazioso, lo scherzo con la mascherata tragica come nel caso della splendida illustrazione di Alberto Martini per il racconto di Poe “Hop Frog”. Vi sono anche le melanconiche maschere romanesche di Angelo Urbani del Fabbretto, guitti in bolletta e infreddoliti. Oppure una piazza San Mrco tutta in maschera, una pittura di quasi quattro metri del poco noto Ugo Rossi, che ornava la sala da ballo di un lussuoso transatlantico del dopoguerra.

 

IL LIBRO DELLE OMBRE: LE MASCHERE NERE DI ALBERTO

 

Il pezzo forte della mostra “Maschere del ‘900” è la presentazione della serie di disegni a china su carta di Alberto Martini che compongono il ciclo “Venezia. Il Libro delle Ombre”, ideato dall’artista tra il 1909 e il 1910 sul tema della maschera. Galanti maschere veneziane, ma anche maschere come ne portavano i ladri e i personaggi del mistero nei romanzi d’appendice, i clienti di case equivoche che nascondevano il volto per poter con sicurezza esporre il corpo nudo alle perversione del caso. Mascherine, ma anche larve, secondo l’antico e desueto sinonimo che accomuna le maschere ai fantasmi. Alberto Martini si conferma in questa serie il  ”mago del bianco e nero”, straordinario interprete e traduttore del bizzarro. Le sue “Maschere” sono fluide macchie, ideogrammi di un misterioso enigma.

Alberto Martii -

Artisti presenti in mostra:

Alberto Martini

Corrado Cagli

Oscar Ghiglia

Gino Severini

Mino Maccari

Enrico Sacchetti

Urbani del Fabretto

Aligi Sassù

Ugo Rossi

Mario Pompei

CARTONI! Disegni smisurati del ‘900 italiano

CARTONI! Disegni smisurati del ‘900 italiano

 

Dal 25 al 31 gennaio 2017

 

Bologna Chiesa di S. Maria del Buon Pastore.

Il cartone, com’è noto, è un disegno grande quanto l’opera o la parte di opera che l’artista intende realizzare. Debba essere questa un quadro, un affresco, una vetrata, un mosaico o un arazzo, il cartone è una realizzazione necessaria affinché l’opera sia portata a termine dall’artista stesso o dalle maestranze
specializzate che devono materialmente compierla.

Non deve stupire dunque che nel ‘900 italiano, legato al ritorno alle tecniche di decorazione antiche e tradizionali, sopravvivano questi grandi fogli su cui l’ispirazione dell’artista, già spesa in studi, schizzi, modelli e bozzetti, ha saputo trovare finalmente la vera misura e le linee definitive della forma del proprio lavoro.

Certo, tracciare sull’intonaco o la tela il disegno è solo il principio dell’opera quando essa è pittura, mentre il cartone per mosaico o arazzo è spesso già colorato dal pittore e dunque “finito” per ciò che lo riguarda. In ogni caso dopo il cartone è raro che l’artista abbia pentimenti e che dunque vi siano grandi differenze rispetto al risultato definitivo. E’ dunque il cartone l’ultimo luogo delle incertezze, dei ripensamenti, dei cambiamenti improvvisi in corso d’opera. Sono le cancellature, le correzioni, ciò che rendono il cartone una sorta di sindone di carta di tutta la passione e le sofferenze di un artista nel
corso della creazione del proprio capolavoro. E’ questa qualità del cartone in cui l’opera d’arte e il documento di lavoro si confondono che costituiscono la sua maggiore attrattiva. Se imperturbabile nella sua durevolezza è il buon fresco, brillante il mosaico, splendente la vetrata, il cartone invece non mostra solo gli accidenti occorsi durante la lavorazione, ma il tempo anche lo rende fragile come un antico documento autografo. Da qui la sua preziosità, la  reverenza con cui esso va trattato e mostrato.

La Galleria del Laocoonte di Roma ha adunato più di una ventina di cartoni di maestri del ‘900 italiano,
rastrellati dal mercato dell’arte o direttamente dagli eredi degli artisti, per costituire una sorta di pinacoteca di “disegni smisurati” per dimostrare l’alto livello dell’esercizio del disegnare nella prima metà del secolo scorso.

Si va dal dannunziano Adolfo De Carolis di cui si espone il grande foglio preparatorio del dipinto primavera (1903) ad una monumentale figura di Mario Sironi che pare scolpita nella roccia a colpi di grafite. Del poliedrico Duilio Cambellotti è esposto il cartone per il rosone realizzato in vetri colorati per la Cattedrale di Teramo, oltre a due disegni preparatori per i manifesti del film Fabiola, peplum cristiano che fu uno dei primi kolossal italiani del immediato dopoguerra. Due maestosi cartoni per gli affreschi dello scalone del palazzo dell’INA a Roma – ora proprietà dell’Ambasciata Americana – sono opera del quasi dimenticato Giulio Bargellini (Firenze 1875- Roma 1936), frescante instancabile
di terme, banche e ministeri dove andò traducendo in italiano le archeologie viventi di Alma Tadema e le bellezze femminili che Klimt aveva trasformato in sontuose carte da parati. Di questo artista la Galleria del Laocoonte sta preparando una grande mostra e il catalogo generale delle opere.

Achille Funi (Ferrara 1890 – Appiano Gentile, Como 1972) non è stato solo un formidabile frescante ma un restauratore in chiave moderna dell’arte di Giotto e Piero della Francesca con l’intento di ridar vita nell’Italia contemporanea alla storia antica, al medioevo e al rinascimento, raccontandola ai contemporanei come una favola mitologica. Naturale che egli qui abbia la parte del leone, con due schiere di soldati romani disegnati per il Martirio di S.Giorgio per la chiesa omonima a Milano in via Torino, le figure di Didone e della sorella Anna per la sala dell’Eneide, affresco effimero eseguito per la Triennale di Monza del 1930, una Zuffa di Cavalieri nella “Battaglia” di Legnano per la Sala Consiliare del Municipio di Bergamo ed infine la Vergine annunciata, cartone colorato a pastello per la pittura della chiesa di San Francesco a Tripoli, in cui ha raffigurato la propria allieva e amante Felicita Frai.

Di Gino Severini è una Madonna con Bambino per la Cattedrale di Losanna. Di Galileo Chini una delle virtù, che ornavano il Padiglione delle Esposizioni della Biennale di Venezia. Il cartone di carta lucida, perforato per il trasferimento a spolvero, ha assunto con il tempo l’aspetto di un’antica pergamena,
mentre la figura, i cui contorni sono definiti dalla polvere di carboncino rimasta nei fori, ha l’aspetto di un apparizione irreale.

Publio Morbiducci  (1889-1963), l’autore del Monumento al Bersagliere a Porta Pia, è l’autore di una serie di disegni con trionfi di spoglie militari in cui le armi dell’antichità classica sono commiste con quelle moderne dell’ultima guerra. Erano per grandi pannelli in vetro smerigliato, ma la sconfitta di quelle armi stesse venne prima della realizzazione finale. Del calabrese Achille Capizzano, autore tra l’altro di alcuni mosaici del Foro Italico, sono presentate due scene dalla divina Commedia ispirate ad antiche xilografie.

Infine di Ottone Rosai è un Giovinetto Crocifisso sospeso quasi a grandezza naturale su un vasto foglio, in cui il rovello del disegno per rendere l’anatomia del corpo si traduce in un’apparenza espressionista di grande pathos, in cui l’immagine sacra è anche sacra rappresentazione della propria tormentata omosessualità.

Marco Fabio Apolloni

Artisti rappresentati in mostra:

Sironi Mario

Severini Gino

Savinio Alberto

Cambellotti Duilio

Funi Achille

Bargellini Giulio

Morbiducci Publio

Capizzano Achille

De Carolis Adolfo

Chini Galileo

CLERICI – Omaggio a Savinio

Clerici – Omaggio a Savinio

Innaugurazione venerdì 16 dicembre 2016 dalle 18:00

Orari: Lunedì 15.00-19.00; dal martedì al venerdì 10.00-13.00 / 15.00-19.00; sabato 10.00-13.00

Presso i locali della galleria

Con un naso così importante e nobilmente adunco come il suo, Fabrizio Clerici poteva sembrare solo a prima vista un rapace, ma bastava ascoltare la sua voce educata, i suoi discorsi raffinati in cui erano spesso incastonate, nel suo italiano di milanese vissuto a Roma sin da bambino, qua e là parole e frasi francesi, per capire che egli non era uccello da preda, ma piuttosto un distintissimo trampoliere, una gru, un airone, a cui madre natura aveva dato per sopravvivere il dono supremo dell’eleganza e lunghe gambe dall’alto delle quali poter osservare la bassa corte in cui razzoliamo noi bipedi ordinari.

Così quando quest’artista surreale e metafisico, nel 1983, fece stampare presso le edizioni di Franca May, il volume di illustrazioni “Alle Cinque da Savinio”, tutti videro, nel repertorio ornitologico in 48 tavole, in cui uccelli di ogni razza interpretavano come in “tableaux vivants” le scene di vita quotidiana e le cerimonie di un’umanità borghese ormai scomparsa, un esercizio estremo nel genere dell’autoritratto: non nel rappresentare se stessi, ma tutti gli altri come se stessi. Eppure non sappiamo se Fabrizio Clerici fosse cosciente di questo risultato. Il pittore, lo scrittore a cui l’omaggio è dedicato, Andrea De Chirico (Atene 1891 – Roma 1952) in arte e per i posteri ormai Alberto Savinio, invece lo sapeva. Quando ritrasse se stesso si rappresentò – si vide – con una testa di gufo su di un corpo umano, caro ad Atena Dea dell’intelletto, simbolo del notturno studio, ma pur sempre gufo. E dalle favole di Esopo fino alle Scene della Vita degli Animali di Granville, rappresentare gli uomini come bestie è sempre stata arte di caricatura e satira sociale. Satira garbata, di un borghese che mette in caricatura i borghesi pari suoi, ma pur sempre caricatura, che è come dice il nome, mettere in ciò che si rappresenta di più di ciò che gli occhi vedono. Meglio, nel caso di Savinio, vedere la vera immagine della persona al di là degli ingannevoli tratti somatici umani: così anche la Madonna dell’Annunciazione può divenire uno struzzo o un uccello dal becco a scarpa, un’elegante Signora con Ventaglio un casuario o una papera, un eroe classicamente nudo portare sopra il collo la testa di un gallo o di un germano reale. Forse gli uccelli, se si potessero vedere così, se ne potrebbero avere a male, ma non la borghesia per la quale Savinio dipingeva, quando ancora si facevano ritratti “seri” di Signore con Ventaglio o quando il Duce del Fascismo poteva venir rappresentato seriamente nudo come un eroe grecoromano.

Fabrizio Clerici (Milano 1913 – Roma 1993) è stato l’ultimo surrealista, l’ultimo metafisico, non tanto d’Italia, ma di una cosmopoli elegante che ha esalato il suo canto del cigno prima del ’68, prima dell’ineluttabile volgarità trasversale di massa che tutto ha travolto sotto la mascheratura delle provocazioni d’avanguardia. “Il Minotauro che accusa sua Madre”, “Il Sonno Romano”, “Le Confessioni palermitane”, sono da considerarsi ancor’oggi, e forse oggi ancora di più, dei legittimi capolavori. Da Savinio lo separavano ventidue anni, eppure con Savinio ebbe tra guerra e dopoguerra un sodalizio di cui rimane concreta testimonianza scritta in “Ascolto il tuo cuore città” (1944), passeggiata e divagazione letteraria in giro per Milano in cui il giovane Clerici è continuamente evocato come compagno e deuteragonista – cioè secondo attore. Due anni prima, un’introduzione di Savinio aveva accompagnato dieci litografie di “Capricci”, che lo scrittore afferma in modo lusinghiero doversi guardare “col terzo occhio ancora che al dire degli stoici ci portiamo al sommo del cervello, e col quale guardiamo i sogni”.

Trent’anni dopo la morte dell’amico, Clerici si divaga di un’inverno di malattia riempiendo un piccolo album di Scene di Vita di Volatili borghesi, ritratti alla maniera di Savinio, spesso in camere e sale metafisicamente spoglie, impegnati nella liturgia sociale di una belle époque che par precedere la prima guerra mondiale. Un tempo lontanissimo che però Savinio aveva vissuto, cantato in prosa ne “L’Infanzia di Nivasio Dolcemare”, e trasfigurato nei suoi quadri ritraendo in modo visionario le vecchie foto della sua famiglia dove i genitori si trasformano in confortevoli poltrone da salotto.

Una volta Fabrizio Clerici mi portò all’hotel Ambasciatori di Roma, costruito da suo padre nel 1927; fu infatti il padre, Gino, a chiamare Guido Cadorin per affrescare il salone da ballo. Tra gli ospiti dipinti in festa, vestiti come per un invito del Grande Gatsby, mi indicava suo padre sua madre e un bambino vestito alla marinara: “Non sono io, è mio fratello Gustavo, più grande di me. Ero troppo piccolo per posare.” Quella era la sua belle époque.

La Galleria del Laocoonte ha acquistato l’album dei disegni originali di “Alle cinque da Savinio”, 39 disegni tracciati a mano libera, quasi sempre con un pennarello rosso fine, e li esporrà a partire dal 16 dicembre nelle proprie sale di via Monterone 13 e 13 a. Accompagnano la mostra alcune opere di Alberto Savinio: “Maria Antonietta e Luigi XVI”, disegno per una delle tavole dei “Processi Celebri”, il disegno originale e due litografie per “Loterie clandestine” del 1948, un’acquarello di “Poltromamma” e un disegno preparatorio per un “Ritratto di Signora con testa d’uccello dal becco a spatola”. Di Clerici si espone anche un dipinto “Il sogno di Lessing”, dedicato al Laocoonte.

 

Marco Fabio Apolloni

Cartoni!

Dal 30 settembre al 30 novembre 2016

Artisti rappresentati in mostra:

Sironi Mario

Severini Gino

Savinio Alberto

Cambellotti Duilio

Funi Achille

Bargellini Giulio

Morbiducci Publio

Capizzano Achille

De Carolis Adolfo

Chini Galileo

La Laocoonte di Lea Monetti

LA LAOCOONTE DI LEA MONETTI

A CURA DELLA GALLERIA DEL LAOCOONTE

 

DOPO L’ESPOSIZIONE AD ARTE FIERA 2016 DI BOLOGNA LA MOSTRA VIENE INAUGURATA NEI LOCALI DELLA GALLERIA

INAUGURAZIONE MARTEDÌ 8 MARZO 2016 ORE 18:00

 

Orari: Dal martedì al sabato – 10.00-13.00/ 15.30-19.30
Ingresso gratuito

 

L’ESPOSIZIONE

In occasione del prossimo 8 marzo verrà presentata, presso la Galleria del Laocoonte di Roma, una eccezionale opera d’arte in bronzo, creata dalla scultrice Lea Monetti. Frutto di una meditazione sulla scultura che dà il nome alla galleria, variante manierista del famoso gruppo antico del Vaticano, vertice estremo dell’arte della scultura e pietra di paragone di ogni eccellenza, l’artista contemporanea, scultore fedele alla mimesi figurativa, ha osato creare “La Laocoonte” o “Laocoonte Madre”, una versione tutta femminile del famoso marmo ellenistico.

 

Come il Laocoonte antico è stato portato alla luce dal sottosuolo, “La Laocoonte” è scaturita dal profondo dell’artista che, affrontando una sfida al limite del possibile, rischiosa per la propria immagine di artista e di donna, ha saputo trovare in sé le forze per trionfare sulle innumerevoli difficoltà tecniche, raggiungendo un’intensità di ispirazione che pone l’opera realizzata al sicuro da ogni accusa di facile parodia. Ritornando anzi al senso originario della parola greca, “La Laocoonte” è davvero una parodia, letteralmente, “un canto nuovo”, celebrazione nuova di un mito antichissimo, da un punto di vista tutto diverso: quello della donna, della madre e dell’artista donna e madre che difende le proprie figlie, le proprie creazioni, contro ogni difficoltà, contro l’invidia e la cattiveria degli Dei.

 

Secondo questa allegoria sussurrata dall’inconscio direttamente alle sue mani, Lea Monetti non poteva fare della propria “Laocoonte” altro che una madre trionfante: la sua madre antica resiste ai serpenti, trovando nella compassione per le sue creature la risorsa di una forza straordinaria così come alle madri ordinarie capita, toccando vertici di energia miracolosa, in casi di pericolo estremo. “La Laocoonte” non guarda al cielo sprecando il proprio sguardo tragico in un’inutile ricerca di divinità da impietosire, ma guarda alla sofferenza di una delle figlie e in essa trova la sovrumana sollecitudine che la spinge a liberarsi del mortale groviglio che la vorrebbe soffocare e uccidere.

 

L’opera nasce da un’idea suggerita all’artista da Marco Fabio Apolloni, antiquario, critico d’arte e scrittore, fondatore, assieme a sua moglie Monica Cardarelli, della “Galleria del Laocoonte” di Roma, una galleria specializzata in arte figurativa italiana del primo Novecento, in cui sono ammessi ad esibire solo pochi artisti contemporanei capaci di misurarsi in modo originale con la tradizione classica della civiltà artistica del nostro paese.

 

Come già accennato, la galleria prende il proprio nome e la propria linea ispiratrice dalla presenza nei suoi locali di una grande scultura marmorea raffigurante il Laocoonte, una versione manierista del gruppo classico del fiorentino Vincenzo de’ Rossi (1525-1587), autore delle “Fatiche d’Ercole esposte nel Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio.

 

E’ infatti a Firenze, a Palazzo Medici Riccardi dov’era in corso una personale della scultrice, nell’aprile del 2013, che Marco Fabio Apolloni ha incontrato per la prima volta Lea Monetti, e dove, colpito dalla potenza delle sculture di lei e forse dalle antiche suggestioni di un luogo tanto importante per il Rinascimento italiano – qui Michelangelo ragazzo studiava sotto lo sguardo benevolo di Lorenzo il Magnifico – le ha subito proposto di creare per lui e la propria galleria una Laocoonte donna.

 

Lea Monetti ha accettato la commissione con un entusiasmo sempre crescente, creando di furia i primi bozzetti e affrontando una lunga elaborazione dell’opera finale che è stata poi finalmente fusa a Pietrasanta nell’estate del 2015.

 

Il gruppo bronzeo è una figura terzina, cioè grande un terzo del vero e in galleria si espone la prova d’artista, patinata all’antica. Dell’opera saranno prodotti solo otto esemplari, ognuno con una patina diversa – ad esempio: color terracotta, terracotta policroma, bianco marmo, patina scura e oro – così da rendere ciascun pezzo assolutamente unico. Solo a titolo esemplificativo sono esposti dei calchi patinati per rendere l’idea del futuro prodotto finito.

 

Assieme alla scultura saranno esposti anche i bozzetti che hanno portato alla sua realizzazione e una viva testa della Laocoonte, ritratto della Madre, per la quale Lea Monetti ha preso ispirazione scegliendo per soggetto, ma trasfigurandola, la mobile fisionomia di Claudia Contin, famosa come interprete della maschera di Arlecchino, unica donna, sulle scene di tutto il mondo.

La Laocoonte di Lea Monetti - INVITO INAUGURAZIONE 8 MARZO

La Laocoonte

ARTEFIERA 2016

Ad Arte Fiera 2016 verrà presentata un’eccezionale opera d’arte in bronzo, creata dalla scultrice Lea Monetti: “La Laocoonte” o “Laocoonte Madre”, una versione femminile del famoso gruppo marmoreo ellenistico scoperto a Roma nel 1506 e conservato ai Musei Vaticani.

Come il Laocoonte antico è stato portato alla luce dal sottosuolo, così “La Laocoonte” è venuta fuori dal profondo dell’artista che, affrontando una sfida al limite del possibile, rischiosa per la propria immagine di scultrice e di donna, ha saputo trovare in sé le forze per trionfare sulle innumerevoli difficoltà tecniche, raggiungendo un’intensità di ispirazione che pone l’opera infine realizzata al sicuro da ogni accusa di facile parodia. Ritornando anzi al senso originario della parola greca, “La Laocoonte” è una parodìa, letteralmente “un canto nuovo”, una nuova celebrazione di un mito antichissimo, da un punto di vista tutto diverso: quello della donna, della madre e dell’artista donna e madre che difende le proprie figlie, le proprie creazioni contro ogni difficoltà, contro l’invidia e la cattiveria degli Dei.

In questo senso, secondo questa allegoria sussurrata dall’inconscio direttamente alle sue mani, Lea Monetti non poteva non fare della propria “Laocoonte” altro se non una madre trionfante: la sua madre antica resiste ai serpenti trovando nella compassione per le sue creature la risorsa di una forza straordinaria così come alle madri ordinarie capita, toccando vertici di energia miracolosa, in casi di pericolo estremo. “La Laocoonte” non leva gli occhi al cielo sprecando il proprio sguardo tragico in un’inutile ricerca di divinità da impietosire, ma guarda alla sofferenza di una figlia e in essa vede ciò che la spinge a liberarsi del mortale groviglio che la vorrebbe soffocare e uccidere.

L’opera nasce da un’idea suggerita all’artista da Marco Fabio Apolloni, antiquario, critico d’arte e scrittore, fondatore, assieme a sua moglie Monica Cardarelli, della “Galleria del Laocoonte” di Roma, una galleria specializzata in arte figurativa italiana del primo Novecento, in cui sono ammessi ad esibire solo pochi artisti contemporanei capaci di misurarsi in modo originale con la tradizione classica della civiltà artistica del nostro paese.

La galleria prende il nome dalla presenza nei suoi locali di una grande scultura marmorea raffigurante il Laocoonte, una versione manierista del gruppo classico del fiorentino Vincenzo de’ Rossi (1525-1587), autore delle “Fatiche d’Ercole che sono nel Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio.

E’ infatti a Firenze, a Palazzo Medici Riccardi dov’era in corso una personale della scultrice, nell’aprile del 2013, che Apolloni ha incontrato per la prima volta Lea Monetti, e dove, colpito dalla potenza delle sculture di lei e forse dalle antiche suggestioni di un luogo tanto importante per il Rinascimento italiano, le ha subito proposto di creare per lui e la propria galleria una Laocoonte donna.

Lea Monetti ha accettato la commissione con un entusiasmo sempre più trascinante, creando di furia i primi bozzetti e affrontando una lunga elaborazione dell’opera finale che è stata poi finalmente fusa a Pietrasanta nell’estate del 2015.

Il gruppo bronzeo è una figura terzina cioè grande un terzo del vero e a Bologna si espone la prova d’artista, patinata all’antica. Dell’opera saranno prodotti solo otto esemplari, ognuno con una patina diversa – ad esempio: color terracotta, terracotta policroma, bianco marmo, patina scura e oro – così da rendere ciascun pezzo assolutamente unico.

Assieme alla scultura saranno esposti anche i bozzetti che hanno portato alla sua realizzazione e una formidabile testa della Laocoonte, ritratto della Madre per la quale Lea Monetti ha preso ispirazione scegliendo per soggetto, ma trasfigurandola, la mobile fisionomia di Claudia Contin, famosa come formidabile interprete della maschera di Arlecchino sulle scene di tutto il mondo.

Nel presentare l’arte di Lea Monetti a Bologna la Galleria del Laocoonte si è amichevolmente associata con la Galleria di Maurizio Nobile, da trent’anni incisiva presenza nel settore dell’antiquariato e del collezionismo di oggetti d’arte, databili fino al XXI secolo, che proporrà dal 23 gennaio all’1 febbraio la mostra “Eva contro Eva” presentando due opere della scultrice toscana al centro della quale sarà il confronto tra due versioni di Eva: un’Eva Mitica, opera esposta durante l’Expo 2015, rappresentata mentre siede pensierosa su un cumulo di torsoli di mela, quasi a significare che il suo peccato non sia possibile da scontare, perché costantemente ripetuto, e un’ Eva contemporanea, Eva 2000, che combatte contro la quotidianità di una vita sempre più frenetica e che sarà riconoscibile dal corredo tipicamente femminile posto ai piedi della scultura, che invita anch’essa ad una riflessione sul ruolo della donna tra innocenza e colpevolezza.

 

INFORMAZIONI UTILI:

TITOLO EVENTO: LA LAOCOONTE PRESENTAZIONE IN ESCLUSIVA DELL’OPERA DI LEA MONETTI

CURATORI: MARCO FABIO APOLLONI e MONICA CARDARELLI

SEDE ESPOSITIVA: STAND B17 PADIGLIONE 26 – ARTEFIERA BOLOGNA

CONFERENZA STAMPA:

21 GENNAIO 2016, ORE 11.00, PRESSO LA SEDE DELLA GALLERIA MAURIZIO NOBILE

INAUGURAZIONE: 28 GENNAIO 2016

DATE ESPOSIZIONE ARTEFIERA: DAL 29 GENNAIO ALL’1 FEBBRAIO 2016

INFO E CONTATTI:

GALLERIA DEL LAOCOONTE: VIA MONTERONE 13, 13A -00186 – ROMA

TEL: +39 0668308994, laocoontegallery@libero.it www.laocoontegalleria.it

 

TITOLO EVENTO: “EVA CONTRO EVA” DELL’ARTISTA LEA MONETTI

SEDE ESPOSITIVA: GALLERIA MAURIZIO NOBILE VIA SANTO STEFANO, 19/A, BOLOGNA

CONFERENZA STAMPA: 21 GENNAIO 2016, ORE 11.00, PRESSO LA SEDE DELLA GALLERIA MAURIZIO NOBILE

INAUGURAZIONE PRESSO LA GALLERIA NOBILE: 23 GENNAIO 2016, ORE 18.00

DATE DI APERTURA: DAL 23 GENNAIO ALL’1 FEBBRAIO 2016

ORARI: MARTEDì-SABATO DALLE 11.00 ALLE 19.00

Il Manifesto

La Laocoonte di Lea Monetti - Presentazione ad ArteFiera 2016

Le opere