Vincenzo Gemito

Vincenzo Gemito

Vincenzo Gemito, Autoritratto, 1915. Olio su cuoio, cm 63,7x47,7. Firmato e datato in basso a destra

Vincenzo Gemito (Napoli, 16 luglio 1852 – Napoli, 1º marzo 1929) è stato uno scultore, disegnatore e orafo italiano. Autodidatta, in gran parte, e insofferente ai canoni accademici, Gemito si formò attingendo dai vicoli del centro storico di Napoli e dalle sculture del museo archeologico. La sua prolifica attività artistica, che lo portò all’apice del successo ai Salons di Parigi nel 1876-77, fu interrotta a causa di un’intima crisi intellettuale, per via della quale si segregò dal mondo per diciotto anni; riprese la vita pubblica solo nel 1909, per poi spegnersi venti anni dopo.

La produzione gemitiana comprende vigorosi disegni, figure in terracotta e un gran numero di sculture, tutte ritraenti con un’elevata intensità pittorica scene popolaresche napoletane; tra le sue opere principali si possono ricordare il Pescatorello, l’Acquaiolo (l’originale fuso in argento si trova presso il museo del Cenedese di Vittorio Veneto) , la statua di Carlo V sulla facciata del Palazzo Reale di Napoli, la Zingara e gli autoritratti.

La produzione di Gemito, frutto della sua formazione da autodidatta, si impone con accenti di schietto realismo, con uno stile che trascese dalle mode del momento. L’artista, infatti, si distinse in quanto autore di una scultura «palpitante», impreziosita da libere variazioni di piani e da vivide vibrazioni luminose.

I soggetti prediletti della produzione plastica e grafica di Gemito – che si sostanzia di numerose copie – furono, sin dagli esordi, gli scugnizzi; nelle sue opere, i monelli di strada napoletani sono caratterizzati da un’accentuata freschezza fisica, da un calore sensuale e sentimentale, e sono animati talvolta da un’energia sul punto di prorompere, talvolta da una profonda malinconia. I fanciulli del popolo di Gemito risentono inoltre dell’influenza esercitata dal modello ellenistico, con il quale l’artista lavorò assiduamente a confronto diretto nel museo Archeologico; con questi vagheggiamenti classici gli scugnizzi acquisiscono un carattere indefinito e atemporale, senza tuttavia ripetere meccanicamente e fiaccamente schemi già esauriti nell’antichità.

Per i disegni, che eseguì numerosi soprattutto agli scorci del Novecento, Gemito scelse come costante iconografica le popolane, le cosiddette zingare, ritraendole con una gestualità e vivacità quasi «pittorica» da sole, insieme a bambini, impegnate nelle diverse attività quotidiane (Maria la zingara, Nutrice, Carmela sono alcuni esempi di questa fase artistica gemitiana); eseguì anche diversi disegni familiari e autoritratti (notevole l’Autoritratto con Matilde Duffaud). In questi anni, insomma, Gemito confermò la propria conversione alla grafica, dove ebbe modo di abbandonarsi al proprio estro creativo, non essendo più condizionato dal vincolo progettuale; nei disegni padroneggiò sia la forma che la luce, resa con le tecniche più disparate, quali la matita, la penna, il pastello, e l’acquerello.

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