Publio Morbiducci
(Roma, 1889 – 1963)
Studio per il Lanciatore di giavellotto
1930- 1939
Carboncino su carta, cm 64,4 x 22,3
Publio Morbiducci è un artista romano che fu, con egual forza di stile, pittore, xilografo, medaglista e scultore di opere monumentali, note agli occhi dei più che le registrano come familiari presenze del paesaggio urbano di Roma, anche quando non si conosca chi ne sia stato l’autore. Chi non sa che davanti a Porta Pia c’è il Monumento al Bersagliere? Chi all’Eur può ignorare la coppia dei Dioscuri e i loro cavalli di travertino impennati fino a superare col muso teso al cielo i sette metri d’altezza? Ebbene sono opera di Publio Morbiducci, nome di battesimo da romano antico e un cognome che suona ironicamente a contrasto, se si pensa alle dure masse di pietra tiburtina e di marmo apuano che lo scalpello dello scultore hanno laboriosamente macinato nel corso di tutta una vita. Eppure aveva debuttato come pittore, tra i più straordinari e all’avanguardia, tra quelli della Secessione Romana alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, pari per intensità espressionistica ai mostri sacri della pittura europea dell’epoca. Questo debutto straordinario fu però presto abbandonato poiché per l’influenza del suo maestro Duilio Cambellotti, Morbiducci preferì percorrere il solco della tradizione, dedicandosi alla xilografia e alla medaglistica, due arti ancillari della grande pittura e della grande scultura, che in quel momento si ispiravano alle forme sintetiche e classiche dell’antica tradizione italiana rinascimentale. Anche le medaglie, coniate per eventi d’ogni genere – primati aeronautici, crociere, fiere, lavori pubblici – erano parte integrante della propaganda del regime. In queste, Morbiducci raggiunse una sua indiscutibile perfezione.
Per quel che riguarda la scultura monumentale, a lui vengono affidate, per il Padiglione Italiano all’Esposizione Universale di New York del 1939, alcune delle opere più importanti, tra cui l’Italia Fascista dorata che figurava preminente sulla facciata dell’edificio celebrativo dei raggiungimenti del regime e delle future glorie – che non si realizzarono – dell’E42, l’esposizione universale romana che avrebbe dovuto superare in magnificenza proprio la manifestazione statunitense che coincise invece con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. E’ nella stessa ottica trionfalistica e celebrativa, in attesa di future olimpiadi che non ebbero luogo se non tanto più tardi, che venne realizzato il Foro Italico, insieme di complessi sportivi e spazi monumentali di cui fanno parte lo Stadio dei Marmi e lo Stadio del Tennis: sessantaquattro statue di atleti per il primo, diciotto per il secondo, ognuna alta quattro metri, ognuna pagata da una provincia d’Italia. Tutte in marmo di Carrara, poiché l’impresa fu ideata da Renato Ricci, ras di Carrara e presidente dell’opera Nazionale Balilla, che aveva a cuore i cavatori e gli scalpellini carraresi più dei proprietari delle cave, finite in mano alle banche dopo la crisi del ’29, e federate in consorzio.
Sulla carta, di Morbiducci è soltanto il “Discobolo in riposo”, una delle ultime statue ad essere collocata, nello Stadio dei Marmi, nel 1938, sei anni dopo l’inaugurazione ufficiale dello stesso, che era coincisa col decennale del fascismo. In realtà, Morbiducci aveva partecipato al concorso iniziale, in cui scultori di tutte le regioni d’Italia sottoposero 127 bozzetti, ma soprattutto egli si era assunto il compito di realizzare le ultime statue commissionate ad Eugenio Baroni (1880-1935) – il pescatore con il rampone e quello con la rete, per lo Stadio del Tennis, ad esempio – di cui egli fu, artisticamente e operativamente parlando, ad un tempo l’erede e l’esecutore testamentario. Fu Morbiducci infatti a realizzare il Monumento al Duca d’Aosta a Piazza Castello a Torino, per il quale Baroni aveva vinto il concorso ma che non poté terminare perché si ammalò e morì avendo solo il tempo di lasciare a Morbiducci il testimone.
Quasi per tutti gli anni trenta dunque, Morbiducci disegnò corpi in pose atletiche, cercando quella sintesi, tra reale e ideale, che era stato l’antico e lontano segreto della bellezza greca: atleti vittoriosi, con un nome e una patria, erano stati trasfigurati dall’arte in corpi perfetti, tipi ideali e sintesi di impersonale bellezza giovanile, per la Grecia e per l’occidente che si sentì suo erede per i secoli a venire. Perduti quasi tutti gli originali di bronzo, perduto il nome degli atleti raffigurati, dell’anno della loro vittoria, della loro città d’origine, che una volta erano iscritti sul piedistallo di ogni statua. Copiati in marmo per soddisfare le velleità artistiche dei conquistatori romani, sono giunti fino a noi, perpetuando l’ideale greco fino alle olimpiadi del XX secolo. A matita, a carboncino, a sanguigna, Morbiducci lavora per trasformare l’individualità dei suoi modelli in tipi ideali, alla ricerca di una venustà italica che risulta sempre temperata dall’ideale classico e lontana dal disumanesimo culturista che trionferà alle Olimpiadi di Berlino del ’36.
Morbiducci non è certo Leni Rifenstahl, come suoi modelli mette in posa il figlio del fratello, oppure sono modelli presi dalle piazze di Testaccio – dove egli aveva lo studio – sono fisici irrobustiti più dall’officina o da scaricar cassette al mercato, o quarti di bue al Mattatoio, che dagli esercizi ginnici d’Olimpia. Sono insomma, quintessenzialmente italiani, così com’erano gli italiani prima del benessere.