Fabrizio Clerici
(Milano, 1913 – Roma, 1993)
Pro-Menade
1973
Olio su tavola, cm 120 x 240 (dittico)
Firmato in basso a destra e in basso a sinistra
Esposizioni:
1973 Fabrizio Clerici (Bologna, Galleria Forni), n. 26;
1987 Fabrizio Clerici. Qual linea al centro (Caserta, Palazzo Reale), n. 26-26 bis;
1990 Fabrizio Clerici (Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna), n. 57;
1998 Fabrizio Clerici (Cesena, Galleria Comunale d’Arte), n. 13;
1999 Clerici. Opere 1928-1992 (Conegliano, Palazzo Sarcinelli), p. 119;
2007 Fabrizio Clerici. Opere 1937-1992 (Marsala, Convento del Carmine), n. 29.
Bibliografia:
Patrick Waldberg, Fabrizio Clerici, Bologna, Grafis/Propyläen, 1975 [edizione italiana], fig. 174;
Fabrizio Clerici, catalogo della mostra (Ferrara, Palazzo dei Diamanti) con presentazione di Federico Zeri, Casalecchio di Reno, Grafis Edizioni, 1983, p. 81 (ill.);
Gesualdo Bufalino, Latitudine Clerici, in Fabrizio Clerici. Qual linea al centro, catalogo della mostra (Caserta, Palazzo Reale), Milano, Franco Maria Ricci, 1987, p. 12;
Fabrizio Clerici, nel centenario della nascita (1913-1993), a cura dell’Archivio Fabrizio Clerici, Ginevra Milano, Skira, 2013, p. 216 (ill.).
Nell’opera visionaria di Fabrizio Clerici le stanze assumono il valore di costruzione mentale. Esse, centrali in buona parte della sua produzione, costituiscono il non-luogo in cui si manifestano le più misteriose apparizioni, ricche di citazioni e comuni per natura a quelle della pittura metafisica di Giorgio de Chirico ed Alberto Savinio, a cui Clerici fu intimamente legato.
Pro-Menade è composta da due tavole di identico formato, ognuna raffigurante una stanza vuota. Sul margine sinistro del pannello di destra, dove idealmente si colloca il punto di vista dello spettatore, un’apertura mette in comunicazione i due ambienti, che si direbbero parte di una successione infinita.
La prospettiva delle stanze è cieca: lo sottolinea un pavimento a scacchi, preso in prestito come stratagemma da una certa pittura tosco-umbra del XV secolo, il cui sviluppo in profondità viene drasticamente interrotto dal muro di fondo.
In questo luogo apparentemente privo di possibilità, un cavallo furioso, significativo nella produzione di Clerici, irrompe da una stanza all’estrema destra, rivolto verso una misteriosa fonte di luce. Il suo ingresso drammatico sembra portare con sé una terribile rivelazione, ispirata dall’esempio di antichi precedenti illustri.
Il cavallo, infatti, è direttamente tratto dal galoppante bronzo ellenistico del Fantino di Capo Artemisio (Atene, Museo Archeologico), che nell’opera di Clerici si carica di riferimenti simbolici alla tradizione iconografica dell’incubo. Come nel celebre Nightmare di Füssli, l’equino è mostrato solo parzialmente, e si direbbe egualmente affetto da cecità. Ne conserva il carattere di terribile apparizione che, per i contemporanei del pittore svizzero, risultava rafforzata dall’associazione per assonanza con la femmina del cavallo (mare). Il suo colore, inoltre, sottolinea il dramma di cui è portatore: esso è rosso come uno dei cavalli biblici dell’Apocalisse, cavalcato da un cavaliere capace di togliere la pace dalla terra.
A mitigare una tale visione angosciosa è il gioco omofonico del titolo, che, come in altre opere dell’artista, investe il soggetto di sagace ironia. Lo espresse in modo insuperabile Gesualdo Bufalino, il quale sottolineava come “una parola pacifica, promenade, inopinatamente si stravolge e s’infuria per l’ingresso di una Menade equina”.
Nell’indefinibile mistero dell’opera, il clima sospeso è attraversato da una rivelazione. Ben diversa sarà la posizione presa dall’artista qualche anno dopo, quando replicò la composizione privandola del cavallo (Le due stanze, 1978 ca.). La sua originalissima riflessione metafisica sul vuoto e sull’attesa risuona ancora oggi come una domanda retorica: nel non luogo, non succede nulla.
Roberto Marvin Wellman