PIERO DELLA FRANCESCA – Indagine su un mito

PIERO DELLA FRANCESCA – Indagine su un Mito

Forlì – Musei di San Domenico

13 de febrero – 26 de junio de 2016

L’affascinante rispecchiamento tra critica e arte, tra ricerca storiografica e produzione artistica nell’arco di più di cinque secoli è il tema della mostra Piero della Francesca. Indagine su un mito. Dalla fortuna in vita  _ Luca Pacioli lo aveva definito “il monarca della pittura” _  all’oblio, alla riscoperta.

Alcuni dipinti di Piero, scelti per tracciare i termini della sua riscoperta, costituiscono il cuore dell’esposizione. Accanto ad essi figurano in mostra opere dei più grandi artisti del Rinascimento che consentono di definirne la formazione e poi il ruolo sulla pittura successiva.

Per illustrare la cultura pittorica fiorentina negli anni trenta e quaranta del Quattrocento, che vedono il pittore di Sansepolcro muovere i primi passi in campo artistico, saranno presenti opere di grande prestigio di Domenico Veneziano, Beato Angelico, Paolo Uccello e Andrea del Castagno, esponenti di punta della pittura post-masaccesca.

L’accuratezza prospettica di Paolo Uccello e l’enfasi plastica delle figure di Andrea del Castagno, la naturalezza della luce di Domenico Veneziano, l’incanto cromatico perseguito da Masolino e dall’Angelico, costituiscono una salda base di partenza per il giovane Piero. Ma la mostra vuol dar conto anche dei primi riflessi della pittura fiamminga, da cogliere negli affreschi del portoghese Giovanni di Consalvo, nei quali l’esattezza della costruzione prospettica convive con un’inedita attenzione per le luci e le ombre.

Gli spostamenti dell’artista tra Modena, Bologna, Rimini, Ferrara e Ancona determinano l’affermarsi di una cultura pierfrancescana nelle opere di artisti emiliani come Marco Zoppo, Francesco del Cossa, Cristoforo da Lendinara, Bartolomeo Bonascia. Importanti sono i suoi  influssi nelle Marche su Giovanni Angelo d’Antonio da Camerino e Nicola di Maestro Antonio; in Toscana, con Bartolomeo della Gatta e Luca Signorelli; e a Roma, con Melozzo da Forlì e Antoniazzo Romano. Ma l’importanza del ruolo di Piero è stata colta anche a Venezia, dove Giovanni Bellini e Antonello da Messina mostrano di essere venuti a conoscenza del suo mondo espressivo.

La mostra, aperta dal confronto, sempre citato ma fin’ora mai mostrato, tra la Madonna della Misericordia di Piero della Francesca e la Silvana Cenni di Felice Casorati, da conto della nascita moderna del suo “mito” anche attraverso gli scritti dei suoi principali interpreti: da Bernard Berenson a Roberto Longhi.

La riscoperta ottocentesca di Piero della Francesca e affidata a importanti testimonianze: dai disegni di Johann Anton Ramboux alle straordinarie copie a grandezza naturale del ciclo di Arezzo eseguite da Charles Loyeux, fino alla fondamentale riscoperta inglese del primo Novecento, legata in particolare a Roger Fry, Duncan Grant e al Gruppo di Bloomsbury, di cui fece parte anche la scrittrice Virginia Woolf.

Il fascino degli affreschi di Arezzo sembra avvertirsi nella nuova solidità geometrica e nel ritmo spaziale di Edgar Degas. Un simile percorso di assimilazione lo si ritrova in pittori sperimentali e d’avanguardia come i Macchiaioli. Echi pierfrancescani risuonano in Seurat e Signac, nei percorsi del postimpressionismo, tra gli ultimi bagliori puristi di Puvis de Chavannes, le sperimentazioni metafisiche di Odilon Redon e, soprattutto, le vedute geometriche di Cézanne.

Il Novecento è per più aspetti il “secolo di Piero”: per il costante incremento portato allo studio della sua opera, affascinante quanto misteriosa; e per la centralità che gli viene riconosciuta nel panorama del Rinascimento italiano. Contemporaneamente la sua opera è tenuta come modello da pittori che ne apprezzano di volta in volta l’astratto rigore formale e la norma geometrica, o l’incanto di una pittura rarefatta e sospesa, pronta a caricarsi di inquietanti significati. La fortuna novecentesca dell’artista è raccontata confrontando, tra gli altri, gli italiani Guidi, Carrà, Donghi, De Chirico, Casorati, Morandi, Funi, Campigli, Ferrazzi, Sironi con fondamentali artisti stranieri come Balthus e Hopper che hanno consegnato l’eredità di Piero alla piena e universale modernità.

La Laocoonte di Lea Monetti

LA LAOCOONTE DI LEA MONETTI

A CARGO DE LA GALLERIA DEL LAOCOONTE

 

DESPUÉS DE LA EXPOSICIÓN EN LA  ARTE FIERA 2016 DE BOLOGNA LA EXPOSICIÓN SE INAUGURARÁ EN LOS LOCALES DE LA GALLERIA

INAUGURACIÓN MARTES 8 DE MARZO DE 2016 A LAS 18:00   Horarios: desde martes a sábado – 10.00-13.00/ 15.30-19.30 Ingreso gratuito   LA EXPOSICIÓN

In occasione del prossimo 8 marzo verrà presentata, presso la Galleria del Laocoonte di Roma, una eccezionale opera d’arte in bronzo, creata dalla scultrice Lea Monetti. Frutto di una meditazione sulla scultura che dà il nome alla galleria, variante manierista del famoso gruppo antico del Vaticano, vertice estremo dell’arte della scultura e pietra di paragone di ogni eccellenza, l’artista contemporanea, scultore fedele alla mimesi figurativa, ha osato creare “La Laocoonte” o “Laocoonte Madre”, una versione tutta femminile del famoso marmo ellenistico.

 

Come il Laocoonte antico è stato portato alla luce dal sottosuolo, “La Laocoonte” è scaturita dal profondo dell’artista che, affrontando una sfida al limite del possibile, rischiosa per la propria immagine di artista e di donna, ha saputo trovare in sé le forze per trionfare sulle innumerevoli difficoltà tecniche, raggiungendo un’intensità di ispirazione che pone l’opera realizzata al sicuro da ogni accusa di facile parodia. Ritornando anzi al senso originario della parola greca, “La Laocoonte” è davvero una parodia, letteralmente, “un canto nuovo”, celebrazione nuova di un mito antichissimo, da un punto di vista tutto diverso: quello della donna, della madre e dell’artista donna e madre che difende le proprie figlie, le proprie creazioni, contro ogni difficoltà, contro l’invidia e la cattiveria degli Dei.

 

Secondo questa allegoria sussurrata dall’inconscio direttamente alle sue mani, Lea Monetti non poteva fare della propria “Laocoonte” altro che una madre trionfante: la sua madre antica resiste ai serpenti, trovando nella compassione per le sue creature la risorsa di una forza straordinaria così come alle madri ordinarie capita, toccando vertici di energia miracolosa, in casi di pericolo estremo. “La Laocoonte” non guarda al cielo sprecando il proprio sguardo tragico in un’inutile ricerca di divinità da impietosire, ma guarda alla sofferenza di una delle figlie e in essa trova la sovrumana sollecitudine che la spinge a liberarsi del mortale groviglio che la vorrebbe soffocare e uccidere.

 

L’opera nasce da un’idea suggerita all’artista da Marco Fabio Apolloni, antiquario, critico d’arte e scrittore, fondatore, assieme a sua moglie Monica Cardarelli, della “Galleria del Laocoonte” di Roma, una galleria specializzata in arte figurativa italiana del primo Novecento, in cui sono ammessi ad esibire solo pochi artisti contemporanei capaci di misurarsi in modo originale con la tradizione classica della civiltà artistica del nostro paese.

 

Come già accennato, la galleria prende il proprio nome e la propria linea ispiratrice dalla presenza nei suoi locali di una grande scultura marmorea raffigurante il Laocoonte, una versione manierista del gruppo classico del fiorentino Vincenzo de’ Rossi (1525-1587), autore delle “Fatiche d’Ercole esposte nel Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio.

 

E’ infatti a Firenze, a Palazzo Medici Riccardi dov’era in corso una personale della scultrice, nell’aprile del 2013, che Marco Fabio Apolloni ha incontrato per la prima volta Lea Monetti, e dove, colpito dalla potenza delle sculture di lei e forse dalle antiche suggestioni di un luogo tanto importante per il Rinascimento italiano – qui Michelangelo ragazzo studiava sotto lo sguardo benevolo di Lorenzo il Magnifico – le ha subito proposto di creare per lui e la propria galleria una Laocoonte donna.

 

Lea Monetti ha accettato la commissione con un entusiasmo sempre crescente, creando di furia i primi bozzetti e affrontando una lunga elaborazione dell’opera finale che è stata poi finalmente fusa a Pietrasanta nell’estate del 2015.

 

Il gruppo bronzeo è una figura terzina, cioè grande un terzo del vero e in galleria si espone la prova d’artista, patinata all’antica. Dell’opera saranno prodotti solo otto esemplari, ognuno con una patina diversa – ad esempio: color terracotta, terracotta policroma, bianco marmo, patina scura e oro – così da rendere ciascun pezzo assolutamente unico. Solo a titolo esemplificativo sono esposti dei calchi patinati per rendere l’idea del futuro prodotto finito.

 

Assieme alla scultura saranno esposti anche i bozzetti che hanno portato alla sua realizzazione e una viva testa della Laocoonte, ritratto della Madre, per la quale Lea Monetti ha preso ispirazione scegliendo per soggetto, ma trasfigurandola, la mobile fisionomia di Claudia Contin, famosa come interprete della maschera di Arlecchino, unica donna, sulle scene di tutto il mondo.

La Laocoonte di Lea Monetti - INVITO INAUGURAZIONE 8 MARZO

Jean-Pierre Velly – L’ombra e la luce

Roma – Istituto centrale per la grafica, Palazzo Poli

22 marzo – 15 mayo 2016 preestreno para la Prensa 22 de marzo de 2016 a las 12,00 presentación e inauguración de la exposición 22 marzo a las 17.30 apertura al público desde el 23 de marzo hasta el 15 de mayo  de 2016 Tiziana D’Acchille, directora de la Accademia di Belle Arti di Roma y Maria Antonella Fusco, dirigente del Istituto centrale per la grafica, presentan la exposición Jean-Pierre Velly. L’Ombra e la Luce, comisarios/as:  Pier Luigi Berto, Ginevra Mariani y Marco Nocca, que se inaugura el 22 de marzo de 2016 en el Palazzo Poli (Fontana di Trevi), prestigiosa sede expositiva del Istituto centrale per la grafica.

Tiziana D’Acchille, direttrice dell’Accademia di Belle Arti di Roma e Maria Antonella Fusco, dirigente dell’Istituto centrale per la grafica, presentano la mostra Jean-Pierre Velly. L’Ombra e la Luce, curata da Pier Luigi Berto, Ginevra Mariani e Marco Nocca, che si inaugura il 22 marzo 2016 a Palazzo Poli (Fontana di Trevi), prestigiosa sede espositiva dell’Istituto centrale per la grafica. A venticinque anni dalla tragica scomparsa di Velly e per la prima volta a Roma dopo la grande mostra a Villa Medici del 1993, le due istituzioni intendono reinserire l’opera e la figura del maestro bretone (Audierne 1943 – Trevignano 1990), Grand Prix de Rome per l’incisione (1966) al posto che gli compete nella cerchia dei grandi artisti contemporanei. La mostra suggerisce un percorso all’interno del nucleo poetico del lavoro di Velly, attraverso la metafora alchemica, ribadita dalla splendida Melencolia di Albrecht Dürer che apre l’itinerario. La prima sala, Nigredo, allude allo stadio della trasformazione della materia: qui è Velly stesso, artefice e iniziatore della creazione, ad accogliere i visitatori con una parete dedicata ai suoi celebri Autoritratti. Il processo ideativo dell’artista si precisa attraverso il confronto tra disegni preparatori inediti e prove di stato: dalla “notte eterna dell’universo” emergono le sue magnifiche visioni, le straordinarie incisioni a bulino, che ritrovano il bianco e la luce con stupore, sottraendoli al buio. La seconda sala, Albedo, che rimanda alla purificazione della materia, ospita il nucleo di acquerelli e i disegni a punta d’argento, tecnica dei maestri rinascimentali. La terza sala, Rubedo, offre una selezione dell’opera pittorica. La pittura è per l’artista approdo finale e rasserenante: “con i colori mi piace poter raccontare che nulla è grave, che un giorno morirò ma l’umanità continuerà”. I bellissimi acquerelli di soggetto floreale stemperano visivamente l’affascinante mistero nero di Velly, chiarendo anche le ambizioni della sua arte. È significativo che la mostra di Jean-Pierre Velly si ponga in continuità ideale con la recente esposizione di Balthus, direttore a Villa Medici ed estimatore del giovane artista, quasi a raccoglierne il testimone: “quando vedo un dipinto di Balthus – dichiarava l’artista bretone a Jean-Marie Drot – mi dico: qui non c’è falsità, non c’è inganno”. Catalogo edito da L’Erma di Bretschneider, a cura di Pier Luigi Berto, Ginevra Mariani, Marco Nocca; introduzioni di Tiziana D’Acchille, direttrice dell’Accademia di Belle Arti di Roma e Maria Antonella Fusco, dirigente dell’Istituto centrale per la grafica. Contributi dei curatori, testimonianza di Vittorio Sgarbi, testi di Marco Di Capua, Pierre Higonnet, Gabriele Simongini, Catherine Velly, Vinicio Prizia; schede di Giovanna Scaloni. L’allestimento è a cura di Stefania Teodonio,Vincenzo Raponi e Key Comunicazione. Sezione didattica curata dal Laboratorio diagnostico per le matrici dell’Istituto centrale per lan grafica. Contributo di Lucia Ghedin sul restauro delle matrici di Velly in catalogo; didascalie ragionate di Luigi Zuccarello. Visite guidate a cura di Gabriella Bocconi e Francesca Sacchini, rivolte agli studenti delle università, delle accademie e delle scuole secondarie. Nota biografica Jean-Pierre Velly (Audierne 1943 – Trevignano 1990), vincitore con il bulino La Clef des Songes nel 1966 del Grand Prix de Rome per l’incisione, dopo il triennale soggiorno a Villa Medici sotto lo sguardo di Balthus suo direttore, dal 1970 sceglie di rimanere in Italia, a Formello (Roma), dedicandosi al disegno, all’incisione e alla pittura. Grazie alla stima e all’amicizia di Giuliano de Marsanich, gallerista e mecenate, negli anni Settanta, un frangente difficile per gli artisti votati alle tecniche tradizionali, Velly riesce ad imporre le sue visioni, conquistando la critica più qualificata (J. Leymarie, A. Moravia, M. Praz, L. Sciascia, V. Sgarbi, F. Simongini, G. Soavi, R. Tassi, M. Volpi) ed entrando in collezioni prestigiose (Barilla, Olivetti). Conoscitore delle tecniche antiche del disegno, a partire dal 1978 Velly offre i primi saggi di pittura ad acquerello in Velly pour Corbière, omaggio al poeta maledetto suo conterraneo, con l’introduzione di Leonardo Sciascia. Nel 1980 è la volta di Bestiaire perdu, presentato da Alberto Moravia e Jean Leymarie, splendida serie di “ritratti su carta” di animali odiati dall’uomo. Nell’ultimo decennio di attività l’artista si dedica prevalentemente alla pittura, con la magnifica serie di tavole floreali ideate per il calendario Olivetti del 1986; e i dipinti di paesaggio, tra cui Après, Grande paesaggio, Grand coucher du soleil, Grande bourrasque. In questi stessi anni ritorna più volte sull’autoritratto, sorta di riflessione interiore, sulla tela e sulla carta. Nel 1990 muore in un incidente di barca sul lago di Bracciano. Información útil Sede: Roma, Istituto centrale per la grafica, Palazzo Poli fechas/horario: inauguración 22 de marzo de 2016 a las 17.30 apertura del 23 de marzo al 15 de mayo de 2016 martes – domingo a las 10.00 – 19.00 Eventuales aberturas extraordinarias serán comunicadas en la página web www.grafica.beniculturali.it y en Facebook INGRESO LIBRE No es posible acceder al Istituto con maletas, mochillas y bolsos de grandes dimensiones. Gabinete de prensa Accademia Belle Arti di Roma Dionigi Mattia Gagliardi dm.gagliardi@accademiabelleartiroma.it www.accademiabelleartiroma.it

Gabinete de prensa Istituto centrale per la grafica Angelina Travaglini angelina.travaglini@beniculturali.it e la collaborazione di Roberta Ricci

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Esposizione universale Roma

Esposizione universale Roma. Una città nuova dal fascismo agli anni ’60

La Galleria del Laocoonte partecipa con due opere alla mostra

Esposizione universale Roma. Una citta’ nuova dal fascismo agli anni ’60
Desde el 12 de marzo al 14 de junio de 2015

Vai al sito dell'Evento
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Libero Andreotti – Antologia di un grande scultore del ‘900

Libero Andreotti, Antologia di un grande scultore del ‘900

Dal 1 al 6 ottobre 20104 In occasione della Biennale Internazionale di Antiquariato di Roma presso Palazzo Venezia, stand E4  

La Galleria del Laocoonte presenta una eccezionale raccolta di diciassette opere dello scultore Libero Andreotti, tra i massimi del nostro ‘900. Tredici bronzi, dalla minuscola danzatrice del 1907 alla monumentale Giustizia del 1932, sono una ricca antologia del suo fare artistico, dall’erotismo di inizio secolo fino all’astratta ieraticità che tramuta la Giustizia in divinità arcaica destinata al nuovo Tribunale di Milano.

Oltre ad un rilievo in cera e a due disegni di grande formato, vi è anche una rara scultura in marmo di Candoglia, “La Vigne” ovvero Baccante con Bacchino ubriaco, meditazione ispirata e leggera sulle sculture di Maillol e sul non-finito michelangiolesco.

Libero Andreotti

(Pescia 1875 – Firenze 1933)

Di umili origini, illustratore autodidatta, sempre affamato, Andreotti scopre la scultura a Firenze nel 1904, a quassi trent’anni, mettendosi per caso a lavorare la creta. Già nel 1905 si trasferisce a Milano dove il gallerista Alberto de Grubicy vorrà l’esclusiva dei suoi lavori. Rescisso il contratto, lo scultore si trasferisce a Parigi, dove il famoso sarto Worth lo introduce nel bel mondo. Un periodo di grande successo che si interrompe quando dovrà lasciare la Francia per via della guerra del ’14.

Rientrato a Firenze, mutato stile, si lega all’influente critico Ugo Ojetti, che vedrà in lui il continuatore dell’antica tradizione scultorea italiana. Titolare di cattedra nel 1920, sposa nel ’23 la sorella del pittore Aldo Carpi, aderendo agli ideali religiosi di quest’ultimo. E’ la stagione dei monumenti ai caduti e della vittoria al concorso per la Pietà di S.Croce che gli valse non poche critiche. Muore nel 1933 lasciando come ultima opera il gruppo di Affrico e Mensola.

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