Amart 2024, Palazzo della Permanente, dal 6 al 10 novembre, stand 25

La Galleria W. Apolloni e la Laocoon Gallery di Roma e Londra partecipano ad AMART al Palazzo della Permanente di Milano, dal 6 al 10 novembre, Stand n. 25.

 

La Galleria W. Apolloni di Roma, che tra un paio d’anni festeggerà il centenario dalla sua fondazione, sbarca a Milano portando in mostra un carico di capolavori dell’arte milanese di quell’elegante tempo neoclassico in cui la città fu il maggior centro irradiante dell’illuminismo in Italia, e poi capitale del Regno d’Italia voluto da Napoleone.

 

Sono esposte infatti le quattro grandi tempere su tela di Andrea Appiani che illustrano il mito di Europa e di Giove trasformato in toro che furono del conte Ercole Silva, già nel suo palazzo di Milano e poi nella famosa sua villa di Cinisello, dove egli aveva dato il primo esempio di quell’arte di comporre i giardini alla maniera inglese che introdusse per primo in Italia. Le tempere di Appiani sono come affreschi mobili, come finestre che si aprono su grandi paesaggi popolati dalle figure del mito in cui l’antico ricordo delle vedute ideali di Claude Lorrain si mescola allo studio della Galatea affrescata da Raffaello alla Farnesina.

 

I dipinti trasformano lo spazio dello stand in un’aulica saletta a cui doveva fare da controcanto un arredo degno di essa.

Ecco infatti una fioriera di marmo e di bronzo dorato, forse disegnata da Pelagio Pelagi, ornata con figure di amorini e amorine incantevoli, piccolo monumento di un lusso prezioso e raffinato, dove la virtù dello scalpello e l’eccellenza della scultura fusa e dorata a fuoco superano di molto le contemporanee produzioni neoclassiche francesi.

 

Tutt’intorno sei eleganti sedie provenienti da Palazzo Reale, colorate in grigio azzurro come un cielo velato di nebbia. Furono portate via dall’Italia dai Savoia in esilio e sono riaffiorate vent’anni fa in una vendita all’asta londinese. Riportate a Milano, sarebbe auspicabile tornassero alla loro sede originaria.

 

Alle pareti, accanto ai dipinti di Appiani, svariati suoi disegni: uno preparatorio per il quadro Apollo e Narciso, uno per le gambe di Giacobbe nella pala di Alzano Maggiore, un altro ancora per un gruppo di personaggi che animavano il sipario del Teatro dei Filodrammatici. Altri due schizzi di Appiani sono stati dedicati e donati da Gaetano Cattaneo a Giulietta Manzoni, figlia di Alessandro. Gaetano (1771-1841), cugino del più famoso Carlo, fu disegnatore alla Zecca di Milano e conservatore del Gabinetto Numismatico. Fu lui a impedire che Napoleone mandasse allo squaglio le preziose monete d’oro antiche della collezione ora al Castello Sforzesco. Con Carlo Porta è raffigurato da Giuseppe Bossi nel famoso ritratto di gruppo degli amici della “cameretta” a Brera.

Di Gaetano disegnatore è qui, in un piccolo foglio, lo studio di una medaglia di Napoleone del 1806, in cui sono iscritti a margine i versi del manzoniano 5 maggio.

 

Oltre ai disegni di Appiani, vi sono tre eccezionali ritratti di donna, uno di bella ignota, ritratta a due colori dal grande Luigi Sabatelli (1772-1850), fiorentino ma Professore a Brera per quasi cinquant’anni. L’altro è del famoso Vivant Denon (1747-1825), incisore dilettante, scrittore galante ma anche impavido viaggiatore in Egitto con Bonaparte che lo nominò al ritorno primo direttore del Louvre, ovvero del Musée Napoléon, ripieno di tutti i furti d’arte di cui furono capaci i francesi nell’Europa conquistata. È un disegno preparatorio per l’incisione del ritratto di Isabella Teotochi Albrizzi (1760-1836), che a Venezia, dove Denon era fuggito per scampare al Terrore rivoluzionario (e fare un po’ di spionaggio), divenne la sua amante restando poi sua amica per tutta la vita. Isabella era di Corfù e a Venezia tenne un salotto artistico letterario dove concorsero tutti gli ingegni del suo tempo, non ultimo il Foscolo, che spulzellò diciassettenne.

 

Il terzo ritratto è di un’altra famosa gran donna, Cristina Trivulzio di Belgioioso (1808-1871), patriota, letterata, eroina della Repubblica Romana, viaggiatrice, educatrice pioniera dell’emancipazione femminile. Lo ha tracciato a matita Francesco Hayez, proprio quando ella posava per il famoso ritratto in nero che è uno dei più belli – anche grazie a lei –  di Hayez e di tutto l’ottocento romantico italiano.

Ad Hayez è dedicata una parte dell’esposizione che procede verso l’ottocento risorgimentale, trionfante nel movimentato bozzetto per la Sete dei Crociati sotto le mura di Gerusalemme, ispirato al poemetto di Tommaso Grossi poi glorificato dalla musica di Giuseppe Verdi. Il quadro, smisurato, fu commissionato da Carlo Alberto, ma venne consegnato a Torino solo nel 1850,  dopo la morte del re – ancora solo di Sardegna – in esilio.

Il grande affresco che Hayez dipinse nel 1837 nella medaglia ovale al centro del soffitto della Sala delle Cariatidi a Palazzo Reale – la stessa sala che aveva ospitato i Fasti di Napoleone di Andrea Appiani – raffigurava l’apoteosi di Ferdinando I d’Austria, non proprio un’impresa di cui andare fieri per un pittore che viene identificato come il pittore risorgimentale per eccellenza. Forse dunque non dovremmo troppo piangere se una bomba alleata l’ha fatto scoppiare in mille pezzi nel 1943. Qui alla Permanente un disegno preparatorio ricorda questa grande opera dimenticata in cui Hayez si mascherò da pittore barocco per la gloria della casa d’Asburgo. Mascherarsi del resto non gli era difficile: in un piccolo acquerello di sua mano lo vediamo nelle vesti di Giulio Romano. Era il 30 gennaio 1828, e per il ballo in maschera del Conte Batthyany, gran signore ungherese inviato imperiale a Milano, l’artista non solo disegnò il suo, ma quasi tutti gli altri costumi degli aristocratici invitati: c’erano paggi rinascimentali, guerrieri musulmani, corsari greci, dame e cavalieri del ‘400, re e regine del ‘500, personaggi di Shakespeare e di Walter Scott, come se fossero state mescolate le figure di tanti diversi mazzi di carte, francesi, piacentine, napoletane, tedesche. Un’immagine quasi allegorica del Romanticismo come grande e confusa carnevalata.

La Galleria del Laocoonte, o Laocoon Gallery come si declina nella sua doppia natura di spazio per mostre sul ‘900 italiano tanto a Roma quanto a Londra, ha preso per sé una parete intera dello stand n. 25, ma esterna, affinché i colori squillanti, le forme sintetiche e i messaggi ad effetto che caratterizzano la sua ricca scelta di “Cartelloni e Copertine” non turbassero la raccolta quiete dell’adiacente allestimento neoclassico. Riprendendo il titolo di una fortunata mostra già allestita nella fiorentina galleria Pio Fedi nel 2015, la Galleria del Laocoonte ha voluto mostrare il meglio degli “artisti illustratori per la pubblicità e l’editoria” dove protagonisti non sono i manifesti o le copertine stampate, ma le opere e i bozzetti originali di mano dell’artista che furono all’origine della loro riproduzione meccanica. Proprio alla Permanente, dove nel 1965 fece storia la mostra organizzata da Attilio Rossi sul manifesto italiano nel centenario della sua produzione litografica. Una bella coincidenza. Già allora si capì che non era stata tanto l’arte moderna a creare il manifesto pubblicitario, ma proprio le divoranti necessità di comunicare velocemente ed efficacemente della pubblicità a semplificare sempre più le espressioni dell’arte moderna.

Si veda l’essenzialità della tela dipinta da Savignac per il Cinzano Soda, con solo il bianco, il blu e il rosso del marchio Cinzano, e il giallo di un rovente cielo arroventato dal solleone: l’omino blu che sorseggia la bibita rossa diventa un’immagine indelebile nella nostra mente che pavlovianamente penserà al Cinzano Soda al primo accenno di calura.

 

Altrettanto essenziale ma figurativamente più raffinato, cosciente dell’arte antica che domina il genio dei luoghi italiani, è Duilio Cambellotti, che per invogliare alla cura delle acque di Chianciano, suscita dalla terra antiche divinità arcaiche, flessuose dee delle sorgenti che versano il loro benefico,  liquido flusso da inesauribili antiche giare di terracotta.

 

Elegante, apparentemente frivola, è l’arte di Umberto Brunelleschi che a Parigi compose infiniti idilli di maschere galanti in pochoirs di colorata grazia. Altrettanto graziosamente ci invita a comprare un’automobile Fiat appena uscita di fabbrica, o a degustare il cacao olandese Van Houten.

Meno noto, anche perché raro, è Primo Sinopico (pseudonimo del sardo Raoul de Chareun), illustratore di geniale essenzialità fiorito negli anni ’30: può mostrarci un elefante che porge un fiore con la sua proboscide, o un albero visto dal punto di vista degli scoiattoli che lo abitano, ma davvero speciali sono i suoi omini minuscoli e sintetici come segni tipografici. Essi sono una scherzosa, ma non meno inquietante, profezia sulla fine di ogni differenza quando gli uomini si riducono a masse formicolanti.

Un genio bizzarro come Mino Maccari non poteva certo accettare gli obblighi di decoro che una società pubblicitaria può imporre, ma proprio per questo, quando per esempio deve produrre le copertine per la rivista “Carte Parlanti” dell’editore Vallecchi, il risultato del suo anarchico estro diventa davvero sorprendente. Quasi non c’è più spazio nella parete, ma possiamo ancora nominare Pino Pascali che lavorava alle animazioni dei caroselli televisivi, di cui qui vi è un “frame” di un arlecchino danzante servito a dar gloria a dei pelati in scatola che portavano il nome del multicolore eroe della commedia dell’arte.