CLERICI – Omaggio a Savinio

Clerici – Omaggio a Savinio

Innaugurazione venerdì 16 dicembre 2016 dalle 18:00

Orari: Lunedì 15.00-19.00; dal martedì al venerdì 10.00-13.00 / 15.00-19.00; sabato 10.00-13.00

Presso i locali della galleria

Con un naso così importante e nobilmente adunco come il suo, Fabrizio Clerici poteva sembrare solo a prima vista un rapace, ma bastava ascoltare la sua voce educata, i suoi discorsi raffinati in cui erano spesso incastonate, nel suo italiano di milanese vissuto a Roma sin da bambino, qua e là parole e frasi francesi, per capire che egli non era uccello da preda, ma piuttosto un distintissimo trampoliere, una gru, un airone, a cui madre natura aveva dato per sopravvivere il dono supremo dell’eleganza e lunghe gambe dall’alto delle quali poter osservare la bassa corte in cui razzoliamo noi bipedi ordinari.

Così quando quest’artista surreale e metafisico, nel 1983, fece stampare presso le edizioni di Franca May, il volume di illustrazioni “Alle Cinque da Savinio”, tutti videro, nel repertorio ornitologico in 48 tavole, in cui uccelli di ogni razza interpretavano come in “tableaux vivants” le scene di vita quotidiana e le cerimonie di un’umanità borghese ormai scomparsa, un esercizio estremo nel genere dell’autoritratto: non nel rappresentare se stessi, ma tutti gli altri come se stessi. Eppure non sappiamo se Fabrizio Clerici fosse cosciente di questo risultato. Il pittore, lo scrittore a cui l’omaggio è dedicato, Andrea De Chirico (Atene 1891 – Roma 1952) in arte e per i posteri ormai Alberto Savinio, invece lo sapeva. Quando ritrasse se stesso si rappresentò – si vide – con una testa di gufo su di un corpo umano, caro ad Atena Dea dell’intelletto, simbolo del notturno studio, ma pur sempre gufo. E dalle favole di Esopo fino alle Scene della Vita degli Animali di Granville, rappresentare gli uomini come bestie è sempre stata arte di caricatura e satira sociale. Satira garbata, di un borghese che mette in caricatura i borghesi pari suoi, ma pur sempre caricatura, che è come dice il nome, mettere in ciò che si rappresenta di più di ciò che gli occhi vedono. Meglio, nel caso di Savinio, vedere la vera immagine della persona al di là degli ingannevoli tratti somatici umani: così anche la Madonna dell’Annunciazione può divenire uno struzzo o un uccello dal becco a scarpa, un’elegante Signora con Ventaglio un casuario o una papera, un eroe classicamente nudo portare sopra il collo la testa di un gallo o di un germano reale. Forse gli uccelli, se si potessero vedere così, se ne potrebbero avere a male, ma non la borghesia per la quale Savinio dipingeva, quando ancora si facevano ritratti “seri” di Signore con Ventaglio o quando il Duce del Fascismo poteva venir rappresentato seriamente nudo come un eroe grecoromano.

Fabrizio Clerici (Milano 1913 – Roma 1993) è stato l’ultimo surrealista, l’ultimo metafisico, non tanto d’Italia, ma di una cosmopoli elegante che ha esalato il suo canto del cigno prima del ’68, prima dell’ineluttabile volgarità trasversale di massa che tutto ha travolto sotto la mascheratura delle provocazioni d’avanguardia. “Il Minotauro che accusa sua Madre”, “Il Sonno Romano”, “Le Confessioni palermitane”, sono da considerarsi ancor’oggi, e forse oggi ancora di più, dei legittimi capolavori. Da Savinio lo separavano ventidue anni, eppure con Savinio ebbe tra guerra e dopoguerra un sodalizio di cui rimane concreta testimonianza scritta in “Ascolto il tuo cuore città” (1944), passeggiata e divagazione letteraria in giro per Milano in cui il giovane Clerici è continuamente evocato come compagno e deuteragonista – cioè secondo attore. Due anni prima, un’introduzione di Savinio aveva accompagnato dieci litografie di “Capricci”, che lo scrittore afferma in modo lusinghiero doversi guardare “col terzo occhio ancora che al dire degli stoici ci portiamo al sommo del cervello, e col quale guardiamo i sogni”.

Trent’anni dopo la morte dell’amico, Clerici si divaga di un’inverno di malattia riempiendo un piccolo album di Scene di Vita di Volatili borghesi, ritratti alla maniera di Savinio, spesso in camere e sale metafisicamente spoglie, impegnati nella liturgia sociale di una belle époque che par precedere la prima guerra mondiale. Un tempo lontanissimo che però Savinio aveva vissuto, cantato in prosa ne “L’Infanzia di Nivasio Dolcemare”, e trasfigurato nei suoi quadri ritraendo in modo visionario le vecchie foto della sua famiglia dove i genitori si trasformano in confortevoli poltrone da salotto.

Una volta Fabrizio Clerici mi portò all’hotel Ambasciatori di Roma, costruito da suo padre nel 1927; fu infatti il padre, Gino, a chiamare Guido Cadorin per affrescare il salone da ballo. Tra gli ospiti dipinti in festa, vestiti come per un invito del Grande Gatsby, mi indicava suo padre sua madre e un bambino vestito alla marinara: “Non sono io, è mio fratello Gustavo, più grande di me. Ero troppo piccolo per posare.” Quella era la sua belle époque.

La Galleria del Laocoonte ha acquistato l’album dei disegni originali di “Alle cinque da Savinio”, 39 disegni tracciati a mano libera, quasi sempre con un pennarello rosso fine, e li esporrà a partire dal 16 dicembre nelle proprie sale di via Monterone 13 e 13 a. Accompagnano la mostra alcune opere di Alberto Savinio: “Maria Antonietta e Luigi XVI”, disegno per una delle tavole dei “Processi Celebri”, il disegno originale e due litografie per “Loterie clandestine” del 1948, un’acquarello di “Poltromamma” e un disegno preparatorio per un “Ritratto di Signora con testa d’uccello dal becco a spatola”. Di Clerici si espone anche un dipinto “Il sogno di Lessing”, dedicato al Laocoonte.

 

Marco Fabio Apolloni